Attualità

Pietro e Maso

Le ragazze delle lettere in carcere (di cui parla molto) e la moglie (di cui parla poco). Abbiamo letto le memorie di Pietro Maso.

di Violetta Bellocchio

«Nessuna approvava il delitto. Tutte volevano conoscermi.» Così Pietro Maso riassume il tono medio delle lettere femminili ricevute in carcere, durante i 22 anni scontati per l’omicidio dei genitori. Di questo dettaglio, nel tempo, si è sempre parlato: le ragazze scrivevano a Maso. Tante, poche, nessuno lo sapeva. Come nessuno poteva dire con certezza se lui rispondesse, alle ragazze. E se tra di loro ci fosse la sua futura sposa.

Oggi Maso ha scritto un libro, Il male ero io, insieme alla giornalista televisiva Raffaella Regoli. L’ha dedicato a Stefania. Lui la chiama «la donna della mia vita». Secondo alcuni, Stefania sarebbe sua moglie, secondo altri la fidanzata. Si tende sempre a chiuderla in una singola frase, al di là dello stato civile: «Stefania, trentenne milanese di buona famiglia». Qualcuno aggiunge il cognome, Occhipinti.

Forse Maso e Occhipinti si sono sposati, nel 2010, forse in una chiesa cattolica vicino a Verona. Forse è stata Occhipinti a facilitare un incontro tra Maso e Fabrizio Corona, sempre nel 2010, incontro di cui esistono un paio di foto senza eccessivo contesto. Del resto, lei Corona poteva conoscerlo, dall’alto del suo essere una trentenne milanese di buona famiglia. “Tatuatissima“, qualcuno si è sentito in diritto di precisare, al braccio di un detenuto “abbronzato e palestrato”.

Perché possa nascere una fantasia abbiamo bisogno di due cose: di un ruolo, anche vago, e di un luogo fisico, anche offuscato. Se ci possiamo aggiungere una faccia, meglio. Però non è necessario. (Anzi, per qualcuno è un ostacolo.) Un uomo in prigione riassume in un solo corpo il ruoloil luogo, non importa di quale reato è stato giudicato colpevole, non importa se lo si considera innocente. (E nemmeno la morte fisica interrompe la fantasia: basta guardare gli altarini messi su dalle Columbiners, le groupie fuori tempo massimo di Eric Harris e Dylan Klebold.) Pietro Maso aveva un ruolo, un posto, una faccia famosa. Perfetto. Dall’altra parte, finché veniva tenuta fuori campo, finché restava una trentenne milanese di buona famiglia, Stefania Occhipinti era una fantasia riflessa: la donna che Maso aveva conquistato mirando molto più in alto di quanto avrebbe potuto permettersi, puntando sul fascino dell’uomo in prigione; di base, la sorella minore di quelle che in Sapore di mare e derivati cercano sempre di farsi il bagnino. Oppure era una donna fatua, che lui aveva avuto gioco facile a tirare verso l’abiezione. Katie Holmes, ti presento Persefone.

In assenza di chiarimenti che gli interessati non offrivano, comunque, Occhipinti e Maso si potevano essere conosciuti in due modi. Durante la semi-libertà di lui, magari perché lei faceva volontariato al carcere di Opera, come tutte le trentenni milanesi di buona famiglia, o perché lavorava in un programma per il reinserimento dei detenuti prossimi al fine pena. Oppure era successo prima, e allora il modo sarebbe stato uno solo, davvero. Lei era una di quelle ragazze che a Maso spediva lettere d’amore.

La realtà è molto più secca. Stefania, nel libro, entra in scena solo all’ultima pagina: lui l’ha incontrata in un bar di Melegnano, la cittadina alle porte di Milano nota ai non residenti per l’omonimo casello, sede dell’associazione di volontari dove Maso passava una parte del tempo ottenuto con la semi-libertà. (Perdonate il riferimento al casello; se si fossero incontrati a Settima, avrei detto «frazione di Gossolengo sulla statale 45, nota per la trattoria Settima Sosta».) Stefania, con la prima vita di Maso, non c’entra nulla. Di sicuro non gli ha mai scritto in carcere.

È stata una delle poche.

Loro scrivevano, «ti ho visto sui giornali, mi piacerebbe venire in carcere per conoscerti, come posso fare?»; lui non le invitava in carcere, e finiva tutto lì. Le più sfacciate si fotografavano in biancheria intima. Le più belle se le teneva da parte.

Le lettere di ragazze, Maso, le riceveva davvero. «Migliaia», dice lui, «nei primi anni ne arrivavano fino a venti al giorno». Ne ha tenute via parecchie, la maggior parte le ha buttate subito. Quando arrivavano lui le apriva, le leggeva a voce alta per l’edificazione complessiva dei compagni di cella, e se c’erano foto allegate alle buste le faceva girare. Loro scrivevano, «ti ho visto sui giornali, mi piacerebbe venire in carcere per conoscerti, come posso fare?»; lui non le invitava in carcere, e finiva tutto lì. Non c’era nessun desiderio di emulazione, nessuna ammirazione per l’omicidio commesso, e nessun ti capisco, anche a me i miei genitori stanno sul cazzo, dietro alle letterine accompagnate da ciocche di capelli, Polaroid di facce, bikini, «le più sfacciate si fotografano in biancheria intima». Le più belle lui se le teneva da parte, appuntando sul retro della foto nomi, cognomi e indirizzi, pensando che trent’anni dopo poteva andarle a trovare.

Solo una donna è arrivato a incontrarla, quando stava ancora al penitenziario di Verona: l’unica alle cui lettere Maso avrebbe risposto. Lui la chiama Alessandra, dice che aveva «un faccino pallido, perfetto. Da Madonna». Lei gli scriveva, «non approvo il tuo gesto, ma tu rappresenti l’ideale di ragazzo che io cerco». Si sono baciati in parlatorio.

Ecco: le donne del suo passato, Maso, le racconta. Una per una. Quelle delle lettere mandate all’uomo in prigione, e quelle con cui andava in prima persona. Magari precedute e seguite dal solito «ero un’altra persona allora…», però le racconta. Quindi, prendendo in mano un libro che si legge in un pomeriggio, interrompendosi giusto per sottolineare i passaggi su Miami Vice e rispondere «sì, moltissimo» al collega che la frase le donne e la bella vita la definisce «moltoVacanze di Natale 83», è possibile sapere a quanti anni Maso ha perso la verginità, come l’ha fatto, dove, con chi, se gli è piaciuto; è possibile sapere con quale livello di rappresentazione si svolgessero corteggiamento, conquista e rimpiazzo di ragazze sempre nuove, un rituale da cui Maso era ossessionato come oggi è ossessionato dall’uso del termine “rappresentazione”; è possibile sapere che lingerie portava la prostituta trentenne fuori dalla stazione di Porta Nuova, a Verona, quando lui aveva diciott’anni, cosa gli ha detto lei («per te che sei così carino bastano cento»), e da quale macchina lei è scesa (una Maserati).

Insomma: 192 pagine inchiodati alla fase il peccato e la punizione. Sulla donna della sua vita, non una parola.

Stefania Occhipinti è una moglie fantasma, protetta dalla formula «…ma questa è un’altra storia»; il loro rapporto va in onda in forma privata. Forse perché Stefania è la moglie di Pietro, non la ragazza di Maso. E Pietro Maso ci tiene tanto, a tirare una linea tra queste due persone, tra “Pietro” e “Maso”; Maso è quello entrato in carcere a 19 anni, il tamarro veneto diagnosticato come «narcisista bipolare» dallo psichiatra Vittorino Andreoli durante il processo, e, va da sé, è stato Maso che ha ammazzato i genitori; Pietro è il bambino sempre ammalato, il ragazzino che passò un anno in seminario perché voleva diventare prete, l’adulto che ha scontato la pena materiale e continuerebbe a scontare il peso del reato commesso. Per chi vuole seguire questa traccia narrativa, il passo successivo è riscrivere l’intera vicenda come quello che accade tra una strofa e l’altra di un vecchio pezzo degli 883, con Pietro nella parte del narratore e Maso in quella del fico di paese, l’eterno rivale, “il vincente” che grazie a un incrocio tra soldi e sicurezza di sé riesce a cuccare Alessia Merz. Oppure, più avanti, una trentenne milanese di buona famiglia.

Stefania Occhipinti, invece, fa la commessa in un negozio. A Milano. Forse.