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L’amore, la provincia e l’eternità

Dialogo con Alcide Pierantozzi, tornato al romanzo con L'inconveniente di essere amati.

26 Aprile 2020

L’inconveniente di essere amati, di Alcide Pierantozzi, è stato l’ultimo romanzo del mondo com’era prima. Una storia d’amore molteplice, o anche una storia sulla molteplicità delle forme che può incarnare l’amore. Il titolo calca uno dei capolavori di Emil Cioran, tra i più grandi autori di prosa del Ventesimo secolo. Ma l’analogia si ferma qui. Il romanzo di Pierantozzi è piuttosto un “Camere Separate” del 2020, o sarebbe meglio dire del 2019. Faccio riferimento all’ultimo dolente titolo della bibliografia di Pier Vittorio Tondelli perché ho ritrovato un pezzetto della mano tenera e triste dello scrittore romagnolo. Alcide – che come il protagonista del romanzo ha tracciato un percorso da Milano verso la propria terra d’origine, nell’Italia interna centro-meridionale, nella provincia scabra – è un narratore preistorico, che pur con tutto il suo talento e il suo aver letto tutti i libri e la sua portentosa vitalità mentale, va a caccia di qualcosa di vero. Mi pare, oggi, nell’aria catastrofica che non c’entra nulla con questo romanzo di avventure morali, il miglior apprezzamento si possa fare a un autore.

ⓢ Cosa si prova ad aver fatto uscire il libro più impellente e importante della tua vita nel periodo peggiore per l’editoria di ogni tempo?
Un grande dispiacere, ma anche l’ignobile soddisfazione che il libro sia uscito, che ho fatto in tempo a pubblicarlo.

ⓢ Cosa pensi di Cioran? Il titolo è una variazione meravigliosa su un titolo già meraviglioso.
Il titolo nasce molto prima della scrittura del libro e, ti dico la verità, Cioran c’entra relativamente. L’omaggio non va preso come una mia dichiarazione d’amore all’autore rumeno, che ho parecchio letto e di cui penso ogni bene possibile, ma anche che abbia fatto di tutto per non farsi capire, un po’ come Nietzsche. Tra i grandi distruttori della tradizione preferisco Leopardi, cristallino come l’acqua, che non aveva questo problema. “Che fai? “, chiedeva sfacciato alla luna. È una domanda così profonda, pensaci. Da piccolo pensavo dicesse: “che fai tu luna in Cile?”. Hai sentito cosa hanno detto gli inglesi quando è stato tradotto da loro? Hanno detto: bravo però questo Leopardi, si vede che ha letto il nostro John Locke! Gli inglesi…

ⓢ Quale musica hai ascoltato ossessivamente durante la stesura del romanzo?
“Doria” di Olafur Arnalds, continuamente. Poi Annie Lennox, Thom Yorke nella parte finale, Thegiornalisti nelle scene con Manolo, ma anche molta musica diciamo ballabile. Posso dire che questo libro non l’ho scritto, ma l’ho ballato. Mi ero dato una regola: non scrivere per più di venti minuti al giorno, non puoi offrire al lettore il risultato della tua fatica quotidiana, stavolta devi farlo piangere. Però per scrivere così poco e bene ci si deve preparare come attori prima di andare sul set, si deve restare sempre in riscaldamento. Anche quando il regista dice stop tu devi continuare a rimanere nella parte, altrimenti è finita. Così mi svegliavo alle sette della mattina e cominciavo a entrare nel mondo del libro ballando davanti allo specchio con la musica nelle cuffie, o passeggiando al mare, concedendomi moltissimo tempo di relax. L’ho scritto tutto sulla carta, su dei grandi fogli protocollo a righe e a matita, ogni dieci giorni raccoglievo un po’a casaccio questi fogli e li copiavo al computer ma non su Word che non mi piace, così il mio agente ogni sera era costretto a riconvertirli e a metterli a posto. Non oso immaginare la quantità di pagine perse chissà dove, divorate dal cane, volate via sulla spiaggia di San Benedetto o ai Giardini Montanelli di Milano.

ⓢ Ti piace Pynchon? Non pensi che stiamo vivendo in un’epoca radicalmente pynchonesque?
Metto le mani avanti: non è un autore che conosco benissimo, anche perché ci vuole un certo tempo per leggerlo tutto. Nell’Incanto del lotto 49 ricordo che all’inizio non riuscivo a entrarci, mi sentivo preso per il culo, poi quando ci sono entrato ho capito che è una cosa che succede con la maggior parte dei libri importanti, che all’inizio le sensazioni che ci suscitano sono ambigue, come quelle verso qualcuno di cui potremmo innamorarci. Quanto alla nostra epoca, boh… io ho sempre più l’impressione che sia impossibile fotografarla mentre accade: vale per ogni epoca, certo, ma per questa più delle altre. L’epoca che stiamo vivendo, purtroppo, è radicalmente philiprothesque. Gli psichismi, e con essi il gioco virtuoso della letteratura massimalista (che comprende ogni forma di minimalismo di risposta), stanno lasciando il posto alle grandi domande. Il decoro e la decorazione, ecco, che ha incantato per anni noi che volevamo fare gli scrittori, difficilmente faranno breccia nel cuore dei lettori futuri. Vedrai che anche nell’arte ci sarà un ritorno al concreto, al sobrio. Credo ci sarà bisogno sempre di più di libri che ci riportino al nudo dell’umano, al nostro rapporto con il significato della morte, libri come Il teatro di Sabbath, come Everyman, come La strada di McCarthy (quando uscì lo sottovalutai moltissimo e adesso me ne vergogno).

ⓢ Chi sono stati gli eroi letterari e artistici seduti sulla tua spalla mentre scrivevi il romanzo?
Stavolta sulla mia spalla si sono seduti eroi del cinema. Ho studiato molto la struttura di Mommy e di Una giornata particolare, ma soprattutto alcuni film di Bernardo Bertolucci, come La luna. La rosa vertiginosa della dedica è un riferimento alle «piccole rose vertiginose che decorano il soffitto» nel poema “La camera da letto” del padre Attilio.

ⓢ Ogni libro riuscito ne contiene uno fantasma, un gemello affogato nel liquido amniotico. Quale sarebbe nel tuo caso?
Non solo, ma ne contiene anche un altro, di gemello fantasma, potenzialmente più bello e riuscito. Io di solito diffido molto del potenziale, perché se ci pensi è una grandissima perdita di tempo. Non credo che la creazione artistica sia il risultato di una serie di esperienze culturali e di tentativi falliti in precedenza, non credo che la scrittura ci rappresenti in quanto individui. Se dovessimo metterci a leggere i libri dopo aver conosciuto i loro autori, nove volte su dieci li butteremmo dalla finestra. Ogni tanto accade un libro. A volte è riuscito, altre no. Io non sono uno che scrive e poi butta, di solito, proprio perché è lunghissima la fase di sedimentazione emotiva cui mi sottopongo. Se questa sedimentazione non matura abbastanza, come mi è successo in passato, il risultato non è buonissimo. Scrivere è una cosa talmente complessa, soprattutto in italiano, e soprattutto un romanzo, che sarebbe impossibile tenere sotto controllo stile, struttura, registro, contenuti, e conoscenze culturali in un unico processo creativo, a meno di non porsi qualche domanda seria sulla funzionalità del proprio cervello. Col tempo ho imparato che l’unica vera ricetta è che devi amare tanto la tua storia, i tuoi personaggi, devi essere ossessionato dall’argomento che tratti. Se no non funziona, perché non stai dando il meglio di te, e il libro affoga. Dobbiamo dare sempre il meglio di noi, anche a costo di scoprire che alla fine non era un granché.

ⓢ Trovo che Sonia sia un personaggio fondamentale nella storia del romanzo. Se fosse un’attrice, sarebbe o potrebbe essere Fanny Ardant? Il tuo libro potrebbe intitolarsi “finalmente amare!” Anziché “finalmente domenica”?
Che bella Fanny Ardant! Quando l’ho vista scendere sulla scala ne La grande bellezza mi sono commosso. È stato difficile mettermi nei panni di Sonia, perché io sono un maschio. E temi come quello della maternità, o del sacrificio della carriera per un figlio, o della violenza domestica, non li ho mai vissuti personalmente. Ecco, quando mi dicono “ma come hai fatto a entrare cosi tanto nella testa di una donna?” non so mai cosa rispondere, non posso certo rispondere che mi sono lasciato ispirare dalle storie delle mie amiche. Forse il fatto di crescere con le mie nonne in un contesto contadino mi ha fatto conoscere quello che le donne detestano, ben più di quello che amano, o forse perché i miei riferimenti letterari più importanti sono femminili, quindi certe cose le ho filtrate da Elsa Morante o da Marguerite Duras. In fondo io il mondo l’ho visto, e l’ho letto, principalmente dal punto di vista delle donne, e anche gli uomini ho imparato a conoscerli attraverso di loro. Se ci fai caso i personaggi maschili li racconto sempre da una certa distanza e con una diffidenza ai limiti della paranoia.

ⓢ Un libro di Queneau s’intitolava La domenica della vita; trovi che la girandola dell’amore e dell’essere attratti in una poetica della relazione sia la “domenica della vita”? E il massimo paradiso possibile? E un progetto irrealizzabile o un progetto non realizzato?
Vedi, io non credo affatto che sia il dolore stanco del lunedì a contraddistinguere il significato della nostra esistenza. Esiste questo nostro restare in ombra per qualche decennio, questa contraddizione continua che si presenta alla coscienza come un sogno fatto dopo una sbronza micidiale, esiste questa perdita continua degli altri, questa uscita di scena delle persone che abbiamo amato. Ma dubito sinceramente che la storia finisca qui, dubito fortemente che non le rincontreremo in un ottica relazionale immensamente più profonda: quella della veglia. In quella “domenica della vita”, appunto, che è eterna. Poi magari mi sbaglio, ma più che come una possibilità tra le altre, per come la vedo io l’eternità è un fatto.

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