Attualità | Dal numero

Pastorale bergamasca

Ritratto di Giorgio Gori: la storia della sua Opa su Bergamo Alta, i trascorsi berlusconiani, la discesa in campo.

di Michele Masneri

Tutte le fotografie sono di Alessandro Furchino Capria.

Follow the money? Bisogna essere proprio dei bravi cristiani per non esercitare il vizio capitale dell’invidia in presenza di Giorgio Gori, cinquantacinquenne che ne dimostra quaranta, una moglie bella e famosa, un passato che sembra un’idea di Stefano Accorsi, una buonuscita che ne ha fatto un uomo assai ricco; una “discesa in campo” non lineare ma alla fine fortunata, con atterraggio morbido in uno dei comuni più liquidi d’Italia. E allora possiamo parlare dell’operato da sindaco in questa città, Bergamo, bella e pulita e ricca, molto ricca, dove il povero cronista venendo dalla disgraziata capitale non riesce proprio a intravedere degradi o disagi, anche se Gori in campagna elettorale diceva di voler «soprattutto ricomporre il tessuto sociale di Bergamo alta». E forse sta tutta in questa frase la narrazione goriana: Bergamo alta è un’altra città, vista da sotto sembra il Castello di Praga, ma non ospita il potere pubblico, bensì quello privato. Il municipio infatti è in basso, eccolo lì, palazzo Frizzoni, già dimora di una dinastia di mercanti engadinesi, forse marinari (ci sono ancore nel pavimento di seminato dell’atrio del sindaco, accanto allo stemma Frizzoni). Il potere civico sta sotto, il soldo vero e la feudalità sopra, vorrà dire qualcosa. E Bergamo alta non è Bergamo e non è Italia, e dove sarà mai questo tessuto sociale che si sta sgretolando? È una Lubecca di palazzotti medievali, ecco quello Colleoni con le tre palle, ma per andare a vedere casa Gori basta seguire il «percorso dimore storiche», una via di lussi patrizi e laterizi, con lastrici a spina di pesce come parquet di lusso, e facciate quattro e cinquecentesche con citofoni gentilizi («Radici-Calvi di Bergolo») e stemmi passati direttamente al prêt à porter dall’araldica, dalle tre palle ai levrieri d’ottone su casa Trussardi. Di fronte, il palazzotto Gori, settecentesco e giallino, con persiane e finestre di un grigio lattiginoso, e giardino di rose e magnolie e gelsomino, che fa d’angolo proprio ai Trussardi e affaccia su una loggia, che guarda giù, verso Bergamo bassa. Che difficile fare tanti soldi in questo paese di invidiosi ed ereditieri, e però questo sindaco ha trovato una via: di soldi non ne aveva in partenza, se li aveva mente («mio padre era impiegato alla Montedison, dunque stavamo a Marghera, io sono nato a Bergamo perché qui da sempre stava la famiglia, c’erano i nonni»). La mamma invece professoressa d’inglese, dunque ceto impiegatizio, e naturalmente città bassa, e dunque tutta una scalata sociale fin su, qui dove non è difficile arrivare, una volta fatti i soldi: basta seguire, dalla stazione, il viale Giovanni XXIII, che poi diventa Vittorio Emanuele, e old e new money si confondono: ecco l’immobiliare Percassi da dove originano i denari del nuovo patron dell’Atalanta, potere economico in ascesa, terme di San Pellegrino, tutti gli outlet d’Italia, i reggiseni di Victoria’s Secret («ci ha dato una mano a salvare la Volley Bergamo femminile», dice il sindaco).

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E poi si prende la funicolare, come in una Napoli però svizzera, ed ecco le ville storiche, e a sinistra, il liceo classico Paolo Sarpi, dove tutto è cominciato: lì il giovane Gori studia, nel liceo bene della città, dove hanno studiato tutti (i Trussardi, i Bombassei, i Feltri), fa politica («rappresentante di classe, poi di istituto»), lì conosce un professore di latino e greco fondamentale tipo Attimo fuggente e compagni che saranno altrettanto fondamentali, tra cui Lorenzo Pelliccioli, futuro grande manager. Il suo essere di sinistra è non marxista, è socialista («craxiano» dirà a Vittorio Zincone su Sette), mette su un gruppo lib-lab che si chiama Azione e Libertà. Sono gli anni in cui la sinistra a Bergamo è forte e ruggente («sul Sentierone, il viale principale della città bassa, c’era Prima Linea, formazione di estrema sinistra, e il suo leader Michele Viscardi, “Michi dagli occhi di ghiaccio”, che girava con la pistola in tasca», mi dice una compagna di liceo del sindaco).

Intanto Giorgio dagli occhi di ghiaccio non potrebbe essere più lontano da tutto ciò: con la sua estetica Algida, («gira su un Ciao bianco, camicia bianca, jeans giusto», dice l’ex compagna), si diploma con una tesina «sul Bauhaus», dice lui oggi, e poi comincia a fare giornalismo, Tv e radio locali, entra nel 1981 a Bergamo Oggi «gestito da una cooperativa da cui molti faranno carriera, con Belpietro capo dell’economia, quando ancora era comunista, Papetti, Cristiano Gatti; tre anni, dal 1981 al 1984, poi la proprietà ha mollato ed è arrivato Vittorio Feltri, il quale dopo tre mesi mi ha cacciato», in quanto «fighetto di sinistra, che voleva solo parlare di Cuba e di antimafia e non delle robe che interessano un giornale locale, cioè le farmacie aperte, i cinema, i canili, eccetera».

«Ma la sfiga a volte apre grandi possibilità», dice il sindaco, e in effetti il giovane Gori avrebbe potuto fare un’onorata carriera da giornalista macroregionale, invece ecco la parentesi della laurea in architettura (niente Bauhaus, questa volta urbanistica. «Ma non ho mai fatto l’esame di Stato, sono dott., non arch.»). Poi grazie all’antico compagno di corso Pelliccioli, già direttore generale di Bergamo Tv, nel frattempo diventato boss della Rete 4 ancora mondadoriana, viene messo a fare da assistente a Carlo Freccero. Dopo tre mesi la Mondadori viene comprata da Berlusconi e nel pacchetto passa di mano anche Gori.

Qui comincia una nuova fase della pastorale bergamasca, e il grande equivoco sull’identità goriana, perché poi per tutta la sua vita futura Gori sarà perseguitato dall’immagine di «raffinata testa d’uovo del berlusconismo degli anni ruggenti», secondo lo storico piddino, tendenza Bersani, Miguel Gotor. In realtà con Berlusconi i rapporti finiscono definitivamente nel 2001 quando Gori lascia la sua avventura alla Fininvest e fonda Magnolia. Ma anche prima non sono stati rapporti amorosi; Gori è il più giovane della piccola fronda composta dai senior Enrico Mentana e Maurizio Costanzo – Costanzo che poi gli fa da testimone di nozze con Cristina Parodi, aneddoto: «vado a trovarlo a Roma, gli accenno al mio matrimonio, lui in tre secondi decide che deve farmi da testimone, è uno sposatore seriale, ha fatto da testimone a mezza Fininvest». Berlusconi invece si presenta alle nozze e da mitomane seriale sostiene d’essere lui ad aver fatto conoscere gli sposi (Gori smentisce).

Ma com’era fare opposizione al Cav. prima della discesa in campo? «Discussioni. Gli inviti ad Arcore che a un certo punto finiscono di colpo. Finiscono anche quando mi rifiuto di mandare in onda su Canale 5 un filmino natalizio tipo sudamericano con Berlusconi che incontra le famiglie povere». Adesso naturalmente la Tv Gori dice di non guardarla, e qui però pare troppo, lui che la Tv – buona parte di quella che c’è in circolazione – l’ha inventata o importata, da Scherzi a parte a le Iene al Grande Fratello (notazione di un osservatore: «Prima di conoscerlo, ero emozionato perché pensavo si trattasse di un genio che da una specie di superiorità culturale riusciva diabolicamente a manipolare le menti del pubblico; poi quando l’ho conosciuto è stata una delusione, perché questa perfetta sintonia coi gusti popolari non veniva dall’alto, era una naturale sintonia»).

«Guardo solo Masterchef e X Factor, ma rarissimamente, coi miei figli», dice, e pare difficile credergli. «La Tv non è più al centro del dibattito, è marginale». Comunque, per quel poco, pare che guardi solo la Tv del secondo periodo Gori: quello di Magnolia, il decennio 2001-2011 in cui alimenta i format che lo porteranno a Bergamo alta, altissima (il fatturato era di 34 milioni di euro, non si sa quali multipli siano stati applicati, dice «ho fatto due soldi», con understatement un po’ insopportabile).

Dalla vendita di Magnolia inizia la terza fase: ormai infeudato in città alta, Gori cerca un signore che fa il sindaco di Firenze e si chiama Matteo Renzi. «Gli scrivo un sms perché me ne aveva parlato Luca Sofri, mio amico, avevo questa voglia di partecipare, Sofri mi disse che secondo lui bisognava puntare su Renzi. O su Civati». Il dubbio che si pone al cronista è: ma con quelle cifre, perché la politica? Perché Renzi e Civati, e non una fazenda in Argentina? Niente, c’è questa «voglia di partecipare», dice lui. Gori comincia ad andare sempre più frequentemente a palazzo Vecchio, dà consigli, arriva di mattina presto, tenta di portare organizzazione bergamasca nel caos renziano. Non ci riesce (notazione di un conoscente: «Gori è uno stakanovista, lavora dodici ore al giorno, è uno ostinato, arriva con le sue cartellette e con i suoi appunti. È capace di passare ore in riunioni pallosissime, si alza prestissimo, con un programma preciso. Con Renzi non si prendono e non si prenderanno mai»).

I rapporti con «Matteo» rimangono infatti cordiali, ma il mito di Gori demiurgo della Leopolda, testa d’uovo eccetera, è una pura invenzione giornalistica. All’inizio la paranoia arriva a farlo definire come spia berlusconiana. Poi sarà l’uomo della tv al fianco di Renzi, l’inventore del format “Vita Leopolda”. Niente di tutto questo. Il contributo è modesto: alcuni dei punti della Leopolda 2011, documento programmatico che per caso esce proprio dal computer di Gori, «perché l’avevamo salvato sul mio Word», dunque anche lì l’equivoco della testa d’uovo, poi più niente. Nel 2012 Renzi perde contro Bersani, e poi Gori, candidato al Senato, perde al collegio di Bergamo. Inopinatamente non ripensa all’opzione Sudamerica, ma rilancia a livello locale. Si iscrive in sezione a Bergamo, apre una sua fondazione Bergamo Innova, comincia a calarsi «nel territorio», e comincia anche un lavoro di pars destruens estetica. Per fare il sindaco Gori ritorna a essere il figlio dell’impiegato di Marghera, anche la campagna elettorale è una specie di spoliazione dal bling ring accumulato a Milano 2 e ai Telegatti: i manifesti elettorali 6×3 sono di studiata bruttezza già dal claim: «Concreto. Dinamico. Bergamo» (mentre «Dinamico ogni giorno» è quello delle Trenord, le ferrovie regionali sgarrupate che costituiscono l’unico collegamento col mondo della pastorale bergamasca: l’antico Pendolino che portava a Roma si è fermato a Brescia; Orio al Serio è servito dalla ritardataria Blu Panorama, e basta. Sui trasporti il sindaco milionario punta molto per rilanciare questa città bella ma de-industrializzata). Nelle foto riesce ad avere gli occhiali storti, e un profilo sbagliato, e lo sguardo obliquo: un imbruttimento che forse ha funzionato, insieme a una campagna casa per casa, riuscendo a vincere le diffidenze.

Certo i cortocircuiti rimangono: la first lady scherza volentieri, si fa fotografare con lo stesso abito di Michelle Obama, poi però a detta di sciure locali non si mischia, «non compare che negli eventi top», è una Claire Underwood riluttante, si è vista all’apertura della gloriosa Accademia Carrara e del monastero di Altino (il Gori architetto punta molto sulla riqualificazione urbana: si è posto come obiettivo il cemento zero e il consumo di suolo zero, ha riaperto la gloriosa Accademia, ha restaurato il monastero, ha tutto un progetto per riqualificare le grandi caserme abbandonate della Guardia di Finanza di Montelungo insieme a Cassa Depositi e Prestiti, e trasformarle in campus universitario; negli ex Ospedali riuniti andranno le Fiamme Gialle).

Il sindaco milionario anche ci gioca, coi cortocircuiti: le frequentazioni coi Trussardi-Hunziker, un capo di Gabinetto che si chiama Christophe Sanchez ed è un ex autore di Scherzi a parte e sembra una provocazione per un Pd bergamasco «tradizionalmente molto ortodosso». Le reazioni ci sono in campagna elettorale: scandali ormai tipici del cursus honorum da sindaco, a base di Suv («la mia Audi Q7, parcheggiata 20 secondi su un posto per l’handicap, ma una signora è riuscita a fotografarla ed è finita sui giornali, un’altra volta la nostra colf sempre col medesimo Suv parcheggia sul passo carraio, ma era il nostro passo carraio, e però Paolo Berizzi di Repubblica fa il pezzo; non è stato difficile, abita di fronte a casa mia»).

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Poi, per ora, la luna di miele. In questi giorni si festeggia anche la prima coppia che si è registrata nelle unioni civili a Bergamo, «l’avevamo promesso in campagna elettorale e l’abbiamo fatto, non mi sembra niente di speciale», dice, e qui si conferma la fama di sindaco decisionista; diversamente da Matteo, però, dialogante, con una maggioranza composita (undici consiglieri del Pd, sei della sua lista, due di un patto civico collegato con la lista Ambrosoli, uno di Sel).

Ma cosa farà da grande, Gori, non si sa. Il direttore generale di una Rai renziana? («Non ora, magari tra qualche anno, sto bene qui»). Pensa a un secondo mandato (a Milano invece gli si chiede chi vorrebbe: magari Berlusconi? «Ma per carità; vorrei Ada Lucia De Cesaris, la vice di Pisapia, assessore all’urbanistica, bravissima», ecco ancora il Gori architetto). «Ostinato com’è, potrebbe avere un futuro nazionale, tra una quindicina d’anni», dice un antipatizzante. L’architetto-sindaco, il campione della medietà che si è fatto signore della città alta congeda il cronista, deve ricominciare a trasformare Bergamo in smart city. Intanto «abbiamo risistemato la stazione, dall’Italcementi abbiamo avuto i soldi per il palazzo del Ghiaccio, cerchiamo di attrarre i privati, le fondazioni bancarie. Stiamo cercando di rendere più trasparente l’amministrazione, di alleggerire la macchina burocratica per le imprese. Riportare l’industria in città». 

Proprio oggi è stato inaugurato il wi-fi gratis in tutta la città, il sindaco è contento, «funziona, siamo i primi». L’uomo-Fininvest, per quanto riluttante, viene fuori in certe insofferenze verso la lentezza della politica; «se una cosa la puoi fare oggi, falla oggi», e un’ossessione per «la delivery puntuale». Pare che il tessuto sociale di Bergamo Alta sia comunque in ottime mani.