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Negli Usa il Parmigiano Reggiano è così popolare che un’agenzia di Hollywood lo ha messo sotto contratto come fosse una celebrity La United Talent Agency si occuperà di trovare al Parmigiano Reggiano opportunità lavorative in film e serie tv.
I farmaci dimagranti come l’Ozempic si starebbero dimostrando efficaci anche contro le dipendenze da alcol e droghe La ricerca è ancora agli inizi, ma sono già molti i medici che segnalano che questi farmaci stanno aiutando i pazienti anche contro le dipendenze.
Kevin Spacey ha raccontato di essere senza fissa dimora, di vivere in alberghi e Airbnb e che per guadagnare deve fare spettacoli nelle discoteche a Cipro L'ultima esibizione l'ha fatta nella discoteca Monte Caputo di Limisso, biglietto d'ingresso fino a 1200 euro.
Isabella Rossellini ha detto che oggi non è mai abbastanza vecchia per i ruoli da vecchia, dopo anni in cui le dicevano che non era abbastanza giovane per i ruoli da giovane In un reel su Instagram l'attrice ha ribadito ancora una volta che il cinema ha un grave problema con l'età delle donne. 
Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, le donazioni per Gaza si sono quasi azzerate Diverse organizzazioni umanitarie, sia molto piccole che le più grandi, riportano cali del 30 per cento, anche del 50, in alcuni casi interruzioni totali.
Lorenzo Bertelli, il figlio di Miuccia Prada, sarà il nuovo presidente di Versace Lo ha rivelato nell'ultimo episodio del podcast di Bloomberg, Quello che i soldi non dicono.
Il più importante premio letterario della Nuova Zelanda ha squalificato due partecipanti perché le copertine dei loro libri erano fatte con l’AI L'organizzatore ha detto che la decisione era necessario perché è importante contrastare l'uso dell'AI nell'industria creativa.
Per evitare altre rapine, verrà costruita una stazione di polizia direttamente dentro il Louvre E non solo: nei prossimi mesi arriveranno più fondi, più telecamere, più monitor, più barriere e più addetti alla sicurezza.

Il mito di Martin Margiela

Lo stilista è al lavoro sul suo documentario, ma nessuno si è mai dimenticato di lui.

09 Luglio 2019

«Così Martin Margiela, un giovanotto che fa impazzire la stampa specializzata per l’ammirevole bruttezza della sua moda, ha costretto le sue devote (purtroppo alcune vestite con i suoi modelli come estratti dalla spazzatura) a rincorrerlo fino alla sede dell’esercito della salvezza, alla periferia della città, per ammirare abiti del tipo buttato via, ripescato per fare la polvere, trasformato in quadro alla Burri e poi riproposto senza neanche disinfestarlo alle elegantone cerebrali del 1993». Su La Repubblica del 22 marzo 1992, Natalia Aspesi commentava così la sfilata di Margiela, per nulla impressionata dalla sua filosofia dell’abito. Con l’ironia che la contraddistingue, Aspesi raccontava di un mondo della moda ancora inaccessibile, fatto di tribù rigorosamente separate che si guardavano in cagnesco dalle prime file (quello in realtà succede anche oggi), dove gli smartphone erano ben lungi dal sovvertire il barometro della rilevanza e la retorica dell’inclusività non aveva ancora mietuto vittime (e cioè gli esclusi, che il più delle volte son rimasti tali). Margiela, nel 1992, poteva anche sembrare una cosa per pochi, un vezzo della tribù dei nero-vestiti con le camicie all’incontrario e le maniche di sbieco, una storia di moda in mezzo a tante altre – nell’articolo si parla infatti lungamente di Romeo Gigli, di Rei Kawakubo e di Jean Paul Gaultier, che aveva appena disegnato gli “abiti-reggiseno” di Madonna. Ma poi sono arrivati tempi ancora più strani, che nel 1992 non erano mica prevedibili, e l’ammirevole bruttezza – che era brutta, ma pur sempre ammirevole – è diventata la lente migliore con cui osservare quello che succede tutt’intorno agli abiti, e alle persone che li indossano.

Su Instagram, infatti, è comparso l’account @margielainhisownwords, che annuncia la prossima uscita di un documentario – Margiela In His Own Words, appunto – in cui lo stilista che ha concesso pochissime interviste, solo all’inizio della sua carriera, prima di rinchiudersi in un silenzio che lo avrebbe consacrato al mito di oggi, si racconta e, presumibilmente, fa un bilancio di quello che è stata la sua influenza sulla moda contemporanea. Solo l’anno scorso due mostre, una al Palais Galliera a Parigi e l’altra al MoMu di Anversa, avevano iniziato a metter mano a quell’eredità ingombrante, un’operazione necessaria tanto più nell’epoca di Demna Gvasalia (che pure è stato suo allievo) e della decostruzione che passa per l’Instagram di Kim Kardashian. In occasione di Margiela/Galliera, 1989-2009, il designer belga di cui esiste una sola fotografia, peraltro mai verificata (del 1997, di Marcio Madeira), che comunica solo via fax e che ha silenziosamente lasciato il marchio da lui fondato nel 2008, ha lavorato al fianco del curatore francese Olivier Saillard a una prima ricostruzione del suo lavoro, mentre la retrospettiva di Anversa – Margiela, the Hermès years – si concentrava su un periodo meno conosciuto della sua carriera, quello della direzione artistica da Hermès: all’analisi, dodici collezioni disegnate dal 1997 al 2003. Si aggiunge ora il documentario affidato alla regia di Reiner Holzemer, che ha già realizzato un film su un altro belga notoriamente riservato, DRIES (Van Noten).

Com’è tradizione margeliana, non abbiamo ancora troppi dettagli né tantomeno la data ufficiale di uscita, solo quell’account che promette di dare presto aggiornamenti a tutti quelli che religiosamente già seguono @margielaarchive e magari anche @rarebookparis, in preda alla nostalgia di un tempo che spesso non hanno vissuto. Chissà se ci sarà il racconto delle sue sfilate più memorabili, come quella, la prima, alla stazione della metro abbandonata Saint-Martin a Parigi (la stagione precedente allo show recensito da Aspesi) o l’ultima, celebrativa, nel settembre del 2008, o quello dei suoi collaboratori più fidati, da Patrick Scallon a Marina Faust, chissà infine se ci sarà lui, che guarda in camera e magari dice, come ha già detto a Saillard (via fax?) che ha riferito a Matthew Schneier che ha poi trascritto sul New York Times, «[Martin Margiela, ndr] tiene d’occhio l’industria della moda di oggi, e non ne trae nessun piacere. Lo rattrista molto quello che è diventata». Noi qui a dire che tutto parla di lui e dei suoi abiti ammirevolmente brutti e lui che invece ci guarda da lontano, schermato dall’anonimato più riconoscibile che esista, e pensa a quanto triste tutto sia, siamo. Eppure, perso quel “Martin” nel nome, Maison Margiela vive una seconda vita grazie a John Galliano, che disegna collezioni bellissime e fuori di sé, e chi lo avrebbe mai detto al tempo del matrimonio più sgangherato della storia della moda. Lì lo stilista inglese, anche lui protagonista indiscusso di una stagione che non tornerà più, ha trovato la sua via in un più ampio racconto dell’abito che pure sembrava non appartenergli affatto. Dimostrazione ulteriore di come Margiela fosse in realtà un concetto larghissimo, un’idea di quelle veramente precorritrici dei tempi e degli usi che sarebbero venuti e oggi che, in potenza digitale, tutte le tribù possono conquistare il loro spazio, i nuovi adepti quel concetto possono snaturarlo, rimodellarlo, dimenticarlo non sapendo di indossarlo. Perché Margiela è sempre stato di tutti, anche – probabilmente – contro il suo volere.

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