Cultura | Giappone

Il Giappone e noi

Dagli anime arrivati in Italia negli anni '70 ai manga oggi in cima alle classifiche letterarie, passando per il karaoke, il walkman, il Game Boy e il tamagotchi: una chiacchierata con il giornalista Matt Alt, autore di Pop, saggio sul soft power nipponico.

di Giuseppe Luca Scaffidi

Per alcuni il 4 aprile del 1978 potrebbe rappresentare una data trascurabile, una tra le tante; eppure, quel giorno, l’immaginario collettivo di un’intera generazione cambiò per sempre: la faccia rassicurante di Maria Giovanna Elmi annunciò l’approdo sulle reti Rai di un nuovo cartone animato giapponese, Atlas Ufo Robot. L’opera, ideata da Go Nagai, seguiva la scia del successo delle due serie dedicate a Mazinga, che avevano spopolato nella televisione giapponese negli anni precedenti. In Italia, però, nessuno ne sapeva nulla, a partire dal motivo per cui la gigantesca creatura meccanica protagonista della serie si chiamasse “Goldrake”, visto che in Giappone il suo nome originale era Grendizer e in Francia, paese dal quale la Rai acquistò la serie, era conosciuto come Goldorak” – c’è chi dice che il nome fosse il prodotto di una contaminazione tra “Goldfinger” e “Mandrake”. Vai a sapere. 

Goldrake diede inizio alla penetrazione della cultura pop giapponese in Italia, un Paese da sempre influenzatissimo dai dispositivi di fantasia importati dal Sol Levante. Per chi oggi, alle nostre latitudini, ha meno di 45 anni, il Giappone è stato un po’ ciò che sono stati gli Stati Uniti per la generazione precedente: un punto di riferimento e una presenza costante nei consumi culturali. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Matt Alt, traduttore, giornalista, collaboratore del Guardian e, soprattutto, autore di POP ポップ Come la cultura giapponese ha conquistato il mondo per parlare di soft power nipponico, di tutte quelle novità Made in Japan – dal karaoke al walkman, dai tamagotchi e Neon Genesis Evangelion – che hanno contribuito a introdurre gradualmente la modernità nelle nostre vite e del clamoroso allineamento di pianeti che ha portato un Paese piccolissimo a imporsi come vero e proprio esportatore di immaginari universali, rivaleggiando in condizione di parità con una macchina culturale pervasiva come quella statunitense. 

La prima domanda è più una curiosità: come funzionava il primo approccio con la cultura pop giapponese per un adolescente privo di una connessione internet?
Nel mio caso con i giocattoli: sono cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, quando il Giappone esportava in quantità industriale contenuti a tema “robottoni”. Purtroppo, negli Stati Uniti i mecha non hanno attecchito l’immaginario collettivo come è accaduto in Italia: l’offerta in televisione era decisamente più ridotta, ma quel poco che ho visto l’ho amato sin da subito. L’epifania, però, è arrivata grazie a un regalo di compleanno di mia nonna: un’action figure di Getta Robo G. Aveva la scritta un giapponese sullo stomaco, e questo mi fece capire che esisteva un paese molto lontano che amava i robottoni tanto quanto me.  

Quindi l’Italia è un osservatorio privilegiato?
I bambini italiani erano fortunatissimi, sono sempre stato geloso delle loro possibilità: avevano accesso a una porzione di immaginario così ingombrante, dai cartoni che andavano in onda sulle reti locali ai giocattoli. Tutte cose che noi potevamo soltanto sognarci. 

Ho letto che, all’inizio, volevi intitolare il libro Generation J, trattando la cultura pop giapponese come una sorta di trait dunion capace di aggregare Millennial e Gen Z.
Sì, diciamo che concepisco la cultura pop come una costante che accomuna tutte le generazioni post X. Per noi i prodotti giapponesi sono arrivati nell’adolescenza, ma Millennial e Gen Z hanno subito un’esposizione costante fin dalla nascita. Non è un caso se gli studenti francesi riversano i fondi del loro bonus cultura in manga e se Super Mario è uno dei film che ha incassato maggiormente al botteghino nella storia recente. Siamo diventati una società di otaku di massa, dei superconsumatori che rifiutano di rinunciare ai consumi culturali della loro giovinezza anche quando diventano adulti.   

Nel primo capitolo di Pop spieghi che la cultura materiale giapponese è stata definita dalle “scatole”, dal cibo (i bentō in primis)  fino ai giocattoli e alla sacralità delle confezioni originali. Da dove nasce questa ossessione per il packaging?
Il Giappone è una nazione in cui l’etichetta e il protocollo sono molto apprezzati. Da questo punto di vista, la presentazione di qualcosa è importante almeno quanto il contenuto. Il massimo esempio è la cucina kaiseki” e la sua organizzazione dell’impiattamento che sfiora l’ossessivo, ma un buon esempio è anche la cerimonia del tè, in cui la tazza è importante almeno quanto gli infusi. Questa tendenza si estende anche ai prodotti di consumo: alcuni dei giocattoli che ricordo meglio della mia infanzia avevano scatole bellissime, forse più dei prodotti che contenevano. 

Uno dei personaggi preferiti dai lettori di Pop è Kosuge Matsuzo, leader di questa specie di think tank dell’industria dei giocattoli destinato a cambiare per sempre il settore: cosa ha suscitato il tuo interesse per lui?
La jeep di latta di Matsuzo Kosuge non è stata solo il primo giocattolo realizzato dopo la Seconda guerra mondiale, ma il primo prodotto in generale realizzato dopo la fine del conflitto più sanguinoso dello scorso secolo. Quando ho saputo questa cosa, sono rimasto sbalordito. Dopo tutto quel carico di distruzione e sofferenza, la prima cosa che il Giappone ha partorito è stata una macchinina. Kosuge ha dimostrato al mondo intero quanto il senso del gioco possa essere importante per una comunità. E quella jeep è l’antenata di tutti i giocattoli popolari con cui giochiamo oggi. 

Racconti anche di come i giocattoli abbiano permesso alle esportazioni giapponesi di ripartire in un periodo molto delicatissimo, contribuendo a risollevare un Paese rovinato dalla guerra.
Sì, il successo di Kosuge ha dato il via all’industria dei giocattoli e l’industria dei giocattoli ha dato il via all’economia giapponese. Il Giappone è spesso descritto come un Paese molto rigido e conservatore, ma in realtà ha un senso del gioco che non conosce paragoni. Fin dai primi momenti di contatto con gli Stati Uniti dopo l’apertura dei porti nel 1850, gli americani rimasero sbigottiti dalla quantità di negozi di giocattoli presenti ovunque, dalle città ai villaggi più sperduti. Quella giocosità è stata schiacciata dall’autoritarismo della seconda guerra mondiale, ma è sbocciata una volta tornata la libertà e ha aiutato il Giappone a risorgere dalle ceneri. 

Cosa pensi della scena anime contemporanea? C’è ancora quella capacità di immaginare possibili futuri o siamo rimasti bloccati a Evangelion?
Ma no, gli anime sono più fantasiosi e dinamici che mai; forse sono diventati un pelino più tetri, ecco. Eppure, anche in tutta questa oscurità c’è un senso di speranza. Un esempio? Chainsaw Man: si apre con un ragazzo che sta letteralmente vendendo i suoi organi per pagare un debito. Ma anche mentre lotta, si rende conto che la sua missione è diventare felice, anche in circostanze terribili. È una metafora del modo in cui molti giovani vedono il mondo, credo. L’anime è una valvola di sicurezza e una fonte di immaginazione e nutrimento in tempi bui.  

Come hai selezionato il materiale da trattare?
Ho scelto di concentrarmi su quelli che nel libro definisco “dispositivi per la consegna di fantasia”, ossia prodotti o servizi che hanno trasformato il nostro modo di pensare mentre li consumavamo. Il Giappone eccelle nella realizzazione di prodotti che rispondono a domande che il mondo non ha ancora pensato neppure di porre e, quando li vediamo, istintivamente li bramiamo. Come il walkman, o il Game Boy, o anime e manga, tra molti altri. Mi sarebbe piaciuto concentrarmi di più sui Power Rangers, però.   

Qual è stato il personaggio più bizzarro che hai intervistato?
Incontrare di persona il signor Negishi, l’inventore della prima macchina per il karaoke, è stato incredibile: aveva 92 anni, ma era ancora molto arzillo e di compagnia. Abbiamo cantato insieme nel suo soggiorno, dove si è tenuta la prima festa di karaoke al mondo: mi sembrava di camminare su un terreno sacro.