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Cosa succede in Algeria

Da giorni, centinaia di migliaia di algerini scendono in piazza, mentre il presidente Bouteflika è in Svizzera a curarsi.

di Francesco Maselli

Una manifestazione di protesta nelle strade di Algeri il 26 febbraio (STRINGER/AFP/Getty Images)

Da giorni, centinaia di migliaia di algerini scendono in piazza per opporsi al quinto mandato consecutivo del presidente Abdelaziz Bouteflika, che guida il Paese dal 1999. Bouteflika ha compiuto 82 anni sabato scorso, e dal 2013 è molto malato: è stato colpito da un ictus, che limita in modo decisivo le sue capacità motorie e cognitive. Prima di diventare presidente Bouteflika è stato un importante esponente del Fln, il fronte di liberazione nazionale che ha condotto vittoriosamente la guerra d’indipendenza, ottenuta nel 1962, contro la Francia. Bouteflika ha ricoperto il ruolo di ministro degli Esteri giovanissimo, dal 1963 al 1979.

L’Algeria è quindi, di fatto, governata dalle persone a lui più vicine, in particolare dal fratello minore, Said. «Non vogliamo più essere governati da un ritratto», raccontano i manifestanti che dal 22 marzo protestano contro l’imposizione, per la quinta volta, di un presidente identificato con un potere corrotto e opprimente, incapace di liberare l’economia dalla dipendenza da idrocarburi, i cui proventi sono stati a lungo utilizzati per “comprare” la pace sociale, ma adesso non sono più sufficienti.

L’Algeria è il secondo paese più giovane del Maghreb, con una media di 27,3 anni, e il 45 per cento dei suoi 43 milioni di abitanti ha meno di 25 anni. Insomma, 18,7 milioni di algerini non conoscono altro che Bouteflika, che non prende più la parola in pubblico da sette anni, ed è costretto a curarsi a intervalli regolari all’estero. La situazione è paradossale: partito una settimana fa, Bouteflika è ancora in Svizzera a curarsi e non ha presentato la propria candidatura di persona. Per cercare di calmare i manifestanti, ieri sera il presidente ha promesso che, in caso di sua rielezione alle presidenziali del prossimo 18 aprile, convocherà una grande conferenza nazionale al termine della quale verrà stabilita la data di nuove elezioni anticipate, alle quali non sarà candidato.

Difficile dire se l’annuncio avrà qualche effetto, anche perché gli algerini continuano a manifestare (e l’hanno fatto per tutta la notte tra domenica e lunedì, nonostante l’annuncio di Bouteflika), e la situazione politica è in stallo, principalmente per due motivi. In primo luogo perché il regime non è stato in grado di trovare un accordo su un possibile candidato alla successione. La candidatura di Bouteflika è parsa quindi come il miglior modo per prendere tempo.

La clinica di Ginevra dov’è ricoverato Abdelaziz Bouteflika (FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)

Il secondo motivo risiede nelle divisioni interne all’opposizione, rappresentata da una miriade di partitini con agende e priorità molto diverse tra loro; gli altri candidati alle elezioni presidenziali per adesso non sono riusciti a sfruttare le manifestazioni di piazza. Il movimento El Mouwatana (“cittadinanza”), che ha dato origine alle proteste, riunisce parte dei principali oppositori politici al regime come Zoubida Assoul, presidente del partito Union pour le changement et le progrès ( UCP) (che è anche portavoce del movimento),  Sofiane Djilali, o l’ex candidato alle presidenziali del 2014 Ali Benouari. Ma non è un vero e proprio fronte unito dal punto di vista elettorale. Ognuno gioca per sé.

Tra gli oppositori, menzione particolare merita Rachid Nekkaz, attivissimo sui social network e in teoria ineleggibile perché sposato con una donna non algerina e perché non ha risieduto per dieci anni consecutivi in Algeria. Nekkaz, miliardario imprenditore nel settore informatico e immobiliare, è uno dei candidati più popolari tra i giovani, e ha organizzato un escamotage per aggirare le regole. Dopo aver passato settimane a raccogliere firme in tutto il Paese, è entrato domenica pomeriggio nella sede del Consiglio costituzionale ad Algeri per depositare la propria candidatura. Ma, colpo di scena, a uscire dall’edificio non è stato lui, bensì suo cugino e omonimo, nato nel 1974, che si è avvicinato ai cronisti e ha assicurato di essere «il vero Nekkaz», mentre l’altro svolgerà le funzioni di direttore della sua campagna. «Dopo che il Consiglio costituzionale ha rifiutato la mia candidatura sono stato costretto a utilizzare il mio piano b per restare in gioco e mantenere la pressione», ha spiegato l’imprenditore al Parisien lunedì mattina.

Contro il quinto mandato hanno manifestato separatamente anche alcune categorie della popolazione algerina, probabilmente quelle più sotto pressione da parte del regime: giornalisti, avvocati e studenti universitari. «Siamo qui per difendere la costituzione, i diritti umani, e per dire al popolo che siamo con lui in questi momenti decisivi», ha detto l’avvocato Athmane Bessalem, considerato vicino al partito laico Rcd (Rassemblement pour la culture et la démocratie).

Studenti manifestano alla facoltà di Medicina di Algeri il 3 marzo (RYAD KRAMDI/AFP/Getty Images)

Ciò che ha colpito gli analisti e i commentatori che hanno provato a descrivere quello che sta succedendo, è la grande disciplina dei manifestanti e, in fondo, anche delle forze dell’ordine. Poca violenza, tutto si è svolto in modo calmo e relativamente pacifico, le persone in piazza hanno addirittura pulito le strade dopo i cortei. Questo è un segno, oltre che di maturità, anche di consapevolezza che basta poco per rendere la situazione ingovernabile: una degenerazione delle proteste andrebbe a danneggiare innanzitutto chi, in questi giorni, sta chiedendo maggiore democrazia. Per la verità, in molti sono sorpresi dal fatto stesso che ci siano manifestazioni così partecipate. Secondo la storica Karima Dirèche, che ne ha parlato in una lunga intervista concessa a Le Monde: « Mi sembra che sia in primo luogo una questione di dignità e di onore oltre ad essere un’espressione di immensa stanchezza, nutrita dall’arroganza delle dichiarazioni ufficiali, le minacce appena velate e questa pantomima della sedia vuota occupata da un quadro con l’effige del presidente. Gli algerini vivono male l’umiliazione di questo rituale surreale di fedeltà a un quadro. Il regime ha sovrastimato la pazienza del popolo algerino, contando sulla depoliticizzazione del Paese dopo le violenze degli anni Novanta. Gli algerini oggi affermano il contrario: “Non andremo a votare per una sedia vuota”».

È anche vero che la rivendicazione principale, e finora anche unica, è il « no al quinto mandato », e questo è forse, insieme alle divisioni dell’opposizione uno dei principali limiti. La situazione sembra essere molto lontana da quella che abbiamo potuto osservare in Siria, il regime e Bouteflika non sono detestati dalla gran parte della popolazione. Secondo uno studente intervistato da Karim Kebir, corrispondente ad Algeri del Journal du Dimanche, che segue da vicino le proteste: «Se Bouteflika fosse ancora capace di dirigere il paese, tutti gli algerini voterebbero per lui. Ma è tempo che getti la spugna». E infatti i manifestanti, nelle proteste di venerdì, gridavano in piazza: «Ouyahia, l’Algeria non è la Siria!», per rispondere alle dichiarazioni del primo ministro Ahmed Ouyahia, che aveva messo in guardia i manifestanti da uno scenario siriano.

Qual è lo scenario più probabile? Secondo Boulem Sansal, scrittore algerino, l’opposizione difficilmente riuscirà a prendere in mano le redini della situazione. Intervistato dall’Obs, Sansal ha detto: « Esiste un’opposizione che possiamo qualificare come democratica, ma non è all’altezza, è divisa, infiltrata dai servizi e da opportunisti. Peggio ancora, non ha alcun contatto con il popolo, i giovani ignorano persino la sua esistenza. I soli che hanno un ancoraggio profondo nella società sono quelli del Fronte di liberazione nazionale (di cui Bouteflika è il presidente) e gli islamisti. Il dramma è questo: l’Algeria è stretta tra due sistemi totalitari».