Attualità

Nuovo Cinema Capatonda

In un Paese di commedie che strizzano l'occhio a riferimenti culturali di quindici anni fa, Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda è la vera innovazione.

di Mattia Carzaniga

Non sono un macciocapatondiano della prima ora. Cioè, d’accordo: i suoi finti trailer mi fanno (mi hanno sempre fatto) ridere. Lui mi sta (mi è sempre stato) molto simpatico. Però la mia era quella posa da milanese imbruttito: piaceva a tutta la gente che piace – quel giro una volta Italia 1, poi Mtv, oggi chissà cosa, un po’ Tv8 un po’ Cattelan, insomma le conventicole di NoLo – dunque in società preferivo fare finta di niente. Maccio Capatonda è sempre stato bravo, e sta passando inosservata una cosa che succede a quelli che sono bravi davvero: lo è anche al cinema. Il primo film – Italiano medio, uscito due anni fa – aveva grossi (enormi) problemi, eppure beccava più di un passaggio giustissimo. I critici seri direbbero: coglieva lo spirito del tempo.

Questa settimana è uscito Omicidio all’italiana, opera seconda che – dicono sempre i critici seri – è la più difficile. Invece, guarda un po’, funziona molto meglio del titolo precedente. Si sospende da subito l’incredulità sul solito paesello sperduto nello sprofondo delle montagne (abruzzesi), popolato dai soliti ottuagenari, col solito sindaco ignorante che si chiama Piero Peluria (col nome si poteva fare meglio) e il fratello-vicesindaco che sussurra alle capre. È appunto il set di un omicidio – anzi, di un finto omicidio, o forse di un vero omicidio: ma ormai non si possono spoilerare manco i film di Maccio Capatonda – che chiama folle di turisti alla maniera dell’Asso nella manica di Billy Wilder (questo lo dico io, critico serissimo) e soprattutto di giornalisti. Di più: i reporter arrivano di corsa come le truppe della cavalleria, facendo tremare (letteralmente) il paesello abruzzese, e vedrete che qualcuno scriverà che è un’immagine troppo politicamente scorretta. Il punto è esattamente questo, siamo ancora il Paese buonista di sempre, ed ecco che invece arriva uno a raccontarlo secondo il ritornello che gli si confà: com’è bello far l’amore da Avetrana in su.

Sai che trovata, direte voi. Eppure buttare l’occhio a quello che già abbiamo sotto il naso pare un mezzo miracolo, da parte di chi di mestiere non fa il cartolaio ma scrive copioni per il cinema cosiddetto popolare. Oggi, per dire, gli sceneggiatori italiani hanno scoperto internet. Vanno parecchio (tra i finanziamenti pubblici, meno al botteghino) le commedie che raccontano le diavolerie telematiche, sempre col punto di vista stupitissimo da barzelletta della Settimana enigmistica. Quest’autunno è uscito Che vuoi che sia di Edoardo Leo (tag: crowdfunding e video porno in rete), adesso è in sala Beata ignoranza di Massimiliano Bruno (tag: social-aholic contro nostalgici della carta, che però diventano twitstar nel tempo di un pomeriggio). Ma, sarà che il nostro non è un Paese per bande larghe, si respira sempre quell’aria di posticcio, del tipo “dai, facciamo la satira di costume moderna”, occhieggiando a riferimenti anglosassoni di quindici anni fa.

Invece il nostro è un Paese bellissimo e fortunatamente autosufficiente nei suoi granitici riferimenti culturali, perché non approfittarne. L’Italia è (ancora) una repubblica fondata sulla televisione e sui suoi opinionisti, sui plastici di Bruno Vespa, sui criminologi della domenica, sulla morbosità di resti di capelli su corpi di tredicenni e esami del Dna a tutta la bergamasca, sui colonnini di destra dei quotidiani online (non più: hanno rifatto la homepage per la diciottesima volta in tre mesi), sugli alternative facts prima che fossero una roba alla moda e hipster, da dibattito del New Yorker. È una repubblica fondata su quell’assioma ben riassunto dalla dottoressa Spruzzone (pure con quest’altro nome si poteva fare meglio), il personaggio di questo film interpretato dalla solita gigantesca Sabrina Ferilli. Vado a memoria: «La verità è una cosa che raccontiamo ai nostri cari, mica dobbiamo dirla in tv». È un patto silenzioso e collettivo che tiene in piedi la cultura nazionale dalla notte dei tempi, e in fondo ci sta bene così. Chi lo capisce è bravo, Maccio Capatonda a ’sto giro l’ha capito benissimo, che la commedia era già tutta scritta, bastava scanalare. Piccoli Checco Zaloni crescono, forse, chissà, speriamo.