Attualità

Pigneto fuori dal tunnel

L'apertura della metro in un quartiere diventato simbolo del radical-chic a Roma raccontata da una gentrificatrice che nega di esserlo.

di Nadia Terranova

Come tutti i gentrificatori, nego di esserlo. Io c’ero, io c’ero prima. C’ero quando per “officina” s’intendeva il posto dove aggiustavano le macchine e non una scuola di gastronomia democratica, quando i fighetti che oggi fanno tardi nei locali di loro importazione non avrebbero mai imboccato la Prenestina di notte senza cucirsi i soldi nelle mutande, quando l’isola pedonale non era un effluvio di shottini e pesce fritto, criminalità e aperitivi da tifo, nel senso della malattia. C’ero prima che spacciatori di tre continenti si spartissero i muretti, prima delle camionette e dei poliziotti che attraversano il quartiere con le mani dietro la schiena, quando le enoteche erano due e non duecento e nessuna vendeva la birra nei bicchieri di plastica, quando la biblioteca constava di tre stanze scrostate a ridosso della scuola elementare, quando se qualcuno avesse detto che andava a un “aperifilm” i bulli di periferia lo avrebbero menato (e anch’io), quando nessun attore veniva a fare i reading ma pagavamo un euro al pomeriggio al fu cinema Grauco. C’ero quando dire Pigneto non evocava niente di più speciale che Tiburtina o Alessandrino, quando nessuno avrebbe pensato di poter campare scrivendo del folclore di quartiere (e neanch’io), quando non si citava sempre Pasolini, al massimo ti raccontavano che una volta di là era passato Alberto Sordi. C’ero all’epoca dei pini che poi hanno abbattuto per sostituirli con alberi «di uguale pregio», affinché non cascassero sul cantiere. Già, perché io c’ero prima che iniziassero i lavori della Metro C.

Nel 2007 il comune di Roma ci scrisse avvisandoci che nel 2011 saremmo stati collegati al centro, come le persone civili nelle metropoli civili. Chiunque viva a Roma sa che quattro anni di ritardo sono la norma, è la trasposizione su scala del classico “se vedemo alle otto” che sottintende le nove. Siccome nulla piace ai romani nativi o acquisiti quanto parlar male del sindaco, del comune e della sovrintendenza, sono stati quattro anni bellissimi: abbiamo potuto lamentarci, sparare sentenze, improvvisarci archeologi, beneculturalisti, ingegneri. Alcuni fortunati non al bar, ma intorno al cantiere di una stazione, i più fortunati di noi intorno a quella del Pigneto. Sia chiaro: il cantiere è stato una rottura di scatole. Polvere, rumori, sensazione di fine pena mai. I prezzi degli immobili si alzavano un pochino per volta, vedrai come ti si rivaluta casa! Non c’era vendita o affitto che non pubblicizzasse: in prossimità metro, prossima apertura. Era gentrificazione selvaggia, invasione degli ultrafuorisede sempre più cinquantenni e sempre meno studenti, era lago di bottiglie, risse, figli di papà e farabutti. Sopportavamo, perché prima o poi saremmo arrivati ai Fori con due fermate: siamo gente di pretese piccole, noi pignetari della prima ora. Ogni tanto ti allontanavi per un paio di giorni, tornavi e lo steccato giallo si era mangiato un altro metro di marciapiede, a tradimento. Per un anno e mezzo lo steccato l’abbiamo avuto a ridosso del palazzo talmente in faccia che uscendo dal portone pensavo a quanto fosse discriminatorio: due chili in più e non sarei passata.

The Disused Underground Station Churchill Used As A Wartime Bunker

Il primo treno è partito ieri, 29 giugno 2015. Peccato che anziché portarmi in centro mi abbia spostato di una sola fermata, piazza Lodi, cinque minuti a piedi. Destinazione futuro, recita lo slogan, ma io mi sarei accontentata di una passeggiata al Colosseo. Le tre fermate che avrebbero prodigiosamente alzato il valore commerciale del mio appartamento, S. Giovanni, Ambaradam, Fori imperiali, sono scritte in color bianco fantasma. Sul depliant che mi hanno dato all’ingresso neanche ci stanno. Paghi un euro e cinquanta e già capisci che non c’è nessuna festa. Non ti regalano la prima corsa. Non ci sono le autorità, niente striscioni colorati, niente entusiasmo del popolo, siamo quattro gatti, proprio quattro di numero. Una famiglia del Bangladesh ci mette un quarto d’ora a entrare. Tutti e venti i tornelli sono liberi, ma la sicurezza pretende che il passeggino passi dal tornello giusto, deve fare il giro due o tre volte. Giusto, sprovincializziamoci: non facciamoci riconoscere subito, noi del Pigneto. La legge è la legge, se vuoi fare il furbo esci dalla metro e vai a vendere eroina come tutti. La metro è spaziale, poi arrivi giù, in mezzo ai binari e comincia il delirio. Due direzioni: Pantano e Lodi. Peccato che, contrariamente a quanto avviene ovunque, e anche a quanto sembrano indicare i cartelli, entrambi i treni passano da entrambi i binari, così che ti tocca stare in mezzo e tirare a indovinare. Non oso pensare al vecchietto che vuole approfittare per andare a trovare la sorella a Torre Spaccata e si ritrova risospinto al capolinea opposto per un numero infinito di volte (potrei essere io, quel vecchietto).

Accolgo con un «Ohhh» il treno senza guidatore, si dice driverless e c’è solo a Vancouver e a Parigi, ah no anche Docklands e perfino a Milano e a Torino. Hai capito, Pigneto? Nella capsula, una gentrificatrice a braccia tese riprende con l’iPad l’incredibile ingresso in stazione dal vetro davanti, un po’ come me a nove anni al secondo piano dell’autobus di Londra. La corsa dura pochi minuti. Spuntiamo in via La Spezia, all’angolo con via Savona, proprio di fronte al sexy shop. La metro per il sociale: ora possiamo rituffarci dentro con un gadget e tornare all’isola pedonale a rimorchiare. Certo, andare e tornare da Pantano ha la sua utilità, non si discute. Ma almeno fino a Giardinetti c’è già la vecchia ferrovia, il tranvetto che parte dalle Laziali, le fermate sono le stesse ed è uno dei pochi mezzi esistenti a funzionare bene, io poi lo adoro, vecchio giallo e stridente, praticamente un pezzo di Lisbona. Ma soprattutto: ok, abbiamo collegato la periferia alla periferia, ma il punto non era collegare la periferia al centro?

Torno a casa e il mio quartiere è vuoto. Aspetto da dieci anni questo giorno, invece sono andati tutti al mare. In piazzetta, io e la solita sfilza di africani con la musica reggae che vien fuori dagli smartphone. Penso alla sorte dei posti, alla mia, e so che si sopravvive a tutto. Nasci (o rinasci) al Pigneto, muori al Pigneto. In mezzo, un po’ di gentrificazione. Oggi sono fiduciosa. I prezzi degli appartamenti sono rimasti invariati, da qualche mese i cartelli «Prossima apertura Metro» sono spariti. Per fortuna, la mia casa non avrà alcun aumento del suo valore commerciale. Per andare in centro continuerò a prendere il motorino o l’81. Ora che potranno sbarcare qui con più facilità gli abitanti di quartieri meno alla moda, magari cambierà tutto in meglio, anche perché in peggio è difficile. Magari il quartiere si spopola di nuovo, magari tornano le officine, magari riapre il Grauco.

Fotografie di Peter Macdiarmid (Getty Images)