Attualità

Nomfup

Una chiacchierata con Filippo Sensi, fondatore del miglior blog italiano di comunicazione politica

di Pietro Minto

Un’immagine. O un video. Poi due righe, un link. Questo è il post-modello di Nomfup, blog collettivo che in meno di due anni ha raggiunto un enorme successo in Italia, ed è finito in prima pagina dell’Observer, edizione domenicale del Guardian, dopo aver scovato alcuni video che dimostravano come l’ex ministro della difesa britannico Liam Fox si fosse fatto accompagnare da chi non doveva in alcuni viaggi di stato. Nonostante lo stile asciutto e conciso che domina il blog, il suo autore è uno che parla, eccome. Filippo Sensi, romano, 43 anni, giornalista e consulente politico (spin-doctor, per voi malati di The West Wing), è il regista del nutrito gruppetto di persone che si cela dietro al sito rivelazione dell’anno.
Lo raggiungo al telefono e cerco di risolvere subito una questione fonetica: Nomfup si legge come si scrive o “nòmfap”? «Io dico “nòmfup” come si scrive ma non c’è nessuna interpretazione autentica» risponde lui, ridacchiando per come siano in molti a seguire il suo blog pronunciandolo nei modi più vari. Risolto il dilemma, abbiamo potuto parlare del suo metodo di lavoro, dii social network e, ovviamente, di Nomfap – pardon: Nomfup.

Partiamo dall’inizio con una domanda-evergreen: com’è nato il blog?

È nato nel gennaio del 2010 come posto dove pubblicare materiale sulla comunicazione che trovavo in rete, soprattutto relative alla Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tutte cose che seguivo inizialmente per lavoro e che volevo cominciare a condividere. Da qui è nata la nuvola (“di esperti, giornalisti, addetti stampa, tutti accomunati dalla passione per come comunica la politica”, come recita il discalimer del sito, nda) che è alla base del blog. Nomfup non sarebbe comunque mai nato senza la spinta e il consiglio di Michele Anzaldi, che è il più grande spin doctor italiano.

Questo è l’inizio.

Sì, poi col tempo c’è stata un’evoluzione-maturazione del sito. All’inizio non ci occupavamo d’Italia: abbiamo tuttora un’impostazione angloamericana, seguiamo soprattutto la Casa Bianca e Downing Street. Solo dopo ci siamo focalizzati anche sul nostro Paese, seppure sempre con un taglio più leggero del normale.

Gestire una “nuvola” (così grande e impalpabile, come tutte le nuvole) non dev’essere semplice: c’è bisogno di un “admin” che raccolga quotidianamente le fila di tutte le segnalazioni che arrivano.

Esatto. Io faccio il deejay di un gruppo di amici che spediscono segnalazioni in qualunque modo: via e-mail, tramite messaggino o un colpo di telefono. Spunti che poi diventano post.

Che giornali e siti segui? Qual è la tua media diet?

Per quanto riguarda l’Italia cerco di non arrivare secondo e terzo su nessun argomento, anche se è ovvio che ci siano notizie che non si possono avere se non fai parte di una grande testata. Come hai visto, d’altronde, il blog è un prodotto artigianale, fatto da amici. Per la copertura italiana ci limitiamo quindi a leggere i giornali, i siti, i blog e seguire i talk show politici di prima, seconda e terza serata. Per la copertura estera, invece, seguiamo testate online e non solo. Leggo molti blog inglesi come Labour Uncut, poi ovviamente i grandi giornali e le televisioni. Una fonte importante è Conservative Home, che ogni giorno, verso le dieci di mattina, fa una rassegna stampa di ogni orientamento. Fanno una selezione di articoli, soprattutto commenti (op-ed) dal taglio conservatore ma in realtà pubblicano un po’ di tutto.

E gli Usa?

Quello degli Stati Uniti è un panorama più complicato, con tantissimi outlet e un’infinità di fonti. È ovvio che non si possa prescindere da Politico, Washington Post, New York Times, Slate eccetera, ma abbiamo anche un ricco rostro di blog che cerchiamo di seguire. In questo caso si tratta di una dieta ricca e variata che dipende poi dai differenti palati, dalle diverse passioni e conoscenze.

Hai definito Nomfup un blog “artigianale”. Eppure è riuscito a far dimettere un ministro inglese…

(Ride) La verità è questa: la vicenda è stata molto amplificata dai media italiani ma il nodo della storia è che abbiamo fatto da fonte per testate che seguivano il caso da settimane. Senza cercare file segreti ma semplicemente facendo i compiti, come si diceva una volta. Abbiamo cercato dei video su Youtube in cui comparisse Liam Fox (il ministro poi dimessosi, nda) perché mi chiedevo come mai non ci fossero foto o video di lui con il suo collaboratore. Alla fine ho trovato due video di una televisione cingalese in cui si vedeva una persona simile a Fox. Ho fatto qualche ricerca incrociata per controllare che non fosse materiale già noto: non lo era.

E come sei arrivato al Guardian?

All’inizio ho pubblicato la notizia sul blog con un post anonimo, quasi nascosto, che ho poi messo su Twitter. Ho fatto un paio di tweet mirati a un paio di giornalisti che sapevo stavano seguendo il caso. Con Rupert Neate del Guardian, c’è stato poi un accordo per cui ne ha scritto citandomi sulla prima pagina dell’Observer. Una cosa che poi di fatto è diventata “il blogger italiano che ha impallinato il ministro” ma in realtà c’era una lunga e incredibile inchiesta altrui, dietro a tutto. Nomfup è stato solo la fonte ultima per un formidabile lavoro giornalistico del Guardian e del Telegraph. Un lavoro loro, non nostro.

Un tweet indimenticabile.

È la grande forza di Twitter: la possibilità di arrivare direttamente a persone che lavorano dall’altra parte del mondo, in pochi secondi. In scala minore, è quello che è successo con il refuso sul video di Barack Obama (un video elettorale la cui prima frase conteneva un errore da matita blu: “then” al posto di “than”, nda). Abbiamo notato l’errore, lo abbiamo twittato a un giornalista di Politico e questo tweet è finito nel quartiere generale di Obama, e alla fine qualcuno del suo staff ha cambiato il video per poi ripubblicarlo. Un tempo, la storia di Liam Fox avrebbe richiesto una quantità di tempo incredibile: avrei dovuto chiamare il corrispondente italiano del Guardian, riuscire a parlargli e poi spiegargli il fatto; poi lui avrebbe dovuto chiamare il giornale, poi ancora avrei dovuto parlare con il giornalista che segue il caso, “e venne il topo che al mercato mio padre comprò” (ride).

Invece, con meno di 140 caratteri, in dieci minuti è successo tutto. In Italia sarebbe stato possibile un qualcosa di simile?

Anche da noi ci sono blog e siti incredibili che fanno cose buone tanto quelle fatte all’estero. Però c’è il tormentone per cui “da noi non si dimettono invece negli altri Paesi sì”; ma non bisogna dimenticare che ci sono state campagne stampa che hanno portato a dimissioni anche qui in Italia. Se le cose hanno una certa forza, riescono a trovare la loro strada.

Ancora su Twitter: fai un uso molto particolare, quantomeno per il panorama italiano, del social network.

Sì, noi non stiamo su Facebook, siamo solo su Twitter, una scelta di campo fatta sin da subito per molti motivi. Innanzitutto perché è un sito che può diventare un’ottima agenzia di stampa personale. E poi ogni piattaforma ha un proprio linguaggio e delle regole precise: Facebook funziona bene per tante cose ma Twitter ha una sua cifra comunicativa più congeniale a Nomfup. Ora tutti ne parlano come il nuovo fenomeno misterioso ma c’è una ragione dietro al momento d’oro: permette una comunicazione più diretta ed efficace di Facebook. È un mezzo dalla rapidità incredibile, una fucilata. Per chi fa informazione, poi, è molto interessante perché consente di vedere la notizia al suo stato germinale, a livello gassoso/aereo, prima che diventi un flash d’agenzia o un servizio televisivo. Prendi per esempio il giorno della formazione del governo Monti, in cui i nomi dei ministri sono arrivati man mano proprio su Twitter, prima della proclamazione ufficiale.

Nomfup è un blog di poche parole: Twitter era forse per voi uno sbocco quasi naturale.

Sì, il nostro blog è propositivo, non di spiega. Somiglia in questo senso a piattaforme come Tumblr e quindi questa brevità si sposava bene con i 140 caratteri. Possiamo dire che ci siamo incontrati.

Pochi giorni fa l’agenzia giornalistica statunitense Associated Press ha gentilmente fatto notare ai suoi cronisti che prima di twittare una notizia, dovrebbero scriverne per l’AP. Un notevole corto circuito tra vita privata e professionale.

Sono tutte realtà in divenire, che stanno mutando pelle e ragione sociale. Succedono cose strane perché il cronista che va in strada a cercare notizie riceve telefonate dalla redazione, che nel frattempo è invasa da rivelazioni che arrivano via internet, sms ecc. È come stare in trincea, solo che gli spari arrivano anche dalla tua parte. Tutto ciò è però anche un’opportunità, non un buco nero destinato a divorare tutto. Per esempio, dato che la presenza sui social network è diventata necessaria, le aziende cominciano a cercare nuove personalità dedicate al settore, assumendo persone che ne conoscono il linguaggio e il funzionamento.

Qualche anno fa erano i blog a dover uccidere i giornali (non è andata proprio così), ora pare che Twitter sia “destinato” a eliminare le news agency.

Dieci anni fa i blog erano l’avanguardia, ora sono quasi una “buona cosa di pessimo gusto”. E i giornali, anzi, si sono presi una bella rivincita sui diari online, incorporando nei loro siti sempre più blog. Le grandi testate, poi, sono finite per assumere blogger che prima erano corsari – e forse in questo senso sono stati loro a vincere.

Che il blog sia un modello già vecchio in confronto a Twitter, se ne è accorto anche Ben Smith di Politico, che nel 2008 seguì le presidenziali americani dal suo diario, scrivendo una pagina di storia del giornalismo. Oltre al tweet, con che cosa sarà raccontata la volata per la Casa Bianca del prossimo anno?

Ma la campagna del 2012 si baserà su soldi e fiuto giornalistico, come sempre. Comunque penso che Twitter e gli hashtag avranno grande importanza, per quanto sarà una campagna basata su molte nuove forme di comunicazione: vediamo già un grande utilizzo di data journalism e di tagging. Le elezioni passeranno di più per i tag sui vari social network che su un social network di preciso. Per me, comunque, la campagna americana si basa sempre su possibilità economiche e fiuto.

Per finire una domanda personale. Filippo Sensi, ma chi sei?

Ho iniziato come giornalista in piccole emittenti locali e agenzia di stampa. Ho fatto un bel po’ di precariato, poi l’ufficio stampa del Campidoglio ai tempi di Rutelli sindaco alla fine degli Anni ’90. In quei tempi ho fatto più comunicazione politica che giornalismo mentre ora scrivo per Europa, Wired e dalla scorsa settimana (da due settimana per chi legge, nda) per la Lettura del Corriere della Sera. Che altro? Mia moglie si chiama Ale e la straamo, ho tre figli, sono del ’68.

Sei del ’68?

Sì, sono un pessimo quarantenne.