Attualità

Non è Francesco

De Gregori, il concerto a Verona per celebrare i 40 anni di Rimmel, e la difficoltà di rimanere fedeli a se stessi.

di Davide Coppo

Da quando avevo 19 anni, sono stato varie volte a concerti di Francesco De Gregori. Di un cantante puoi vedere mille specchi e io, di Francesco De Gregori, ho visto quello della maturità, non vorrei dire anzianità ma quasi.

A Milano, nel tardo pomeriggio, inizia a piovere. Sembra un pretesto stupido, ma ascolto Rimmel proprio nel momento in cui le gocce si allungano sul vetro dell’auto, mentre la città finisce e inizia la tangenziale e viaggio verso Verona, e lui dice «mentre fuori pioveva». Sto ascoltando cantare un tizio che ha soltanto 23 anni. Ci penso in continuazione, a questo fatto dell’età.

“Pezzi di vetro”, penso mentre mi sto addormentando sul sedile del passeggero, è decisamente la canzone più importante della mia vita. Non so, in realtà, se lo sia davvero: queste scelte, le canzoni preferite, i dischi preferiti, gli amici preferiti, sono cose che cambiano a seconda dell’umore e del meteo, e oggi piove. Penso anche che dev’essere la canzone più importante di un altro mezzo milione di persone, eppure non riesco a pensare che sia una cosa triste.

A Verona c’è coda, alle 21 in punto inizia il concerto e sono ancora fuori.

Dopo due brani tratti da altri dischi, De Gregori dice: «Forse questa gente vuole sentire qualche canzone del vecchio Rimmel». In una vecchia intervista che ho letto ieri, De Gregori diceva che preferisce suonare nei club più piccoli, dove la gente si muove e beve la birra, anziché nei teatri in cui il pubblico è seduto e composto. Questo è un enorme teatro, non si può bere birra e nemmeno fumare, io sono composto ma scomodo.

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Sono passati soltanto pochi minuti quando sale sul palco Caparezza. Il palco è illuminato, le luci sono troppo forti e troppo chiare. Lui è alto, molto alto, e ha una maglietta gialla che mi ricorda un cartone animato. I capelli sono i soliti, li scuote mentre canta “L’agnello di dio” con una voce nasale.  Per la canzone successiva entra Malika Ayane. Iniziano le note di “Piccola mela”, ma prima le luci si alzano nuovamente, i tecnici aggiungono microfoni non nascondendosi, ma ostentando questi preparativi. De Gregori temporeggia, parla come se fosse un presentatore, non un autore. Il tutto effettivamente ricorda uno show televisivo, inizio a fare paragoni con Domenica In, o cose simili, nazionalpopolari. Anche il pubblico, intorno a me, mi dà quest’idea. Le luci si abbassano per la canzone, viene eseguita bene e Malika Ayane, tutto sommato, non è niente male. De Gregori senza una chitarra tra le braccia è buffo, tiene le mani congiunte davanti all’inguine, le dita intrecciate. Mi ricorda un chierichetto.

Poi c’è un nuovo cambio palco. Realizzo che non sto assistendo a un concerto ma a un altro tipo di spettacolo. Quantomeno non a un concerto di un disco come Rimmel. Piuttosto, forse, a una specie di grande festa organizzata da un padrone di casa, Francesco De Gregori, che negli anni si è annoiato e vuole intrattenere molti ospiti “in grande stile”. Mi passa per la testa la lunga scena iniziale de La grande bellezza, soltanto che al posto delle cubiste vedo Caparezza, al posto di “A far l’amore comincia tu” una versione rumorosa di “L’agnello di dio”, Francesco De Gregori immobile al centro del grande ballo di gruppo composto dai miei vicini di posto che guardano il palco attraverso lo schermo dello smartphone con cui stanno registrando ogni canzone, masticando gomme da masticare, Francesco De Gregori soddisfatto, che sorride in modo sornione, forse contento di aver fatto una cosa semplice, di essere il buon padrone di casa, uno che, come Gambardella, ha scritto e cantato, quarant’anni fa, un disco amatissimo, criticatissimo, premiatissimo, diventato un piccolo culto, ora felice di intrattenere tutti questi invitati con una festa che vuole abbracciare quanti più consensi possibili. Non una festa a quel disco, ma una celebrazione di essere ancora vivi a sessantaquattro anni.

C’è Giuliano Sangiorgi che canta “Pablo”. Sembra piangere, o forse imitare Andrea Bocelli, o sta solo facendo Giuliano Sangiorgi. È una festa fatta di cover. “Buffalo Bill” viene duettata di nuovo con Caparezza, poi c’è Fedez che canta dei pezzi di “Viva l’Italia”, ma ci aggiunge delle strofe parlate nuove, in quello che forse viene scambiato per rap, e alla fine canta un nuovo pezzo di testo, con quell’ottimismo di plastica che trovo sorprendentemente renziano per uno da sempre così vicino al Movimento 5 Stelle, è qualcosa come «l’Italia che non si dà per vinta / viva l’Italia diamole una spinta».

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È chiaro che vorrei andarmene. Molti, intorno a me, sembrano divertirsi. Gli applausi sono fragorosi, Francesco De Gregori è su di giri, fa dei molleggiamenti sulle gambe mentre con le braccia e gli indici tesi punta verso i suoi ospiti, i suoi musicisti, il suo pubblico, un modo, immagino, per esprimere a gesti concetti come «grande!», o cose simili. Nella fila dietro quella in cui sono seduto ci sono quattro coetanei del cantante, anche se sembrano più vecchi, o forse sono soltanto vestiti più da vecchi, che cantano tutte le canzoni. Sono due coppie, e uno degli uomini vuole anticipare i versi prima che vengano cantanti sul palco, come quelle persone che fanno delle brutte battute a voce alta per essere sentiti dagli sconosciuti intorno a loro. Nel frattempo è salito anche Ligabue e canta una canzone di Ligabue che non conosco, e loro cantano anche quella. Un’altra persona, davanti a me, registra l’audio (ma non il video) di ogni canzone, e manda poi il file a un gruppo Whatsapp chiamato “I pazzi di via Passerella”.

È chiaro che sono deluso. Sui totem-schermi ai lati del palco, alla fine dell’ennesima canzone, viene proiettato un breve documentario che mostra Francesco De Gregori molto giovane a Roma, immagino negli studi Rca, mentre canta e suona con Lucio Dalla e Ivan Graziani. Ha la stessa voce che si sente nelle registrazioni originali di Rimmel. Ci sono anche stralci di un’intervista, e lui, a domande un po’ imbranate ma tutto sommato bonariamente ingenue dell’intervistatore credo classe ’30 o addirittura ’20, risponde in modo arrogante, addirittura cattivo. A un certo punto dice: «Credo che mi metterò gli occhiali da sole, ora mi metto gli occhiali da sole». L’intervistatore chiede: «E perché?». E il Francesco De Gregori dello schermo, che è diverso da quello di adesso, risponde prendendosi gioco del giornalista: «Perché adesso inizio a recitare».

È anche chiaro che non so cosa pensare della mia delusione. È una questione difficile: Francesco De Gregori può fare quello che vuole delle sue canzoni, della sua arte? Può prendere un disco come Rimmel, che alcune persone (ma soltanto alcune) valutano come un disco intimo, a volte molto più di un disco, più uno specchio di alcuni sentimenti passati, e quindi una cosa fragile come un’ampolla in cui infilare certi ricordi, può prendere tutta questa cosa e metterla in mano a Giuliano Sangiorgi e Caparezza, in una cornice da Maurizio Costanzo Show? Beh, sì, mi dico, certo che può.

“Pezzi di vetro” viene eseguita interamente da Malika Ayane. Penso che potrebbe essere un affronto al pubblico, uno scherzo, una provocazione. Lo penso ancora adesso, credo che ci sia questa possibilità.

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Ma l’artista deve rispondere soltanto a se stesso o deve essere fedele anche al suo pubblico? È una domanda difficile, perché a Verona c’era un pubblico entusiasta – per la maggior parte, anche se qualche commento particolarmente incazzato sono riuscito a sentirlo – di questo caravanserraglio di arrangiamenti sbilenchi, pizzica e ululati. Allora: deve essere rispettoso di chi preferisce la fedeltà dell’originale, o può fottersene, in nome di una certa indipendenza?

D’altra parte mi dico che potrebbe anche aver ragione Francesco De Gregori a pensare che non gli interessa molto di tutti i pezzi di vetro su cui qualche adolescente dal 1975 a oggi ha pensato di camminare ascoltando le sue canzoni, che quella canzone l’ha scritta lui e l’ha scritta su una sua esperienza. È una canzone che parla d’amore, ma di una particolare esperienza d’amore, qualcosa che è esistito una volta sola. Eppure tutti, o quasi tutti, hanno ascoltato “Pezzi di vetro” e hanno pensato a loro stessi e a quando una Giulia o una Bianca o una Viola ha risposto soltanto: «Però stai bene dove stai».

In una parte di quella vecchia intervista proiettata il giornalista chiedeva a De Gregori se pensava di cambiare modo di cantare in futuro. Lui rispondeva che ogni anno uno cambia taglio di capelli e modo di vestirsi, quindi forse sì, avrebbe cambiato modo di cantare. Oggi, d’altronde, sono passati quarant’anni. Eppure ci sono stati sprazzi in cui il Francesco De Gregori di 64 anni si è avvicinato, e quasi sovrapposto, al Francesco De Gregori di 23. Solo sprazzi, però. Che fare, dunque, con i cantautori? Forse bisognerebbe, passati i cinquant’anni, darli in gestione a un ente pubblico che gestisca la loro immagine. Che faccia una valutazione sul loro miglior lascito – un minimo comune denominatore della loro immagine e della loro arte – e si impegni per non snaturarla. Forse, dall’altra parte, dovremmo evitare di utilizzare delle canzoni e dei versi non nostri per catalogare le nostre emozioni e i nostri ricordi. Dovremmo smetterla noi di affezionarci.