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Netanyahu va allo scontro aperto con l’America

Le colonie, l'Iran e il nucleare: John Kerry e il primo ministro israeliano oramai si fanno guerra in pubblico. E c'è chi si chiede: perché?

12 Novembre 2013

«Se io non sono per me, chi è per me?»
(R. Hillel, Pirkei Avot, I.14.)

Ci sono incidenti diplomatici, ci sono le gaffe, ci sono le divergenze tra alleati. Poi c’è lo scontro aperto, che è una cosa diversa. Quello che sta accadendo tra gli Stati Uniti e Israele in questi giorni ha tutta l’aria di essere qualcosa di più dei soliti screzi tra un’amministrazione democratica e un governo israeliano conservatore: per la prima volta il segretario di Stato John Kerry e il primo ministro Benjamin Netanyahu sono apertamente ai ferri corti e – qui forse sta la novità – non sembrano avere alcuna reticenza a farlo sapere in pubblico.

Cominciamo dai contenuti – dai due dossier sul tavolo, che sono fonte di divergenza da tempo ma che ultimamente hanno raggiunto una fase cruciale – per poi passare ai toni.

Gli Stati Uniti sono impegnati in due delicatissimi negoziati: da un lato quello tra israeliani e palestinesi, dall’altro quello sul programma atomico iraniano, che Netanyahu ritiene una minaccia alla sopravvivenza di Israele e di cui ha fatto una priorità.

I negoziati tra israeliani e palestinesi, ovviamente, vanno avanti a più riprese da oltre vent’anni (diciamo dalla conferenza di Madrid, 1991) e a più riprese si sono puntualmente arenati. Recentemente, e cioè dalla scorsa estate, gli Stati Uniti hanno tentato di rilanciare il processo di pace e i negoziati diretti tra rappresentanti del governo israeliano e dell’Autorità nazionale palestinese (l’organo che governa la Cisgiordania, ma non la Striscia di Gaza) sono ripresi a luglio.

La scorsa settimana Kerry è stato in Israele per un nuovo round di negoziati. Per l’occasione, Israele ha liberato molti prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri, di cui molti condannati per attentati terroristici, come gesto di buona volontà nei confronti dell’Anp. Contemporaneamente, tuttavia, ha approvato una serie di nuove costruzioni negli insediamenti della Cisgiordania, cosa che ha mandato su tutte le furie non solo i palestinesi, ma anche gli americani: Washington e l’Anp sostengono infatti che le colonie in Cisgiordania sono l’ostacolo principale al processo di pace. Israele, ovviamente, non è d’accordo. In ogni caso, i colloqui diretti ci sono stati, ma sono finiti con un nulla di fatto. La stampa israeliana, che cita fonti palestinesi, riferisce di incontri tra rappresentanti israeliani e palestinesi finiti, letteralmente, a grida e insulti.

Poi c’è l’Iran. Anche qui, si tratta di una questione che si trascina da decenni: il programma atomico di Teheran risale agli anni Cinquanta, quando c’era lo Scià, si era arenato ma poi è stato “risuscitato” negli anni Ottanta, poco dopo la rivoluzione degli ayatollah. Da circa il 1996, data in cui sono state approvate le prime sanzioni, la comunità internazionale sta facendo pressioni affinché la Repubblica islamica rinunci all’aspetto bellico del programma, e/o ne provi la natura pacifica (se v’interessa, sul sito del New York Times c’è una timeline esaustiva). Ultimamente gli Stati Uniti e altre nazioni coinvolte nei negoziati si erano impegnati non poco per trovare una soluzione e qualcuno s’era illuso che si potesse cominciare a trovare una quadra.

Questo a Netanyahu non è piaciuto per niente: è convinto infatti che non esista alcun margine per un compromesso, per lui l’unica soluzione è che l’Iran rinuncia all’atomica tout court che non rappresenta una grave minaccia per Israele.

Nel fine settimana i rappresentanti iraniani si sono incontrati con i negoziatori di Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina e Russia (squadra nota come “5+1”, perché si tratta dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, più la Germania) nella speranza di trovare un compromesso. Questo a Netanyahu non è piaciuto per niente: è convinto infatti che non esista alcun margine per un compromesso, per lui l’unica soluzione è che l’Iran rinuncia all’atomica tout court che non rappresenta una grave minaccia per Israele. In ogni caso il premier avrà tirato un sospiro di sollievo, perché i negoziati di Ginevra sono finiti nel nulla – pare, su iniziativa del ministro degli Esteri francese Laurent Fabius.

Ora, che Kerry e Netanyahu la vedano in modo assai diverso, specie sugli insediamenti e sull’Iran, non è certo una novità. Quello che semmai stupisce è il candore, se non la sfacciataggine, o chutzpah (curiosamente, l’inglese americano ha preso in prestito la parola proprio dall’ebraico) con cui sono arrivati a esprimere pubblicamente la sfiducia dell’uno nei confronti dell’altro, e viceversa.

In un’insolita intervista, rilasciata in contemporanea alla Tv palestinese e quella israeliana, Kerry ha dichiarato: «Se non risolviamo la questione degli insediamenti e non poniamo fine alla presenza dei soldati israeliani in Cisgiordania, si diffonderà l’impressione che non si può raggiungere la pace con una leadership [palestinese] non violenta, e questo potrebbe portare a una leadership impegnata nella lotta armata». In pratica, ha detto che le colonie sono l’ostacolo principale ai negoziati e insinuato che il governo israeliano stia promuovendo la violenza tra i palestinesi: parole durissime, definite «uno schiaffo in faccia di Netanyahu» dalla stampa israeliana.

Dal canto suo Netanyahu ha attaccato apertamente la decisione da parte degli americani di intavolare un negoziato con l’Iran: «è un errore storico», ha dichiarato il premier israeliano in una conferenza stampa, riferendosi agli incontri di Ginevra. Poi, parlando a un’organizzazione ebraica americana, ha rincarato la dose, chiedendo alla platea di opporsi ai negoziati. Alla Casa Bianca, non l’hanno presa molto bene. Kerry l’ha bacchettato: inutile criticare un accordo che per il momento non c’è. Obama gli ha telefonato, ufficialmente per tranquillizzarlo ma, presumibilmente, anche per protestare.

Netanyahu è convinto di stare combattendo una guerra per la sopravvivenza di Israele e,  giusto o sbagliato che sia, è convinto di essere già stato abbandonato dagli Stati Uniti.

Insomma, è scontro aperto: Netanyahu ha «lanciato una guerra senza quartiere» all’amministrazione Obama, scrive Haaretz, il giornale israeliano. «Qualcuno mi spiega perché Bibi pensa che è una buona idea fare una guerra aperta contro Obama?», ha twittato Jeffrey Goldberg, commentatore di affari mediorientali e storica firma dell’Atlantic (“Bibi” è il soprannome di Netanyahu). Probabilmente si tratta di una domanda retorica e Goldberg, da attento osservatore di cose israeliane qual è, conosce benissimo la risposta: giusto o sbagliato che sia, Netanyahu è convinto di stare combattendo una guerra per la sopravvivenza di Israele e, giusto o sbagliato che sia, è convinto che mantenere le colonie in Cisgiordania e fermare a tutti i costi il programma atomico iraniano siano condizioni irrinunciabile per questa sopravvivenza. Non solo: giusto o sbagliato che sia, è convinto di essere già stato abbandonato dagli Stati Uniti.

Netanyahu sa che l’America è molto più grande e più forte di Israele, che sta giocando col fuoco quando alza il tono con Kerry e Obama. Ma, in definitiva, non gli importa più di tanto di andare allo scontro aperto, perché è convinto che sia l’unica strada percorribile, che a questo punto Israele è l’unico guardiano della propria sicurezza: «Se non io, chi è per me?», volendo citare un vecchio detto ebraico. Il fatto è che, a questo punto, neanche a Obama interessa più quello che pensa (o dice) Netanyahu, perché è evidente che il leader israeliano si oppone a qualsiasi trattativa con l’Iran e che quasi nessuno nella comunità internazionale lo prende sul serio.

Netanyahu ormai ragiona in base a una logica dell’ognuno per sé. Ma così facendo, probabilmente, ha sottovalutato il ruolo fondamentale che, piaccia o no, l’alleanza con gli Stati Uniti ancora ricopre per la sicurezza di Israele. Quasi Israele non avesse bisogno di amici. Bibi agisce come se gli americani avessero una pazienza infinita, oppure come se Israele non avesse bisogno dell’America. In entrambi i casi, si tratta di assunti sbagliati. Il passo del Talmud da cui è tratta la citazione «Se non io, chi è per me?», si conclude così: «E se io sono solo per me stesso, cosa sono?»

(Photo by Ariel Schalit-Pool/Getty Images)

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