Attualità

Massimiliano Gioni

Profilo del nuovo direttore della Biennale d'arte di Venezia, che cantava "Loser" di Beck e oggi è dove voleva arrivare. A New York, in prima fila.

di Barbara Casavecchia

Per presentarvi il panel di Studio in Triennale dedicato al mondo dell’arte, ripubblichiamo questo articolo su Massimiliano Gioni, direttore della Biennale d’arte di Venezia, scritto da Barbara Casavecchia, curatrice e giornalista (nonché ex collega di Gioni), tratto da Studio 8 (maggio-giugno 2012). Casavecchia sarà una delle ospiti della nostra tre giorni di incontri e concerti (leggi il programma).

 

I’m a loser baby, so why don’t you kill me? Se ripenso a Massimiliano Gioni nella versione antidiluviana in cui l’ho conosciuto (eravamo entrati nella redazione di Flash Art quasi in tandem), la colonna sonora è quel Beck, targato 1994. Lo cantava sempre, presumo per ragioni apotropaiche. O per via dell’aura no future: anni dopo, ho scoperto che vantava un passato da frontman di una band post-punk di Busto Arsizio, la sua lombarda città natale, che di solito paragona a Newark, New Jersey, perché altrettanto anonima e vicina a un aeroporto. All’epoca viveva in simbiosi con Fabio, l’amico col quale aveva fondato la e-zine di arte e spettacolo TRAX (qualche brandello è ancora in rete), ricordava un numero inquietante di date, divorava libri, traduceva a vista, sparava battutacce, viaggiava in Panda, fumava come una ciminiera. Erano sempre accesi: sia lui, che la sigaretta. E il cellulare. Aveva 24 anni e andava di fretta: lì, dove voleva arrivare. A New York, in prima fila.

E ce l’ha fatta. Oggi Gioni (classe 1973) è un frontman dell’arte contemporanea: quando le agenzie hanno battuto la notizia che l’attuale Associate Director e Director of Exhibitions del New Museum, nonché Direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi sarebbe diventato anche il più giovane direttore della prossima Biennale di Venezia, la reazione più diffusa è stata di sollievo, non di stupore. Con i primi capelli bianchi, forse hanno smesso di etichettarlo come enfant prodige, ma di biennali ne ha già curate un paio, a Berlino (2006, a sei mani) e Gwangju (2010, da solo), ha firmato La Zona dell’edizione veneziana del 2003, collaborato alle biennali di Lione (2007) e Sydney (2008) e non è un segreto che fosse tra i finalisti per la überdirezione di Documenta13, poi andata a Carolyn Christov-Bakargiev. Probabile che la sua lista di cose da fare prima dei quaranta sia ancora lunga, ma qualche crocetta sul foglio deve pur esserci, visto che nel frattempo ha anche smesso di fumare e si è sposato, con Cecilia Alemani, curatrice migrata a sua volta da Milano a New York, via Bard College.

Se Maurizio Cattelan ha detto e ripetuto di essersi impegnato come un ossesso per non dover lavorare mai più, Massimiliano, il suo gemello diverso (dal ’99, nel ruolo variabile di alter ego, interprete, critico, curatore e partner in crime), per contrappasso ha un curriculum da stacanovista. Dissimula con l’ironia i suoi volli, e volli sempre, e fortissimamente volli e continua a lavorare di più, con determinazione da maratoneta. Se nel 2000 Gioni scriveva circa un articolo al mese, più una manciata di testi per cataloghi di mostre internazionali (come La Ville, Le Jardin, La Mémoire a Villa Medici, Roma, e Manifesta 3, Lubiana) e si occupava dell’editing della prima monografia di Cattelan per Phaidon, l’anno dopo, gli articoli sono raddoppiati; dieci anni dopo, eccolo a pubblicare un contributo al mese per la rubrica “The Office” su Abitare (insieme a Cattelan e alla critica e curatrice californiana Ali Subotnik); scrivere regolarmente per Wired Italia; firmare articoli e interviste per Flash Art, Kaleidoscope, Mousse, Artpress, The Exhibitionist e testi per le monografie di Micol Assaël, Martin Creed, Paola Pivi; curare la Biennale di Gwangju (più relativi libro e guide) e installare la mastodontica Pig Island di McCarthy a Palazzo Citterio di Milano – e la lista è sommaria. Non che faccia tutto da solo: ha lavorato spesso e volentieri in gruppo. Come per il Boetti Day, lo scorso maggio, una maratona di conferenze, ricordi, immagini, musica e testimonianze lunga 24 ore organizzata a Torino con Luca Cerizza e Francesco Manacorda, per rendere omaggio all’artista italiano più plurale di sempre. E dal quale anche Gioni ha imparato parecchio, nell’era della “autorialità multipla”, come scrivono i teorici quando cercano di spiegare l’intreccio di ruoli che coinvolge la produzione dell’arte nel ventunesimo secolo. Penso che Charley, la rivista che Cattelan, Gioni e Subotnik hanno iniziato a pubblicare nel 2002, si chiami così per via di una strepitosa scultura di Charles Ray (Oh! Charley, Charley, Charley, 1992), un’orgia dove ad accoppiarsi sono sei-sette cloni dell’artista, moltiplicato in serie. «Faccio e imparo molto di più se sono con gli altri. E ho capito che mi trovo bene con persone con le quali non c’è soluzione di continuità tra lavoro e non», spiega Gioni. «È capitato con Maurizio, con Francesco (Bonami), ora con Chris (Wiley). E poi c’è il dialogo e confronto costante con Cecilia, anche se non lavoriamo insieme. L’industria richiede una faccia, un personaggio, ma le mostre sono sempre sforzi collettivi». All’inizio di quest’anno, la premiata ditta M(assimiliano) & M(aurizio) ha annunciato che avrebbe riaperto bottega, a Chelsea, rinnovando la formula no-profit e senza rete della Wrong Gallery (poco più che una vetrina, ma con mostre talmente da museo, da finire ospitata alla Tate) nel nuovo e più ampio spazio di Family Business. Dopo il debutto con il Virgins Show a cura di Marilyn Minter, e l’open call del “critico YouTube” Hennessy Youngman/Jayson Musson, intitolato It’s a small, small world – ha fatto stare 500 artisti in una stanza – a maggio il timone passa a un giovane artista di Chicago, John Anderson. Avanti tutta.

Intanto, Gioni dice che vorrebbe dormire un paio d’ore in meno, se potesse, per fare di più: la sua routine inizia alle 6.45 con l’accensione del computer, poi c’è l’ufficio, quando non è in viaggio, fino a sera. Ora che sta facendo ricerca per la Biennale, va al museo una settimana sì e una no, e risponde alle mail solo alle 12 e alle 17, per concentrarsi meglio. «Invidio Joshua Foer, il fratello dello scrittore Jonathan Safran, che è un mnemonista e ha pure scritto un libro,Moonwalking with Einstein: The Art and Science of Remembering Everything, per raccontare come si fa a non dimenticare mai nulla. Più sai, più vedi, anche con gli occhi di chi ha visto prima di te». Lettore vorace, in gioventù Gioni era innamorato di Lucy Lippard, ma anche di Arbasino e Bianciardi –  altri due periferici. L’ha anche raccontato, con un pezzo in bianco e nero sulla poesia “La ragazza Carla” (1965) di Elio Pagliarani (Mousse n. 21, nov. 2009): «Da bravo provinciale, a me Piazza Duomo, con i neon, ha sempre fatto una certa impressione, anche se ha sempre evocato un misto d’amore e odio, di rabbia, anche – si può ancora dire? – di classe. Il boom economico – sarà colpa di Berlusconi che ci ha marciato per anni? – me lo sono sempre immaginato imbevuto di una tristezza infinita. Forse perché non ero lì, non ho visto la gioia, l’integrazione, il successo, e persino l’odor di pulito di cui cantava Jannacci per la sua Vincenzina davanti alla fabbrica. Forse perché non c’ero, nel boom economico ho sempre visto solo i soprusi, gli umiliati e gli offesi – la vita agra. Eppure accanto a queste storie, ai cortili di Testori, alle baraccopoli di Pasolini, mi ha sempre sorpreso che, in quegli stessi anni, ci fossero gli artisti, scienziati e ingegneri, dell’arte programmata, che ci fossero i cocktail al negozio Olivetti – anzi che ci fosse Olivetti in persona».

E chissà se nella sua propensione per i pastiche di Paul McCarthy e John Bock alberga ancora un po’ di Gadda. Un libro non l’ha ancora scritto, però ha curato mostre dai titoli dichiaratamente letterari, come Uomini e topi (sottotitolo della Biennale di Berlino) o After Nature (Secondo Natura), al New Museum nel 2008, che non si limitava a citare il poema di W. G. Sebald, ma lo riproduceva pari pari come catalogo, inserendo riproduzioni delle opere esposte tra le pagine del volumetto, come segnalibri, e relegando il testo critico all’interno della sovracopertina. «È un processo duplice. In realtà le mostre nascono e si sviluppano per i fatti loro, non per illustrare un libro. Quando hanno già raggiunto un certo livello di complessità, il titolo ne aggiunge un altro. D’altra parte, mi piace che una mostra sia più vicina alla letteratura, che alla dimensione del saggio, anche per insofferenza verso certe collettive a tesi. Vorrei che comunicasse un’atmosfera precisa: come la Mosca immaginaria e individuale de Il Maestro e Margherita, che è descritta talmente nel dettaglio da diventare una Mosca universale. A Gwangju, invece, ho tentato di proporre un’altra idea di narrazione, più enciclopedica. E sono felice del catalogo, che funziona come un visual essay, uno zibaldone. Un formato che mi piacerebbe esplorare ancora».

Gioni ha scandagliato spesso il modello della personale come assolo, dove il mondo dell’artista prende corpo, inghiottendo lo spettatore in una dimensione parallela, quasi lisergica, da apparizione. Basta citare il doppelgänger di Pavel Althamer che volteggia, tutto nudo, come uno zeppelin incongruo sopra gli alberi del Parco Sempione, coi bambini a bocca aperta, a fare «Guarda! Guarda!» con il dito – una delle espressioni di arte pubblica più sorprendenti (e impudenti) che si siano viste a Milano e che per me, fa idealmente il paio con il fallo gigante bruciato da Tinguely sul sagrato del Duomo nel ’70, per il festival del Nouveau Réalisme, che tanto fece imbufalire la Curia. O i guardiani di Villa Reale che ballano intonando This Is So Contemporary! per ordine di Tino Sehgal. O la casa di pane di Urs Fischer, all’Istituto dei Ciechi, divorata un giorno dopo l’altro da pappagallini colorati. O ancora la faccia di Pipilotti Rist che ti fissa, gigante e distorta, dallo schermo del dismesso Cinema Manzoni, come un fantasma col rossetto. Anche la Biennale di Berlino aveva un impianto ipernarrativo, da Buddenbrock, impostata com’era su un percorso (lungo una sola strada, la Auguststrasse) dalla chiesa al cimitero, passando per scuola, casa, balera e amori.

Uscire dalla cornice neutra del white cube aiuta. Anche a comunicare, a stabilire una relazione immediata, più o meno spregiudicata, con lo spettatore e ad allargarne il cerchio. «Credo che l’istituzione e la mostra debbano produrre il pubblico, e non viceversa», sosteneva Gioni, in una conversazione a tre con Jerry Saltz e Klaus Biesenbach (Flash Art Int, gen. 2009). In una città senza museo come Milano, Gioni ne ha attivato uno privato, ambulante e gratuito che funziona –  produzione di spettatori inclusa – da quasi dieci anni. Per farlo, ha puntato prevalentemente su artisti mainstream, cosa senz’altro utile per accreditare sé e la propria istituzione sul versante dell’establishment internazionale, certo, ma anche per costruire una platea locale, in un contesto dove la possibilità di misurarsi con opere contemporanee (mainstream o di nicchia, di persona o attraverso i media) è rara. Ha pigiato sul pedale per spostare il limite, sfruttando l’effetto sensation. Ogni volta, ha chiesto agli artisti di lavorare su misura per i luoghi, riuscendo a farli riscoprire (come Palazzo Litta con Fischli & Weiss), come a renderli “abitabili” dal presente. Il ditone impudico di Cattelan davanti alla Borsa sarebbe stato impensabile senza il precedente di Untitled (2004) a Piazza XXIV Maggio, coi tre pupazzi impiccati come Pinocchi. Nel volume che riassume le mostre della Fondazione, A chi serve la luna? (Hatje Cantz, 2010), la cronistoria e rassegna stampa sull’accaduto occupano dieci pagine, ed è una lettura istruttiva riguardo ai livelli del dibattito sui temi di arte e spazio pubblico nel Bel Paese, oltre che divertente da confrontare coi fiumi di latte e miele scorsi, talvolta dalle stesse penne, quando l’autunno scorso al Guggenheim Cattelan ha trasformato l’intera sua opera in una ballade des pendus.

A New York, dove l’arte contemporanea non è un alieno in giardino, la strategia curatoriale è inevitabilmente diversa. Se da un lato il New Museum sembra aver raccolto l’eredità del Dia:Chelsea, con grandi solo show istituzionali e qualche blockbuster – non sempre amati: uno dei più recenti, di Carsten Höller, è stato criticato per eccesso di entertainment e nel 2010 ha sollevato un tornado di polemiche l’allestimento, a cura di Jeff Koons, della collezione di Dakis Joannou (il mega collezionista greco che siede nel board del museo, col quale Gioni collabora da tempo e della cui raccolta ha curato diverse mostre alla Deste Foundation di Atene, nel 2004, 2007 e 2009) – le collettive fungono da mappature a tutto campo per tendenze, generazioni o geografie (UnmonumentalYounger Than JesusOstalgia). Ma al New Museum hanno trovato spazio anche autori più marginali o dimenticati, come Dorothy Iannone, pasionaria dell’erotismo liberato, che aveva già partecipato alla Berlin Biennale del trio. Nella lista dei miei ricordi preferiti, durante i giorni dell’inaugurazione, c’è una conferenza di Emmett Williams (artista Fluxus e amico di lunga data di Dieter Roth e Iannone) che, si presentò con un sacchetto di plastica e dentro un quaderno, un serbatoio senza fondo di storie poetiche.

Ultimamente, Gioni ha lavorato spesso con artiste: l’anno scorso, curando la personale di Lynda Benglis (indimenticabile la sua pubblicità su un Artforum del ‘74, quando per sfottere il machismo imperante si fece fotografare nuda, abbronzatissima, la mano stretta attorno a un interminabile pene finto che le spuntava dal pube – girl power!); nei prossimi mesi sarà la volta dell’amata Tacita Dean e di Klara Lidén, in autunno di Rosemarie Trockel, la cui retrospettiva Cosmos arriverà a New York dal Reina Sofia di Madrid, per poi proseguire per la Serpentine di Londra. Dalla Bowery, sono passate anche le mostre di Gustav Metzger, David Wojnarowicz, Sam Durant, Paul Chan, Sharon Hayes, Harun Farocki, ponendo sul tappeto la relazione coi temi politici. «Non c’è dubbio che anche questa sia una responsabilità dell’arte», dice Gioni. «Ma l’arte non diventa politica per il solo fatto di trattarne gli argomenti. Anzi. L’ho capito bene lavorando a Manifesta, a San Sebastian, dove se avessimo fatto una mostra in quella chiave, sarebbe stata solo banale, oltre che irrispettosa nei confronti della complessità della questione basca. Ne ho parlato con gli artisti del posto, schiacciati dalla lettura univoca del loro lavoro. E me l’ha spiegato meglio di tutti Txomin Badiola, dicendo che il gesto più politico, secondo lui, è creare un territorio di ambiguità. Per questo m’interessano i modi in cui l’ha fatto il Surrealismo, o, nel dopoguerra, posizioni come quella di Vittorini, Eco, della scuola bolognese, di Anceschi: impegnati, ma mai da “realisti socialisti”, per adottare una categoria di quegli anni. Trovo kitsch che in ogni biennale ora ci debba essere un’opera sulla situazione palestinese, magari mediocre. Credo che l’arte, in fondo, sia una questione di metafore, e quindi preferisco chi, come Pavel Althamer o Artur Zmijewski, s’interroga su cosa significhi “fare politica”».

Sulla Biennale, ovviamente, no comment: troppo presto, troppo da leggere ancora. «Una cosa che m’interessa molto, imparata guardando a Pontus Hulten o Harald Szeeman, ma soprattutto agli artisti, è l’idea della ricostruzione. Rifare una cosa non è una perdita di tempo, impari sempre qualcosa. Ora, per esempio, per Ghost in the Machine, un’antologica sulla relazione tra arte, macchine e umani che terremo quest’estate al New Museum, stiamo lavorando alla ricostruzione del Moviedrome di Stan Vanderbeek e di una mostra di Richard Hamilton intitolata Man, machine, motion, composta da duemila foto: noi ne avremo 1900, ma non ci sono piante specifiche, i disegni non corrispondono alle foto d’archivio e Hamilton stesso ne aveva fatto, anni dopo, una ricostruzione non filologica, né forense. Le mostre non le puoi documentare, se non rifacendole. È anche un buon modo per imparare a pensare in maniera diversa: negli Usa c’è una cultura dell’opera d’arte, stimolata dalle gallerie o da un certo tipo di museo, che ti fa pensare all’opera come masterpiece assoluto e intoccabile, che basta da solo a se stesso. Ma se guardi alla storia dell’arte e delle mostre, ti accorgi che non è così. La copia, la ripetizione, indebolisce quell’aura da grande capolavoro e diventa un documento culturale. Forse è per via di Internet, ma l’idea di originale conta sempre meno. Credo che sia un buon momento per riflettere sui copyright, la proprietà delle informazioni e delle immagini, che senso ha rimetterle in circolo. M’interessa la nostra condizione di inflazione permanente. E come gli artisti stiano cercano di farci i conti» Insomma, buon lavoro.

 

(Immagine: il Padiglione Italia della 54esima Biennale d’arte Veneziana, giugno 2011 – Vittorio Zunino Celotto / Getty Images)