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Che fine ha fatto lo stile personale?
Un guardaroba di essenziali è preferibile a un armadio pieno di capi e accessori spesso in contrasto fra loro? La discussione social intorno al “personal style” ci racconta cosa significano oggi i vestiti, tra spirito di emulazione, nostalgia e consumismo estremo.
«È una cosa davvero folle… Sofia Richie sembra divertirsi senza sforzo perché [in quel video] è semplicemente sé stessa, è assurdo cercare di copiare il modo in cui una persona si comporta e filmarti mentre fai la stessa cosa» scrive in un commento un utente preoccupato dalla deriva idiotica di molti trend su TikTok. L’ultimo sarebbe appunto “Sofia Richie Dancing”, ovvero Richie che muove le spalle a tempo sul ritornello di “Messy” di Lola Young. Non fa mica coreografie esagerate, si muove giusto un po’, ha gli occhiali da sole, un completo di cachemire (sarà quello il segreto?) e degli orecchini, quelli sì, vistosi. È rilassata, illuminata dalla luce di un terrazzo di quella che immaginiamo essere una grande villa: è aspirazionale, ci avrebbero spiegato qualche anno fa. Nel post Covid, Richie è stata una dei punti di riferimento dello stile “old money” che è impazzato sulla piattaforma, e purtroppo anche sulle passerelle (a quella fascinazione abbiamo dedicato il numero 56 di Rivista Studio), un fenomeno che altro non ha evidenziato se non la graduale trasformazione della moda in lusso. Un maglioncino di una lana pregiata, una routine mattutina lenta, dei complementi di arredo dai colori tenui, un profumo di nicchia. Il tentativo di imitare «il modo in cui una persona si comporta», però, fa parte di una discussione più ampia che in quest’ultimo mese è partita sempre sui social, a cominciare da Youtube, e dal modo in cui oggi ci si rapporta a influencer, celebrity o chiunque si guadagni il titolo di icona di stile.
Ha iniziato Mina Le, con il video saggio “the death of personal style”, che oggi ha più di un milione e mezzo di visualizzazioni, in cui ha raccontato com’è cambiato il suo stile personale nell’ultimo periodo: divenuta “famosa” online per la sua passione per il vintage e i look eccentrici, ha raccontato ai suoi follower di essersi allontanata da quella che si è rivelata essere una fase, scherzandoci su: «Sono diventata una basic bitch?». I punti sollevati da Le sono interessanti, soprattutto quando parla del rapporto tra creatività, persona social e persona privata. Vestirsi in maniera eccentrica è stato per lei un modo di esprimere sé stessa nella vita reale e quindi di emergere online, diventando riconoscibile, ma ora che nell’industria ci lavora qualcosa è cambiato. Probabilmente è solo cresciuta, viene da pensare a noi anziani, ma c’è anche che la sua preoccupazione nel vestirsi sostenibile le ha fatto capire che vintage, o second-hand, va bene, ma forse è ancora meglio possedere meno cose, e che quell’idea dell’uniforme magari non era completamente sbagliata.
In particolare, l’idea di diventare uno strumento per il marketing dei brand di moda l’ha fatta riflettere: non è la personalità a venire premiata, ma l’estrema adattabilità, l’essere malleabile a questo o quel look, il tempo di una sfilata o un video sponsorizzato, e via al contenuto successivo, non che sia necessariamente un problema. Ma è questo che fanno i creativi? E sarà per questo che i designer si vestono di nero? E perché ogni fashion week ci lamentiamo di quanto le prime file siano occupate da influencer che sono per niente persone in grado di esprimere un gusto personale?
Pur senza un collegamento diretto, le ha fatto eco qualche giorno dopo Emma Chamberlain, che sul suo profilo Youtube ha pubblicato un video dal titolo “I got rid of (almost) everything” in cui ha annunciato di aver fatto fuori quasi tutto il suo guardaroba. Chamberlain è la Youtuber che forse più di altri ha definito quello che, sempre noi anziani, definiamo “stile Gen Z”: caotico, caustico, disordinato e volutamente low-fi. Un po’ di Y2K, un po’ di streetwear, un po’ di pezzi moda, un po’ di qualsiasi -core sia andato virale: Chamberlain inizia il suo decluttering mostrandoci quello che ha tenuto, con un’ammissione di colpa. «Credo che una delle ragioni per cui ho accumulato una quantità così ridicola di vestiti sia perché volevo stare al passo di internet. Si parla sempre di indossare una nuova tendenza, sperimentare nella speranza di trovare altre nuove tendenze, seguire tendenze già esistenti, shopping “haul” [i video in cui si mostrano i nuovi acquisti]… è come se, su internet, fossimo tutti sulla ruota di un criceto quando parliamo di moda, almeno io ero decisamente su quella ruota. Non sono fiera di ammetterlo, ma non volevo indossare la stessa cosa due volte su Instagram», dice.
Il suo decluttering, va detto, non è quello che definiremmo una svolta riduzionista: Emma Chamberlain ha ancora un sacco di roba, ma si è liberata di tutto quello che, a suo parere, era «troppo urlato, troppo di tendenza, degli statement pieces», dove per questi ultimi si intendono cose particolarmente vistose che spesso sono difficili da abbinare. Ha abbracciato il “guardaroba capsula”, ma a modo suo: ha comunque più di trenta pantaloni e una quantità spropositata di magliette bianche, scarpe e borse, che lei ci assicura di indossare tutte. «Non avevo realmente bisogno di uscire a comprare qualcosa di nuovo, avevo già tutto»; «Dovevo smettere di fare shopping. E dovevo fare una pulizia nel mio guardaroba»: è questo, in realtà, il messaggio più importante. Compriamo troppo, contribuendo a un circolo distruttivo e inquinante, e ci vestiamo comunque male. Un messaggio che è stato recepito, ma che ha anche scatenato polemiche tra chi si è sentito preso in giro e chi ha sottolineato come, in entrambi i casi citati, il guardaroba sarà anche basic perché meno colorato, ma non è di certo alla portata di tutti.
«Puoi indovinare lo screen time di una persona da come si veste», aveva detto la giornalista Alexandra Hildreth lo scorso anno a Vogue Business, in un articolo dedicato a come lo stile personale sia rimasto intrappolato nell’algoritmo, frammentandosi in una miriade di micro-trend. Non è certo un meccanismo nuovo, ma è stato esacerbato dai social media al punto che, quasi senza rendercene conto, siamo tutti portati all’acquisto compulsivo. Ne parla anche il recente documentario di Netflix Buy Now, a cui si perdonano i toni cospirazionisti perché, ecco, alla fine dice cose vere. Si prenda il caso dell’obsolescenza programmata degli oggetti tecnologici e lo si applichi allora alla moda, o almeno a ciò che è diventata oggi dopo l’esplosione del fast fashion, la supply chain globale e il cambiamento nelle abitudini di consumo: inconsciamente o meno, i nostri armadi sono troppo pieni e spesso la maggior parte di ciò che custodiscono non regge la prova del tempo.
Ma la discussione sullo stile personale ci dice anche altro, perché ha a che fare con la parte più immateriale della questione, quella che riguarda l’ispirazione e l’emulazione. Senza più giornali di settore a dettare le regole, senza più muse autentiche o percepite come tali, di fronte allo scricchiolio dell’influencer marketing e alla mercificazione delle sottoculture (che no, non sono morte), sempre più persone si chiedono online come fare a costruirsi uno stile che le rispecchi, che racconti dei loro interessi, che le aiuti a posizionarsi nella società e ad affrontare la quotidianità. E sembrano non trovare delle risposte o, al contrario, di trovarne troppe e discordanti tra loro: ma quindi dobbiamo rimetterci gli skinny jeans come quelli di Alix Earle? La risposta, come sempre, è nel primo commento: WEAR WHAT YOU WANT (l’utente è “ur mom”, a cui mi sento di dover dire grazie).