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La fine di Milano

Una città a cui non siamo abituati è quella vista dalla Torretta, estrema periferia e ultima e poco frequentata propaggine del Municipio 5.

di Sergio Peter

Tutte le foto sono di Sergio Peter

Stretto come un trapezio tra il Naviglio Pavese a est, il Parco Agricolo a sud, il Cavalcavia Schiavoni a Nord e l’Autostrada dei fiori a ovest, c’è il quartiere Torretta, ultima propaggine del Municipio 5 di Milano. Vivo qui da un anno.

Nato nel Dopoguerra su terreni appartenuti a cascine ormai scomparse, è un insieme di casoni anni ’60 le cui vie prendono il nome dai personaggi dei Promessi Sposi – Fra’ Cristoforo, Don Rodrigo, Renzo e Lucia, Donna Prassede, L’Innominato – ma di letterario nell’aria c’è molto poco. Autorimesse, garage e parcheggi; mezzi ovunque, sui marciapiedi, sul ciglio pericolante del canale, sulle strisce pedonali, alle fermate degli autobus, davanti ai passi carrabili. Alcuni di questi palazzoni hanno sotto le fondamenta box enormi, cavità vuote di cemento armato, scavate fino a cinquanta metri giù nel ventre della terra, per la maggior parte inutilizzabili perché, quando piove, si allagano. All’ultima asta sono andati invenduti. Quattro bar, due tabaccai, un panettiere. Tre coiffeur. Una lavanderia. Un ristorante-pizzeria egiziano. Un venditutto. Un ortofrutta. Un’autoscuola con il nome di un altro quartiere. Tante serrande chiuse: una ex rosticceria, una ex gelateria, una ex birreria, una ex edicola. Nessuna banca. Nessuna chiesa. Nemmeno una piazza vera e propria. Nominalmente ce ne sarebbe una, piazza Maggi, ma è il passaggio pedonale sotto il tubo autostradale dell’A7 Milano-Genova. Un incrocio di strade a scorrimento veloce, con dei sottopassi usati perlopiù per recarsi all’Esselunga, alla metro o per spacciare. Nel 2015 hanno provato a dargli un’altra veste, con un appello ai writer migliori della zona. Il progetto, chiamato Ecomostra, voleva dare nuovo colore e per un po’ c’è riuscito. Qualche traccia è rimasta. Ratzo, Ivan, Jin & Prosa, Irwin e altri hanno lasciato un segno. Ma sono anche subentrati di tag disordinati e scritte razziste, neofasciste e no-vax.

La zona scuole è concentrata in via Pescarenico; l’asilo ha un giardino con appesi degli acchiappasogni fatti di pentole e coperchi di ferro che, ogni volta che c’è vento, rimandano un suono spettrale. Le balaustre sono decrepite, scolorite, le pareti esterne dipinte con faccine anni ’90, tipo smile inquietanti. Settimana dopo settimana le piantine di fagioli coltivate nelle bottiglie di plastica tagliate a metà sono appassite, lasciate andare dopo il laboratorio. I giochi per i bimbi sono tricicli dalla plastica pallida, palette e secchielli di un’altra era, un’isola di sabbia più adatta a famiglie di gatti, pallette bucate e quindi sgonfie, figure di cartoni animati passati di moda.

L’altro luogo pubblico è la biblioteca Fra’ Cristoforo. Delle volte propone letture ad alta voce. Ha un bel giardino esterno con gazebo e panchine. Anche qui ringhiere devastate, crepate, si sfaldano, erba alta, il vetro rotto della bacheca, un senso di abbandono generale degli spazi esterni.

Non lontano c’è una cooperativa che recupera ragazzi dalla tossicodipendenza. Stanno sempre lì sul pianerottolo verso le undici a fumarsi una sigaretta, con un cagnetto tutto contento in braccio. Terapia animale. Qualche giorno fa, come per miracolo, è comparso un murales ispirato a Manzoni, imagine the future: una giovane coppia d’altri tempi fucsia sta ber baciarsi dietro una chiesa ciano. Nel contempo le panchine del parchetto adiacente, sono popolate da una fauna umana di disoccupati, ragazzacci il cui principale fine credo sia proprio il guadagno facile con la disseminazione di panetti e pasticche. A tutte le ore se ne stanno lì coi cellulari in mano e si guardano in giro. Ogni tanto vanno verso lo spiazzo, girano in cerchio e tornano indietro. Le scanalature del sottopasso sono utilizzate come depositi momentanei di roba. Ne ho visti più di un paio in piena notte, col monopattino elettrico a tutto spiano, tracolle e sguardo fisso, corrieri del buio. Alcuni credo che abitino proprio qui, sulla mia scala, al quinto. La torraccia di via Don Rodrigo 6 ha diciassette piani, sessanta metri di altezza. Quasi alla base, un garage privato, malandato, di fronte al quale si usa lasciare biciclette scassate e carrelli, presto pieni di spazzatura. Non ho mai visto aperto il grosso portellone. «Baise la police!», campeggia sulla vernice di sfondo, un grido da banlieue. Ha avuto un tempo una vita da car wash. Versa in queste condizioni da almeno trent’anni.

Il Bar Grown è un covo di galeotti, ex sessantottini e bestemmiatori che dalle tre in avanti schiamazzano tra birre, scacchi e carte da scopa o scala quaranta. Ma vai a cagare! è l’intercalare più consono per ordinare un caffè. La siepe di edera divide il marciapiede dai tre tavoli di sasso esterni, dove gli avventori usano accalcarsi e sbraitare, gridare alle persone che passano, tirare scappellotti ai loro pastori tedeschi, ruttare, mandarsi affanculo come forma di saluto. Ha un’offerta di caramelle gommose davvero ricca. Tutti i giorni alla stessa ora uno stormo di pappagalli transita davanti alla finestra a rapidissima velocità. Prima si sentono i versi striduli, poi li si vede volare via. Specie esotica frutto del rilascio di esemplari da fiera nei parchi pubblici, ha ormai preso casa negli angoli verdi del quartiere. Si mimetizzano tra le foglie. La micromigrazione ha un andamento ritmico che permette ad alcuni abitanti di evitare l’uso dell’orologio. I colombi si spaventano per la foga della specie aliena, si scansano, trovano riparo nel balcone del terzo piano adibito a piccionaia che una signora ha messo su da un decennio, contro tutte le regole condominiali del caso. Ogni tanto esce in vestaglia, bisbiglia qualcosa alla sua famiglia animale e la ciba con granaglie.

Come profumo, devo citare il sugo etnico alle spezie, che si sparge tutti i giorni dai nostri vicini cingalesi, o la fragranza di mattonella di grano duro appena sfornata che arriva dal panificio dall’altra parte del Naviglio. Invece i camion per la raccolta dell’umido in contromano spargono la loro nube di banane andate a male e seppie che sanno di piscia su nelle nostre case. In certi giorni d’autunno, o sul finire dell’inverno, subentra nell’aria un tanfo di letame, concime da agricoltura biologica. Io lo apprezzo, perché mi ricorda il mio paese d’origine. Sale dai prati come emanazione diffusa, si sparge tipo rumore di fondo qui, a Milano sud, prende il via da uno dei tanti campi arati del Parco Agricolo.

Tutti i sabati notte nel primo tratto di A7 alcune moto di grossa cilindrata si sfidano in gare di velocità, fino alla prima uscita di Assago. Poi rientrano dal Naviglio e fanno un altro giro. Avanti e indietro, avanti e indietro. Allo stesso modo, sempre più spesso, in giorni infrasettimanali, partono fuochi d’artificio alle 2 a.m., senza senso. Li sentiamo, sono i rumori ricorrenti del non-villaggio, quelli che lo qualificano come striscia di asfalto e palco di una premiazione fantasma. Una delle cose migliori del quartiere è largo Promessi Sposi, una specie di vasta corte interna. Dalla strada è invisibile. Ha la funzione di bosco e piazzale di vita. Sulle panchine di sasso il pomeriggio i pensionati si trovano a chiacchierare, i bambini a giocare a palla (nonostante il divieto), i cani sono liberi di cacare e pisciare dove vogliono, basta pulire. È un luogo equo e democratico, molto amato da tutti. La manutenzione costa molto ai residenti, ma l’ombra e la pace che garantisce sono impagabili.

Ogni weekend al parco senza nome gruppi di latinos portano tavoli, sedie, stereo, bottiglie e proseguono la loro festa infinita, ridendo e schiamazzando fino a tarda sera. Sono giocatori di bowling in borghese. Se non fosse per i rifiuti accatastati a fine party un po’ ovunque, sarebbe un bello spettacolo. Ma vi si trovano anche emarginati e poveri, camuffati sotto i cappucci dei piumini strappati, o alcolizzati molesti che si stendono sulle panchine all day long e si addormentano, pisciando a lato strada, smerdando le siepi della loro diarrea. Verso le sei, il mercoledì, quando i custodi scendono coi sacchi della raccolta differenziata, c’è una competizione segreta. I nomadi dei camper, in due sulla bici tutti intabarrati, il signor Franzesca, e la nostra vicina, sono tutti presi contemporaneamente a mettere le mani nel pattume e selezionare merce ai loro occhi riutilizzabile: abiti, libri, vhs, riviste. Solo che poi lasciano gli scarti degli scarti sul marciapiede, e formano colline di rifiuti, di fianco agli ingombranti mollati giù a lato strada: lavatrici, stampanti, stufe rotte, pc obsoleti, cucine a gas. L’unico che li anticipa è il quarantenne con le scarpe della LIDL che tutti i pomeriggi attinge direttamente alla fonte delle spazzature dei condomini, tirando su vecchiezze, giacche, scatole vuote, pile lisi per gli eccessivi lavaggi, magliette strappate, berretti a righe in acrilico. Confezioni di Certossa, Milbona, Italiamo, Snack Day, RealForno, Latteria, Alesto, Mcennedy, Merivio, Freshona, NonnaMia, tutte sparpagliate sulla strada, formano le nostre aiuole, gerani di plastica. I gatti si intrufolano leccando il leccabile dalle confezioni aperte, i corvi attingono briciole dai sacchetti di patatine. Nel frattempo, i toponi della Varco pullulano nella canalina prosciugata. Si sono stabiliti nella discarica davanti all’Hotel dei Fiori: sempre intenti a cercare cibo tra mobili, stendipanni, sedie a sdraio, gomme. La concessionaria Ford come punto di ritrovo.

La domenica nel campetto dietro il Carrefour una Copa Africa senz’arbitro né fine ha luogo tra ragazzotti africani. Li osservo perché vorrei unirmi al match, ma sono dieci anni che non corro dietro a una palla. Rischio l’infortunio. La fanno girare abbastanza bene, poi c’è sempre qualcuno sulla fascia che tende a strafare e fa finire la sfera a lato, cadendo fuorigiri. Nessuna riga laterale. Se non ci sono loro, arrivano gli indiani. Piantano dei pali di legno nel prato, a distanze precise calcolate a passi, e tirano fuori le mazze da cricket. Poi sbeng!, la pallina vola ovunque, sopra le teste delle famiglie, sopra i crani dei cani atterriti nell’area di sgambamento, sopra di me, che sto lì a fissarli mentre gridano nella loro lingua. Amo questo melting pot sportivo, mi piace farne parte da spettatore. Franzesca, Franzesca, le scarpe sfondate, l’andatura a zigzag in mezzo alla strada, non guarda prima di attraversare, dorme sotto il cavalcavia, sulle scale del ponte pedonale, o nel parcheggio Atm. Grida «Franzesca!, Franzesca!» e parole in arabo, porta una grossa croce di legno, claudica, raccoglie di tutto, specie vestiario, e lo accatasta nei carrelli dei supermercati. Credo sia eritreo, etiope o egiziano, sui sessanta, portati male. Probabilmente copto, altrimenti non si spiegherebbe il Cristo sul petto. Ha messo su una sorta di mercatino di vestiti usati, ma sembra poco interessato alla vendita. Li accumula, chili e chili nei carrelli o buttati sulla strada. Ha bisogno di una mano, si vede. Ogni tanto la polizia e l’ambulanza intervengono, visto che si addormenta ubriaco sul marciapiede, l’incarnato giallo, respira appena, ma rifiuta ogni forma di aiuto. Per un po’ di tempo Franzesca ha vissuto nell’area transennata dei lavori in corso per la VenTo. Ha un debole per i cantieri edili, li abita proprio. Si piazza oltre le reti arancioni e stende i suoi materassi, le coperte, le giacche e le calzature spaiate e a tutte le ore sta lì e dorme e quando si sveglia inizia a peregrinare e a urlare Franzesca! Franzesca! Franzesca! Franzesca! Le delusioni d’amore fanno danni irreparabili.

Dall’undicesimo piano del grattacielo bianco si affaccia tutte le mattine alle sette guardando verso nord un uomo senza età che, a prescindere dall’effettivo tempo atmosferico, grida piove piove piove! e batte le mani. La voce è ovattata. Ha la funzione di cucù per il quartiere, continua imperterrito a scandire le condizioni atmosferiche. Quando l’acqua inizia a scendere veramente i suoi versi sono di entusiasmo. Esegue un dong ritmato, poi sparisce in camera, non si vede più e, quando penso che sia andato a riposare o guardare la tv, ritorna e fa dong, con i palmi a schiaffo. L’applauso di quell’uomo ingenuo e attento è la nostra campana civile. Mi fa paura per come si sporge, giù con tutta la testa a salutare i passanti trenta metri sotto, ma non ha intenti suicidi. È felice, felice se piove o se c’è il sole, ma, se diluvia, ancora di più.

Intorno alle cinque di mattina un concerto di spruzzi da irrigatori pubblici bagna tutti i prati del Parco Cascina Caimera, invitando chi fa jogging, a correre più veloce, i cani a rotolarsi nel fango e me, a spogliarmi delle scarpe e fare altrettanto, scappare come un matto tra una fontanella e l’altra, cercando di evitarle col buio o colla luce, mentre tutti intorno dormono. Sono precedute da un gorgoglio viscerale che spaventa, come se tutte le fonti della terra convogliassero i loro liquidi in un dato punto. I primi secondi somigliano a geyser, poi iniziano a oscillare con movimenti ondulatori ciclici. Ho intravisto gruppi di leprotti spuntare dalle erbacce, grassi erbivori intenti a brucare fieno, e pullulare mese dopo mese, riprodursi a gruppi e impossessarsi del verde. Li ho visti scappare all’ultimo, inseguiti da cani senza guinzaglio, attirarli a un passo dallo stiramento sullo svincolo autostradale. Aspettano fino al punto di non ritorno, prima di sguazzare via come saette. Restano fermi in posizione di preghiera, le orecchie in alto, le zampine lungo i fianchi, convinti di mimetizzarsi, ma, quando la situazione precipita, se la danno a gambe, trovando pertugi di emergenza nella rete. Al Parco La Spezia gruppi di adolescenti si mischiano a trentenni nel campo da basket sormontato dall’ex padiglione expo della cocacola, qualsiasi tempo faccia. Si sfidano a partitelle che vedo dalla collina. Circa un mese fa, qualcuno si è portato via intera la struttura del canestro, lasciandone uno solo.

Quando piove, i tetti sopraelevati del garage sotterraneo che vedo dal balcone, si trasformano in due stagni, brutti laghetti a cielo aperto. Il fondale è la carta catramata, i pannelli di catrame nero che trattengono l’acqua, e riflettono lo smog. Gli unici a curarsi della gora sono alcuni volatili di passaggio, gabbiani urbani; o tristi rondini di Milano che salgono su dal Naviglio e vanno lì ad accovacciarsi un po’ sul cubo di cemento, guardano giù i bambini puntuali alle 7.50 entrare a scuola dopo aver comprato la focaccia, il vigile farli attraversare, la 59 prendere la curva troppo stretta e l’autista imprecare. Puntano i farinacei in mano ai piccoli col desiderio di fregarli e volare via.

Quello di cui il quartiere non è privo sono i campi aperti. È il motivo principale per cui l’ho scelto. Gli ettari di verde a disposizione di un cittadino in questa zona sono incalcolabili. Basta procedere verso sud, e c’è la campagna, appena dopo via Boffalora solo prati ed ex marcite e alberi in lontananza. A nordovest un Parco, a sudest un altro, il Ticinello. Ovunque ti giri, lo sguardo spazia verso i vasti lotti coltivati del campo agricolo del sud. È anche possibile trovare latte fresco. Il mio preferito è il campo di sfiatamento delle piene del Lambro-Olona, appena dietro la rotonda del quartiere Binda. È un pratone senza fine: la primavera giovani coppie si fermano a fare picnic, c’è chi pilota i droni o porta i cani a correre come matti dietro ai fresbee. Si possono tenere i bambini per i polsi, e farli volare grazie alla forza centrifuga. Nelle ore antelucane l’orizzonte si tinge del rosso fluo dato dalle polveri sottili: quasi bellissimo, trascendente. Il futuro del Quartiere Torretta va ritrovato ai suoi margini. Non riguarda il nuovo condominio in costruzione davanti al supermercato, né la Ciclovia VenTo dal cantiere senza fine. Nemmeno la nuova sede CAP, Na.Pa., o Superstudio Maxi mi sembra indichino una direzione. All’incrocio tra via Palatucci e via San Paolino c’è una costruzione quasi crollata. È la Cascina Monterobbio. Sorge sul terreno di un antico bosco sacro. Prima che venga giù del tutto, è necessario che la donino ai giovani. La immagino ricostruita dalla base, le crepe ricoperte, la corte interna seminata, le fondamenta sorrette dai loro sogni, tutto il campo di sterpaglie dietro i vecchi pannelli elettorali rivangato a coltivo. Li penso già rimpossessarsi della Cascina senza bando, farne un luogo di culto e un cinema, un posto per dormire e per parlare, bere, sperimentare viaggi, ascoltare musica e ballare, sbagliare, un punto per incontrarsi e baciarsi e fare sport, ecologia, politica e l’amore, leggere e giocare, una fattoria non vendibile, per una volta qualcosa di non comprabile a nessun costo, metri quadri liberi.