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Russia per una notte
La guerra in Ucraina secondo Michele Santoro, tra cripto-putiniani, filorussi, anti-Zelensky, cerchiobottisti, neopacifisti, preti in T-shirt e generali a cartoni animati.
La parola “pace” è stata proibita nel dibattito pubblico sulla guerra, dice Santoro. Quindi c’è bisogno di una notte (un’altra) contro «la censura» e «il pensiero unico». E nessuno può discutere i dettagli della censura e i dolori della marginalizzazione meglio degli ospiti accorsi al Teatro Ghione di Roma: tutti i cripto-putiniani, filorussi, anti-Zelensky, cerchiobottisti, neopacifisti che da due mesi raccontano la loro esclusione guardando dritto in camera, da mane a sera, da Omnibus a Linea Notte (per chi se lo stesse chiedendo: Orsini non c’è ma c’è Donatella Di Cesare, perché non si dica che Santoro non stia cercando di imparare la lezione sulla parità di genere). Santoro dice di aver intuito subito l’attesa che questa serata avrebbe generato e di aver provato a darle il palcoscenico che meritava impiegando i suoi contatti personali. Però a Sky gli hanno detto di no, a RaiNews pure, persino a La7 si sono rifiutati, nonostante l’evento lui lo avesse messo a disposizione gratis, «una parola alla quale Cairo è molto sensibile» (ed evidentemente anche lui, che ospite a La7 ci va spesso). Allora ha ragione Sabina Guzzanti – può esistere una serata come questa senza Sabina Guzzanti tra gli ospiti? Non sarebbe stato meglio aspettare la terza stagione di Lol per un ritorno in scena degno del casato? – quando dice che oggi in Occidente la parola “censura” si scrive e si legge “linea editoriale”.
Ma non importa la censura, perché basta fare un uso saggio delle «nuove tecnologie» per superarla. Santoro a questo punto fa l’elogio di quella avveniristica novità che sono le dirette streaming su YouTube e invita tutti a condividere l’evento «sul proprio profilo Facebook». Quelli che ancora faticano a capire diavolerie moderne come YouTube e Facebook possono affidarsi alla cara vecchia televisione. A quella «libera», almeno: Byoblu al 262 del digitale terrestre, per esempio. Non fate caso ai discorsi su Claudio Messora e l’internazionale complottista: «libero vuol dire libero», dice un Santoro tautologico. E poi «molti nemici, molto onore», ribadisce poco dopo. Chi se ne frega dei «buonisti» che se ne stanno a casa ad «affilare i computer», punzecchia Michele, ormai oltre la dicotomia destra e sinistra anche nella scelta di citazioni e immagini.
La libertà è il filo che tiene assieme le circa tre ore di trasmissione che seguono, una jam session alla quale artisti vari partecipano portando ognuno il proprio contributo al tema del momento: lo stravolgimento degli equilibri politici internazionali causato da Joe Biden, dagli Stati Uniti e dalla Nato. Pace proibita è un canale Telegram dedicato a tutto quello che la Cia non vuole farci sapere portato a teatro, il concertone del Primo Maggio di tutte le ragioni per le quali non possiamo non dirci antiamericani. Perché ce lo diceva Gino Strada, lascia intendere Elio Germano, corrucciato più del solito nel tentativo di sopperire con la voce alle mancanze dei fonici (i microfoni non funzionano). Perché dobbiamo seguire l’esempio di San Francesco d’Assisi alle Crociate, racconta Luciana Castellina, una delle ultime interpreti del pragmatismo per il quale la sinistra italiana è nota nel mondo. «Perché la guerra è fossile, la pace rinnovabile», ci spiega Sara Diena, esponente italiana del movimento Fridays for future, presentata da Santoro come una degli «amici di Greta» invitata per spiegare «l’impatto ambientale delle forze armate».
Tra un monologo e l’altro Santoro si affida alle slide di Gianni Dragoni, chiamato in quota giornalista economico, ipovedente e con la erre moscia. Con numeri chiari e icone scelte tra quelle gratuitamente scaricabili da Iconfinder, Dragoni ci spiega che la crisi energetica attuale e la ventura fame nel mondo sono colpa degli americani. Quando a Dragoni si inceppa il proiettore delle diapositive, interviene l’altro esperto necessario di questi tempi: un generale che spieghi tattiche e strategia. Santoro lo presenta come «un vero generale», che però ha deciso di dire la sua nella forma di un cartone animato a bassissimo budget di Rai Yoyo. Il punto del generale è che l’unica soluzione ai nostri problemi (tutti) è un ritiro della Nato, opinione espressa con un fortissimo accento romano in un botta e risposta con una voce fuori campo dall’altrettanto forte accento romano, scambio che fa pensare a uno sketch segreto di Guzzanti e Purgatori. A sentire il vero generale viene comunque da sperare la Nato entri in guerra davvero solo per poi ritirarsi e portare la pace perpetua. Tra gli esperti chiamati a spiegare la guerra nelle sue conseguenze comunicative ci sarebbe anche Carlo Freccero, ma il collegamento (provato e riprovato) non funziona e «l’analisi dettagliata» viene bruscamente interrotta da uno scoglionatissimo Santoro. Che però ripete a Freccero di volergli un gran bene e gli promette che pubblicherà «l’integrale» su Facebook. Promemoria: siamo rimasti al punto in cui il Tg1 ha trasformato la sua copertina in una monografia, un racconto «emozionale» della guerra a cui segue sempre il resto della narrazione «politicamente corretta»: pandemia, ecologia, gender, agenda green.
Per ribadire la posizione pacifista della quale la serata vuole essere il megafono, di quello che sta succedendo in Ucraina si parla pochissimo. Nelle tre e passa ore di trasmissione le citazioni del nome Vladimir Putin si contano sulle dita di una mano – grazie all’excursus storico di Fiammetta Cucurnia, di lui trovano più spazio persino Gorbaciov e Yeltsin, entrambi nelle parti delle vittime del complotto del capitale e dell’”espansione a est” della Nato, nuovo archetipo della letteratura (filo)russa –, il nome di Zelensky ci si sforza di farlo solo quando è strettissimamente necessario, cioè quando tocca discutere del neonazismo in Ucraina e del genocidio nascosto del Donbass, la «guerra dimenticata», come la chiama Vauro che ne parla ogni giorno da due mesi, dalla daytime tv di Myrta Merlino alla terza serata di Maurizio Mannoni. Di queste cose bisogna parlare, dice Santoro. E non solo perché se non lo facciamo c’è il rischio che arrivi Moni Ovadia a farci un cazziatone. Commentando certe dichiarazioni del Ministro degli Esteri russo Lavrov a Carta Bianca su Rete4 («potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva sangue ebreo»), Ovadia ha detto che sono scemenze che girano ormai da anni, ed è per questo che lui ha deciso di aggiungerne di nuove parlando di ebrei che servivano nella Wehrmacht («c’è scritto in un libro, è un Newton Compton») e delle radici semitiche dell’albero genealogico di Göring e Heydrich. Tutto per dire che l’ebraismo di Zelensky e il nazismo del battaglione Azov non sono affatto vicendevolmente escludenti come «il mainstream» vuole farci credere.
Si diceva: secondo Santoro di queste cose, del nazismo in Ucraina, bisogna parlare. E lui ha deciso di rispondere alla chiamata del dovere mandando in onda, diviso in spezzoni sparsi nel corso della serata, un documentario sulla «strage di Odessa», l’incendio alla Casa dei Sindacati in cui nel 2014 morirono 42 persone, momento di massima tensione negli scontri tra nazionalisti ucraini e indipendentisti filorussi nell’est del Paese. Il documentario in questione è Le maschere della rivoluzione del documentarista francese Paul Moreira. «Guardatelo, ne vale la pena», consiglia Santoro in chiusura di serata. L’ho fatto, e poi sono andato a leggere cosa dissero i giornalisti francesi quando Canal+ decise di trasmettere il film in prima serata. Sebastién Gobert di Liberation ha detto che Moreira sembra essersi dimenticato dell’annessione della Crimea. Benoit Vitkine di Le Monde ha aggiunto che il film presenta «un quadro distorto del conflitto ucraino». Paul Gogo di Ouest France ha detto che l’unico principio seguito dal regista è «tutti i media mentono, io vi racconto la verità». Mi ricorda qualcuno.