Cultura | Fumetti
I live action passano, One Piece rimane
Su Netflix è appena arrivata la serie con attori in carne e ossa, ma la grandezza di One Piece sta nelle pagine del manga, dove è iniziato un dei più grandi fenomeni pop della nostra epoca.
One Piece ha festeggiato il millesimo episodio della serie a cartoni animati (senza considerare i 15 film animati, i 17 speciali televisivi e gli otto OAV), mentre il manga veleggia – si perdonerà il facile calembour – sui 106 volumi, con la fine relativamente vicina ma non così vicina, stando alle parole sempre circospette del creatore Eiichirō Oda. È il fumetto più venduto di ogni tempo, con oltre 520 milioni di copie complessive, un dato stellare che si deve anche alla lunghezza dell’opera (ma l’ultimo tankōbon di cui si hanno i dati, il numero 105, ha comunque registrato un venduto record di un milione e settecentocinquantamila copie) e alla sua diffusione, che raggiunge a oggi 61 paesi nel mondo. In questi giorni, tuttavia, se ne parla soprattutto per l’arrivo su Netflix della serie “live action”, ovvero con attori in carne e ossa, che – come accade praticamente sempre nel caso dei live action – ha destato polemiche fin dal rilascio delle primissime immagini di scena, e sta generando opinioni contrastanti.
Ma prima di arrivare alla serie, vale la pena capire perché One Piece è così importante – e lo dice uno che ha sempre preferito Naruto, pur riconoscendo che è peggio, dato che che a differenza di One Piece ha dilapidato un tesoro di premesse e character design. Facciamo allora un passo indietro, proprio subito dietro a One Piece e Naruto, e andiamo a Dragon Ball, il classico dei classici dello shōnen (termine che indica manga di combattimento destinati a un pubblico per lo più adolescente o preadolescente).
Tra il 1985 e il 1995, Akira Toriyama, già autore dell’eccellente opera comica Dr. Slump & Arale, cambia per sempre le regole dei manga di combattimento col suo capolavoro, che, forte di uno stile grafico mai visto prima e di una scrittura brillante, introduce la leggerezza nel genere, alzando allo stesso tempo il tasso di epicità, anzi elevando lo shōnen a pura mitologia, aprendo altresì alla possibilità di ambientarli in mondi fantastici, senza per questo finire nel fantasy. Insomma, reinventa un genere, anche se varrà la pena notare che il bilanciamento tra comicità e azione, avventura e scontri di Dragon Ball era frutto anche delle imposizioni degli editor, che a loro volta agivano in base alle classifiche di gradimento dei lettori (chi vuole approfondire questo aspetto decisivo dell’industria del fumetto giapponese può leggere Bakuman di Ōba & Obata): Toriyama spingeva per mettere più viaggi e comicità; i lettori chiedevano più tornei, legnate e onde energetiche: il risultato è l’opera che conosciamo tutti.
L’eredità di Toriyama è stata raccolta da molti, ma quelli che l’hanno declinata con maggior purezza e allo stesso tempo maggior inventiva sono stati il Masashi Kishimoto di Naruto e appunto Eiichirō Oda con One Piece. Ninja da una parte, pirati dall’altra (tutto ciò, avrà già notato chi ne sa di internet culture, non può essere un caso…), in mondi fantasiosi molto curati nel design, con protagonisti sì fortissimi ma anche ingenui, allegrotti e un po’ tonti.
Se però Kishimoto era partito meglio di Oda, con un segno più raffinato, una vibe meno infantile e un character design migliore – figure come quelle di Kakashi Hatake, Itachi Uchiha, Gaara della sabbia o Pain/Nagato restano a tutt’oggi indimenticate –, è finito peggio, molto peggio, disperdendosi tra incoerenze interne della storia, power scaling sballato, tentativi di colpi di scena floppati, momenti melensi, cattivo sviluppo dei personaggi femminili e un protagonista che, in fondo, cedeva troppo spesso la scena ai comprimari. Oda, invece, è arrivato felicemente al centoseiesimo volume, e anche chi non ama One Piece deve ammettere che il fumetto trova i suoi momenti più felici abbastanza avanti, o molto avanti, ed è ancora in ottima salute. Qualcosa che ha superato anche Dragon Ball, che dopo la saga di Freezer, che già era attaccata un po’ con lo sputo (sia chiaro che lo dico con tutto l’amore del mondo), è diventato ripetitivo e in fondo piuttosto inutile.
Come ha fatto One Piece a vivere così a lungo senza rovinarsi – e quindi di fatto a vincere la maledizione degli shōnen, che troppo spesso il successo condanna alla lunga durata, e la lunga durata condanna al decadimento? Si possono elencare alcune oggettive virtù. Prima di tutto, Oda scrive bene e soprattutto pianifica bene. Forte anche del suo successo, che gli ha permesso di reggere bene anche archi narrativi meno rilevanti rispetto alla storyline principale, non ha mai “passato il limite”, mantenendo i personaggi credibili anche nel loro (inevitabile, visto il genere) sviluppo di potenza. Parallelamente a ciò, si è sempre premurato di fornire backstory solide a tutti, cattivi compresi, e ha saputo giustificare e valorizzare anche le scelte più pretestuose – su tutte i Frutti del diavolo, origine di molti poteri nel mondo di One piece, compresi quelli del protagonista Monkey D. Luffy, che possono fare… be’, qualunque cosa giri all’autore –, e financo quelle più trite, e qua c’è di nuovo di mezzo il protagonista, dato che il potere di partenza di Luffy, allungarsi come gomma, era quanto di più visto esistesse nel mondo dei fumetti: lo condivide con Plastic Man (e si parla di un fumetto del 1941), Reed Richards dei Fantastici 4 (1962) e financo Tiramolla (1952), senza dimenticare Piccolo dello stesso Dragon Ball, anche se usa pochissimo questa facoltà, e il Dhalsim di Street Fighter II, che pure ha avuto le sue trasposizioni a fumetti.
Pure, con un materiale di partenza non esaltante, Oda ha costruito, in ventisei anni, un’opera immortale; e forse costruire è davvero la parola chiave, perché nonostante il mondo di One Piece fosse all’inizio un pezzo di mare con una linea in mezzo che sembrava uscito dal quaderno di un decenne, la verità è che Oda è un grandissimo wordbuilder, capace di creare una quantità spropositata di isole, culture e strutture sociali, solo apparentemente puerili, ma in realtà destinate, di episodio in episodio, a coagularsi in un mondo altamente coerente, in cui si svolgono, anche grazie a questa coerenza eventi emozionanti. Perché, sì, zitto zitto, dalle boutade iniziali, One Piece è pure un fumetto dalle grandi emozioni… Si pensi solo a quanta gente gira ancora, nel mondo reale, col cappello di Portuguese D. Ace, che non è nemmeno uno dei protagonisti. O al fatto che quando ne incontriamo uno, di quelli col cappello di Portuguese D. Ace, ci viene subito da abbracciarlo. In lacrime, magari.
One Piece, come si suol dire, non si discute, si ama. E se lo si ama, si guarda anche il live action. Col cuore in gola, certo, ma lo si guarda. Ed eccolo, lì su Netflix…
Il casting è corretto. La produzione è ok. Visivamente è bello. I riferimenti diretti al manga e all’anime sono accurati. La qualità degli effetti è buona. Gli ambienti sono plausibili. Dialoghi a parte (ma non sono neanche il punto di forza di Oda), insomma, è tutto fatto bene. Il risultato, però, è… imbarazzante. Si noti: non ho scritto orrendo, o anche solo brutto. Ho scritto imbarazzante, perché al di là delle considerazioni razionali – si capisce che è questa serie live action è stata fatta con buone intenzioni, conoscenza dell’opera, consapevolezza dei rischi e intelligenza – l’effetto che ha sullo spettatore è l’imbarazzo. Non quanto il live action di Dragon Ball, certo, eppure… Eppure è così. Eppure, di nuovo, è fatto bene.
Viene quasi da chiedersi se si può trarre un film da un fumetto. Sì, di esempi ce ne sono, V for Vendetta è decente, Sin City è buono, 300 tolte le aggiunte cittadine ci sta, Il Corvo è figlio del suo tempo ma ci piacque, e ovviamente ci sono fior d’esempi DC e Marvel che vanno dal discreto al molto buono. Ma intanto, quelli di partenza sono tutti fumetti, se non sempre realistici negli eventi e nei poteri in ballo, di impianto realistico dal punto di vista grafico. Nulla a che vedere col buffo temperato nel kawaii degli shōnen da Dragon Ball in poi, un buffo che in One Piece tracima spesso e volentieri in un grottesco anche estremo (un live action movie accettabile, ancorché non del tutto riuscito, è quello di Alita, che non a caso è un manga graficamente realistico). Questo potrebbe essere un primo punto sul perché il live action di One Piece, nonostante tutto, non funziona. Il secondo punto è la scelta degli archi. Siamo tutti d’accordo che la parte iniziale di One Piece è una delle più deboli: forse avrebbe pagato scegliere da subito un arco più centrale, se non uno di quelli recenti, come è stato fatto nel (buon) film a cartoni animati di Slam Dunk uscito quest’anno, anche considerando che Monkey D. Luffy, Zoro, Nami, Sanji, Usopp e Nico sono ormai più famosi di Topolino e Paperino e le loro vicende sono note a tutti.
C’è poi forse il fatto che quando si ha a che fare con un manga che ha già avuto una trasposizione animata molto fedele (e ciò avviene praticamente sempre nel caso dei manga di successo), la trasposizione su schermo… C’è già stata, e questo condiziona ulteriormente le scelte creative di produzione e regia, senza contare il fatto che esiste, a priori, un eccessivo e forse definitivo coinvolgimento dello spettatore rispetto a una data forma (né va dimenticato che l’animazione seriale giapponese è un’eccellenza con cui non è per niente facile competere). Tutto questo – e forse anche la paura del responso dei fan – finisce per escludere quel cambio netto d’approccio richiesto da ogni buona trasposizione cinematografica. Oppure è solo che il fumetto di One Piece è un capolavoro, e per trarre film all’altezza dai capolavori, che siano fumetti o libri, servono sommi registi d’arte, non onesti mestieranti come Matt Owens o abilissimi professionisti come Steven Maeda. Comunque, saremo pure in imbarazzo, ma per una volta vedendo un live action non ci siamo infuriati e non abbiamo scagliato il televisore dalla finestra. Non è poco. Ora, però sotto a rileggere il fumetto – riguardare tutta la serie animata per ora magari no, visto che anche guardandola senza mai interrompere né dormire, prenderebbe diciassette giorni filati.