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Old Men

Project: Re Brief, quando Google ha chiesto ai migliori pubblicitari degli anni '60 di migliorare i suoi banner. Un po' Mad Men, un po' fiaba.

di Pietro Minto

Matthew Weiner, il creatore di Mad Men, è riuscito a fare del mondo pubblicitario anni ’60 un drama in grado di raccontare un decennio essenziale nella storia del Novecento. Google, che di advertising vive e per questo se ne intende, l’ha invece trasformato in fiaba. Project Re: Brief è un esperimento presentato lo scorso marzo dal colosso del web in cui un gruppo di pubblicitari ultra-sessantenni, protagonisti dell’età dell’oro del settore, vengono catapultati dalle loro sonnacchiose vite da pensionati al 21esimo secolo, dove gli viene gentilmente richiesto di ripetere la magia che gli ha permesso già una volta di cambiare il mondo. (Spoiler alert: alla fine un po’ ce la fanno, è una fiaba).

Diciamo la verità: le pubblicità su Internet non sono belle. Compaiono agli angoli delle pagine, danno fastidio, alle volte prendono vita e si espandono, oppure cominciano a strillare qualcosa riguardo un’automobile. Sono brutte e fastidiose, eppure sono la fragile base su cui si basa la stragrande maggioranza del business online. Prendiamo Google: i suoi incassi pubblicitari hanno superato quest’anno quelli di tutta la stampa cartacea statunitense messa insieme – perlopiù a causa del crollo di quest’ultima – eppure è sempre alla continua ricerca di nuovi orizzonti e soluzioni. Perché i banner non possono essere l’unica risposta. Lo potevano essere nel 1994, quando nacquero dal nulla, ma oggi di certo no. Quindi ha deciso di tornare sui suoi passi, per capire cos’è andato storto e cosa è cambiato negli ultimi decenni.

Quando parlano con il ragazzi di Google, sembrano degli alieni catapultati in un pianeta in cui tutto è possibile, eppure nessuno sa cosa fare.

Così è nato Project Re: Brief, esperimento in cui il colosso del web ha chiesto a cinque ex maestri dell’advertising di unirsi a giovani programmatori, copy writer e creativi per provare a risolvere l’enigma della pubblicità su Internet. E la storia che ne è venuta fuori, raccontata in un bel documentario diretto da Doug Prey, ricorda una fiaba, perché i suoi anziani protagonisti hanno la fatto la storia in un momento in cui il mondo era totalmente diverso dal nostro, e quando parlano con il ragazzi di Google, sembrano degli alieni catapultati in un pianeta in cui tutto è possibile, eppure nessuno sa cosa fare. Sono gli eroi improbabili in una contea allo sbando. Una storia a lieto fine, perché nonostante i loro deficit tecnologici, alla fine ispirano e suggeriscono soluzioni. Fanno la differenza.

Ma vediamoli da vicino, i nostri eroi.

Paula Green è una signora che insieme all’art director Helmut Krone, nel 1962 firmò per Avis, la società che noleggia automobili in tutto il mondo, uno spot dallo slogan che sarebbe rimasto alla storia: “We Try Harder”, in cui l’azienda spiegava di essere “solo” la seconda nel suo settore e quindi di non poter permettersi di sbagliare o trattare male i propri clienti.

Harvey Gabor, che lavorava per McCann-Erickson, è la mente di uno spot Coca-Cola del 1971 in cui un coro di bambini e bambine di tutto il mondo cantavano una bella canzoncina dalla cima di una collina. Il video, girato in Italia, fa un po’ l’effetto Benetton ante-litteram, venato com’è di antirazzismo. E Gabor, per la cronaca, è oggi un vecchietto simpaticissimo: oltre a essere il nostro preferito è uno di quelli che più ha cercato di inserirsi nella nuova realtà googliana, con ottimi risultati, come vedremo.

Bob Pasqualina e Howie Cohen sono una coppia di randagi che danno l’idea di essersi divertiti un sacco, con quelle facce da Mad Men che però hanno visto live i Grateful Dead. Prima della reunion organizzata dalla Grande G non si vedevano da molti anni ma ci hanno messo pochi secondi per ritornare in sintonia. Il lavoro per cui sono noti è uno spot del 1971 per Alka-Seltzer caratterizzato dal tormentone “I Can’t Believe I Ate The Whole Thing” (“Non posso credere di averlo mangiato tutto”), recitato da un uomo alle prese col mal di pancia da indigestione poco prima di coricarsi. L’attore dello spot, Mitt Moss, fa anche un breve e spassosissimo cameo nel documentario.

Amil Gargano è l’uomo che nel 1962 riuscì a rendere le automobili Volvo appetibili per il mercato Usa. Come? Presentandole in modo vero, violento e brutale, mostrandole correre all’impazzata tra i campi e sottolineandone la solidità. Lo slogan: “Drive It Like You Hate It” (“Guidala come se la odiassi”). Il payoff: “Cheaper Than Psychiatry” (Più conveniente della psichiatria). Un concept yankee per un’auto svedese.

 

Bene, questi sono i nostri over-65. Ma qual è la loro missione? Ognuno di loro dovrà tentare di rifare il suo spot di riferimento adattandolo allo sconosciuto mondo digitale. E perché li abbiamo definiti “i nostri eroi”? Perché dovranno confrontarsi con sponsor potenti e 25enni vestiti elegantemente male che sanno tutto di social network, programmazione e quant’altro. Sono dei nonni nella Mecca mondiale dell’hi-tech.

 

 

A ben pensarci, però, Project Re: Brief è soprattutto una storia fatta di contrasti e resistenze. Una storia sul tempo che passa. I cinque eroi sono incuriositi e distanti da Google, i suoi dipendenti e la tecnologia che assorbe tutto. C’è quindi una critica sana nei loro punti di vista. Una visione costruttiva della realtà. «Se fossimo ossessionati dall’idea e dai contenuti quanto lo siamo dalla tecnologia, faremmo sicuramente qualche progresso» dice per esempio Keith Reinhard, presidente emerito della Doyle Dane Bernbach Worldwide (Ddb), detto “l’ultimo dei Mad Man” dagli amici, per intenderci. Che continua, implacabile: «Bisogna adattare sempre la tecnica all’idea, mai l’idea alla tecnica». E forse era proprio questa prudenza, questa titubanza e questo timore nei confronti del nuovo, quello che la Grande G voleva dai suoi consulenti senior: uno sguardo freddo, distaccato, come quello di un pittore che riesce finalmente a osservare la sua tela da debita distanza.

«Ai miei tempi l’unica cosa di cui ci dovevamo preoccupare era: “Lo slogan è divertente?”» E tutti ridono di gusto.

In casi del genere è spesso difficile evitare il cliché “nonna che sgrida il nipotino perché usa lo smartphone e gli dice di andare fuori a giocare agli indiani e cowboy come facevano i bambini al suo tempo”, ma complessivamente il documentario riesce nell’impresa di non cadere nella botola degli apocalittici-o-integrati. Anche perché stempera le tensioni con alcuni momenti toccanti, in cui i senior si rendono conto che attualmente il loro settore è forse più ostile di un tempo. Due momenti: Pasqualino e Cohen stanno lavorando al nuovo spot per Alka-Seltzer che diventerà una sit-com interattiva dalla gestazione lunga e complessa. A un certo punto Cohen dice: «Ai miei tempi l’unica cosa di cui ci dovevamo preoccupare era: “Lo slogan è divertente?”», e tutti ridono di gusto. Un’altra madeleine, quando si ricorda che una volta realizzato uno spot, bastava mandarlo in onda «su tre network e tutti lo vedevano». Ora invece il pubblico – enorme e globale – va inseguito sulle televisioni, Internet, i social network, le radio; e raggiungerlo non basta, bisogna conquistarlo.

Alla fine della settimana di lavoro, le idee vengono presentate agli sponsor. Passato il loro vaglio (il team che segue Avis fallisce al primo tentativo, ma poi ce la fa), si passa alla realizzazione della campagna vera e propria. Alcuni prodotti finali riescono veramente nella missione impossibile di suscitare attenzione e attaccamento nell’oceano confuso di Internet. I migliori, a mio avviso, sono quelli realizzati per Coca-ColaVolvo.

Nel primo il messaggio globale del coro di bambini viene riformulato costruendo un network mondiale di distributori di lattine “smart”  connesse a Internet, che permettono di “offrire” una coca a uno sconosciuto in una delle città del mondo che partecipano all’iniziativa. Ogni macchina ha una webcam e un display che mostra il video di saluto che l’utente ha registrato all’ignoto fortunato. Il risultato finale, come spiega Gabor, è eccezionale perché «una macchina ha creato un’esperienza, un’emozione. È un fenomeno sismico, cambierà tutto e mi ricorda di quando dalla carta stampata si è passati alla televisione».

Anche nel caso di Volvo, Amil Gargano (da bravo padre spirituale) accantona l’idea originaria del suo spot e insieme al suo team sviluppa una campagna tutta basata su una persona, tale Irv Gordon, un newyorchese che con la sua Volvo d’annata ha macinato più di 2,5 milioni di miglia (circa 4 milioni di chilometri). La pubblicità risultante consta di un video in cui il signore racconta il perché della sua fedeltà nei confronti del marchio svedese, e di una sezione multimediale in cui chiunque può seguire in tempo reale il percorso della macchina e il countdown alle 3 milioni di miglia.

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Alla fine di tutto manca solo il pippone sulla creatività. In questo caso, però, è un pippone divertente e utile, anche perché ha come protagonisti dei vecchietti che negli anni ’60 facevano faville e ora si stupiscono di trovare uno dei loro spot su YouTube. Questi signori intendono la creatività come un qualcosa di sacro, magico e anarchico, un fantasma che sfiora i fortunati quando meno se lo aspettano, costringendoli a fermarsi e a farsi trascinare dall’ispirazione. Nel documentario, Howie Cohen parla di una sua teoria sulle «quattro I della creatività»: l’Intuizione, ovvero l’illuminazione, l’inizio di tutto; l’Informazione, che serve a colmare i vuoti cognitivi creati nel primo passaggio; l’Incubazione, ovvero l’elaborazione dei dati; e, infine, l’Inspirazione, l’idea. Si può vivere un’intera esistenza aspettando un’idea, e in molti casi ne vale la pena. Perché? Lo spiega Harvey Gabor, il nostro nuovo vecchietto preferito, quando dice che «il momento in cui si ha un’idea è la sensazione migliore del mondo. È meglio del sesso! (pausa) Mia moglie la vedrà questa cosa? (infervorato) Io me lo ricordo il sesso!».

Fatti da parte, Don Draper. Ho un nuovo idolo nel settore pubblicitario degli anni ’60.

 

 

L’effetto che il documentario mi ha restituito è ambiguo: da una parte rimane il fascino per un periodo perduto, l’Età dell’Oro, come la chiamano, in cui la pubblicità veniva pensata come un piccolo quadro o un breve film. Cura artigianale. Dall’altra non può che esserci un enorme entusiasmo per le incredibili possibilità tecnologiche di cui noi tutti (ma soprattutto Google) possiamo disporre. Unire il mondo, comunicare con sconosciuti, stringere legami distanti, giocare con le emozioni. Sono tutte cose si facevano all’epoca dei mad men e si continueranno, ancora di più e meglio, a fare nel futuro. Come, non si sa. Ma vale la pena di rischiare e aspettare, per non rimanere a terra e senza idee. È sempre meglio inseguirle, le idee. Dice Harvey che sono meglio del sesso.

 

(Immagini: il logo di Project Re: Brief; due fotogrammi tratti dal documentario)