Attualità

Mistero Buffa

Dal basket universitario americano al mondo: incontro con Federico Buffa, l'uomo che sta ridefinendo il rapporto fra sport, cultura e televisione.

di Giuseppe De Bellis

Ascolta le parole. Ce ne è una per frase: è arrotondata o prolungata, abbreviata o accelerata, scandita o mangiata. È quella. La chiave di violino di uno spartito che è fatto di sola voce. Federico Buffa racconta: puoi non guardare, devi sentire. In tv, alla radio, o al bar: quella parola c’è anche se ordina un aperitivo da Peck, a Milano, prima di raccontarti un mucchio di cose, prima di lasciarti capire come, perché e quando lo sport si prende una voce e la sceglie: questa è quella che meglio di tutte sa raccontarmi. La sua parte dal basket e là torna, però si ferma sul pallone da calcio e ovunque capiti. Prende l’accento british, inverte le V e le B come fa lo spagnolo degli argentini, stringe le o delle lingue dell’Est, si riempie di suoni gutturali dello slang californiano, chiude le e del milanese quando gli chiedono: come sta? «Bene, bene».

Buffa è quella voce lì. Ora è un volto. Quelli della pallacanestro lo conoscono, gli altri l’hanno scoperto adesso che ha raccontato la storia di Arpad Weisz e prima quella di Maradona in degli speciali che un gruppo di colleghi di Sky gli ha costruito addosso. Sfondo nero e lui, come un monologo teatrale, solo che qui il testo è una biografia sportiva. Una storia, punto. Un ritratto, punto. Parole, voce, ritmo, punto. «Complimenti, davvero», dice un cameriere senza scendere nei dettagli. L’ha sentito su Sky, d’accordo. Ma dove? Nelle telecronache dell’Nba? Nel racconto dell’Nba dei vostri padri? Nelle monografie di calciatori straordinari? Non c’è bisogno di particolari, forse neanche di spiegazioni: se vuoi goderti lo sport in tv prendi lui e rilassati. Aldo Grasso ha definito il racconto su Arpad Weisz «il più bel programma culturale visto negli ultimi tempi». Ecco, punto e basta. Perché se lo sport in tv diventa cultura ha già vinto. È la forza delle parole che non sbattono sul dettaglio tecnologico: se c’è l’alta definizione ok, se non c’è è lo stesso. Sei nel terzo millennio, senza perdere nulla del secondo.

La telecronaca del basket Nba fatta da Buffa e Tranquillo è la cosa che più si avvicina alla perfezione del racconto di un evento televisivo: hai immagini spettacolari e voci che le accompagnano, le spiegano, le analizzano, le raccontano. Sono diventati un genere, l’evoluzione di Tommasi e Clerici. Sono una certezza: la fontanella alla quale si dissetano decine di migliaia di appassionati che la notte restano svegli per seguire le loro dirette. Sono uno status symbol, e chi ce li ha se li tenga stretti perché non c’è nulla di meglio in giro. Hanno cancellato le colonne d’Ercole dello sport in tv: commento tecnico e colore separati, giornalista e intrattenitore divisi, giornalista ed esperto diversi. No, no e no. Qui si mescolano piani di racconto, competenze, contesti. Sì, contesti. Segna un po’, perché poi i contesti torneranno. Sono tutto, probabilmente. Non ora, però. La differenza qui, adesso, è un’altra. È l’eccezione: la fuoriuscita verso un altro territorio. Il calcio. È stato prima un affare da tifoso: lui era quello lì della pallacanestro, appassionatissimo di Milan, conoscitore di ogni dettaglio della sua squadra. Ospite. E da ospite a commentatore. E da commentatore ad analista. L’anno scorso cominciò la stagione di Sky Calcio Show, il programma di punta dello sport sul satellite. Durò poco: non era il suo. Finito? No, perché c’è un registro per ogni cosa. Aveva altro in gola: la narrazione. Gli americani lo chiamano storytelling. È lui, un cantastorie contemporaneo.

Hanno scoperto che ne sa più lui di calcio sudamericano che gli esperti di calcio sudamericano. Perché? «Perché adoro l’America Latina e quando ho cominciato a frequentarla ho capito che se non ti rendi conto di che cosa c’è dietro il calcio in Sudamerica non puoi capire neanche la storia, la geografia, la cultura, l’economia. E poi se non conosci il calcio sudamericano, non puoi dire di conoscere il calcio». “Federico Buffa racconta Maradona” è stato il primo esperimento: lui, il suo ritmo, la storia più sfruttata dello sport, il personaggio più elementare e quindi il più difficile, le immagini d’epoca e quelle contemporanee, i suoi ricordi di viaggi, luoghi, personaggi. L’idea è stata di Federico Ferri. Ha pensato: l’uomo del basket che fa l’io narrante della più grande storia di calcio. L’hanno fatto, ed è diventato un caso editorial-televisivo. Comincia così: «Diego… Diego… Era un venerdì, 1968, Villa Fiorito, una di quelle tremende baraccopoli che c’erano dappertutto a Buenos Aires…».

Testo, voce, aneddoti. È il 4-4-2 della televisione: semplice, efficace. Senza nostalgia. Senza passatismo. Il tono fa la differenza.

Testo, voce, aneddoti. È il 4-4-2 della televisione: semplice, efficace. Senza nostalgia. Senza passatismo. Perché il tono fa la differenza. Il tono e il contesto. Vedi che torna? Lo dice, Buffa: «Mi riconosco una dote. So sovrapporre i contesti. E questo lo devo a mio padre». Significa che una storia non c’è se non guardi che cosa c’è attorno. Lui porta in una partita, in un personaggio tutto quello che sembra fuori e invece è dentro. È l’eredità della vita. Avrebbe dovuto fare la Bocconi, Buffa. «Poi un giorno andai da mio padre e gli dissi: Pà, io proprio non ce la faccio. Ebbi la felice idea di avere già il piano B. Volevo fare il giornalista, ma non gli dissi: “Sai mi iscrivo a Lettere o Filosofia”. Mi presentai con l’alternativa: “Faccio giurisprudenza”. E per dimostrare quanto ero serio mi iscrissi a Pavia, non a Milano, come sarebbe stato naturale. Mio padre accettò».

Avvocato Federico Buffa. Vero. Iscritto all’Ordine di Milano senza esercitare. La tesi fu sul contratto di lavoro nello sport. Mentre si laureava già lavorava: faceva l’agente dei giocatori di basket. Alt, qui si prende fiato per capire e avvolgere il nastro. Federico ha vissuto molto e va spiegato. Perché c’è la Milano degli anni Settanta e poi l’America: aveva frequentato il liceo Classico Manzoni. Il periodo era quello lì, dal 1973 al 1978. Per intendersi: «Prima settimana del primo anno: al sesto giorno eravamo già in agitazione per il Golpe in Cile». Contesto, un altro. C’era la scuola, c’era il basket: ogni pomeriggio in un campo sotto casa e poi negli altri in giro per la città. Avrebbe potuto diventare un giocatore di calcio, però il giorno del provino per il Milan finì con un girotondo intorno al tavolo: lui davanti e il padre dietro, a spiegargli che quella non era proprio la scelta che lui si aspettava dal figlio. In compenso il regalo per la maturità fu un viaggio all’università della California, a Los Angeles. «Venivo dalla Milano degli anni Settanta. Diviso tra lo scetticismo e l’ammirazione per gli Stati Uniti. Arrivai in California e lo scetticismo finì».

È lì che è cominciato Federico Buffa: l’America, lo sport, il basket, la cultura. Il contesto, ancora. Tornò e scrisse il suo primo articolo per la rivista Superbasket: «Era il racconto della mia esperienza a Ucla». Rientrò a Milano: l’università, giurisprudenza, le lezioni di diritto anglo-americano con il professor Ziccardi: «Il lunedì alle 13. C’erano quattro persone a seguirle. Un giorno io mi alzai e dissi: “Prof, io mi occupo di contratti per atleti e lavoro con gli americani, può darmi una mano?” Lui mi invitò al suo studio e lavorammo al contratto per gli sportivi americani». Il procuratore Buffa viene prima del radio-telecronista. Sta lì a creare tutto quello che è arrivato dopo. Perché l’America è diventata un infinito campo da basket. Federico arrivava a Jfk, prendeva un’auto e magari guidava per 25 giorni. «Ho visto tutte le università che potevo vedere. Ho dormito nelle sedi delle confraternite in attesa di vedere un giocatore da poter portare in Europa. Ho girato tutti e 50 gli Stati Usa. Ho rischiato di morire non so quante volte in non so quanti modi diversi. Ho conosciuto migliaia di stanze di motel».

C’è tutto questo, adesso. C’è nelle telecronache, c’è nel racconto dell’Nba dei vostri padri, il programma di storie di basket che è il bignami televisivo della pallacanestro globale. È il perimetro dentro cui si muove ogni pedina. Lo sport non è mai solo sport. C’è sempre un “ovverosia”, l’intercalare più frequente di Buffa: serve a introdurre una sorpresa, serve a spiegare, serve a gestire un dettaglio da espandere. L’io narrante di una partita, di un ritratto, di una storia si prende una pausa e ci infila un film, un libro, un ricordo. È la digressione funzionale. Tipo: lui c’era a Buenos Aires il giorno in cui Maradona allenatore si qualificò per i mondiali del 2010. Si giocava sotto il diluvio: Diego in panchina, fuori dal Mondiale fino al 93’, fino al gol di Palermo che consegnò a Maradona il biglietto per il Sudafrica. «Mai vista una cosa così».

«Un giorno in un campo in via Lorenteggio si avvicina un ragazzo. “Sei tu Buffa che fa le cronache dell’Olimpia? Sono Flavio Tranquillo, potrei tenerti i punti»

Lo sport è una mammella dalla quale non ci si può staccare: ti allatta con le sue storie e non ti lascia. Buffa è specialista di una cosa e curioso di ogni cosa: a 53 anni è lo stesso che non si perdeva una sola informazione utile, quello che segnava sui quaderni punteggi, biografie, statistiche. Sa tutto, perché ama tutto. È il gioco dei rimbalzi che riesce perfettamente nella coppia con Tranquillo. Lavorano insieme dalla metà degli anni Ottanta: Buffa era già un agente, ma faceva anche le radio-telecronache dell’Olimpia Milano. «Un giorno in un campo vicino a via Lorenteggio si avvicina un ragazzo. Mi chiede: “Sei tu Buffa che fa le cronache dell’Olimpia? Ciao sono Flavio Tranquillo, studio alla Bocconi e se ti va, la prossima partita potrei venire a tenerti il quaderno con i punti”». Nacque la coppia, all’epoca con posizioni opposte: Buffa prima voce, Tranquillo spalla. Si sono ritrovati dopo, dal 1994, quando Federico ha smesso di fare l’agente ed è andato a Telepiù a raccontare il campionato di basket del college Usa. Insieme. Voce e voce. Non banalizzano mai: istruiscono, alfabetizzano. Scommettono sull’intelligenza di chi li guarda. Si divertono. Il basket aiuta, è uno sport dove il pubblico vuole di più: vuole lo schema tattico e vuole la storia che c’è dietro quel giocatore: sua madre, suo padre, l’università che ha frequentato, gli amici che aveva, lo Stato in cui è cresciuto. Federico sta lì, a dirglielo. Questo tocca a lui. Questo è lui. Stanotte si studia: «Non c’è un solo giorno che non legga qualunque cosa mi possa servire». È l’aggiornamento costante della passione.

Come i venti giorni nelle Filippine, la vacanza che ha appena fatto: è andato a vedere il campionato più sorprendente, ovverosia il più seguito al mondo. Può essere? Sì, è. Perché lo sport non è solo sport, mai. Serve la storia, la geografia, il cinema, la letteratura. Cultura. Quando era al Manzoni e non si entrava in classe, Federico andava al cinema aperto di mattina. Oggi va al festival di Locarno, o al Sundance. A una voce serve il pozzo della memoria per alimentarsi. Tieni questo, amico. È il contesto, cioè la differenza tra un semplice telecronista e un narratore. Tra una cosa che passa e una che resta. Un contesto sull’altro, uno accanto all’altro, uno dentro l’altro. È il mondo: lo sport ne fa parte, semplicemente. È la storia delle storie da raccontare.
 

Dal numero 13 di Studio
Fotografia di Marco Pietracupa