Cultura | Letteratura

L’horror in Sud America secondo Mariana Enríquez

Intervista alla scrittrice che ha rinnovato il genere rielaborando i traumi della dittatura argentina, in libreria con La nostra parte di notte.

di Laura Pezzino

Mariana Enríquez è la maestra dell’horror latinoamericano di questo inizio di secolo. Lo è perché ha saputo prendere un genere che aveva una solida tradizione anglosassone – il mistero, i fantasmi, le streghe, le possessioni, i luoghi infestati, la violenza -, e lo ha rinnovato impastandolo con la storia della sua terra, rielaborando le ferite e i traumi della dittatura argentina – una specie di sindrome post traumatica nazionale – e incanalandoli nell’orrore reale, quelli della vita quotidiana di milioni di persone. Finora l’avevamo vista splendere nella distanza breve, dal momento che in Italia, negli scorsi anni, erano uscite due raccolte di racconti, Quando parlavamo con i morti (Caravan, 2014) e Le cose che abbiamo perso nel fuoco (Marsilio, 2017) che, se vi erano sfuggite, il consiglio è di recuperare. Quella del racconto è un’arte che in pochi sanno maneggiare con destrezza. Lei è tra questi pochi, e lo fa in modo che sembra normale – la grandezza sta sempre in quella cosa lì, nel non apparire mai meno che naturale.

A un altro intervistatore aveva detto che, per scrivere i suoi racconti, parte sempre da un’idea: a volte molto concreta, altre invece molto astratta e che riguarda più un clima, un’atmosfera. Un luogo, verrebbe da dire, ed è una cosa che dice anche nell’intervista qui sotto: «Ho una specie di paura degli spazi aperti, per questo ce ne sono molti nel mio romanzo». Il romanzo in questione, un volume di quasi settecento pagine, si intitola La nostra parte di notte ed è appena uscito per Marsilio. Ma per un romanzo, specie se così lungo, un’idea non basta. Il racconto, ha detto in passato, è come una canzone: «Quello che mi interessa è fare in modo che funzioni, che sia difficile da dimenticare. Nei romanzi, invece, tutto è nelle mani dei personaggi». E in La nostra parte di notte sono proprio loro a portare fino in fondo tutta la tensione – di quello che gli capita, di quello che capita al resto del mondo. Sono Juan, un uomo bellissimo, potentissimo e malato di cuore che un Ordine segreto utilizza come medium per contattare l’Oscurità, divinità malefica dalla quale sperano di ottenerne la vita eterna. Sono Gaspar, suo figlio, un bambino sensibile, delicato e, a sua volta, portatore di un grande potere. Ci sono poi Rosario, moglie di Juan e scomparsa in circostanze oscure. La famiglia della donna, un mix di persone buone e malvagie come ci sono ovunque.

La nostra parte di notte, che in patria ha ottenuto il prestigioso premio Herralde, racconta di un padre che cerca di proteggere il proprio figlio impedendo che erediti le proprie colpe. È la storia più antica del mondo, ma da che il mondo esiste quella speranza si è sempre rivelata vana: ciascuno risponde a una chiamata ben precisa e lì si gioca tutto il destino. Non si scappa, mai. La nostra parte di notte è, in sostanza, un grande contenitore nel quale Enríquez ha messo in scena, sullo sfondo di 50 anni di storia argentina, l’intera costellazione delle proprie ossessioni – la politica, il potere, i corpi, il sesso, l’horror, la musica e la poesia – in un mix di realismo urbano, coscienza sociale e topoi del genere horror, appunto, rivisitati («tradotti», direbbe lei). Quando le viene chiesto, Enríquez fa risalire le proprie radici letterarie in parte alla tradizione sudamericana di Cortázar, Borges, Ocampo, ma anche di Puig e Arlt, in parte alla mitologia locale (nelle sue storie, sono frequentissimi i richiami alle tradizioni mapuche) e in parte al filone King, Poe e Lovecraft. Che visto da qui fa davvero paura, il che significa che è il pantheon migliore che si potesse scegliere.

Come titolo, ha scelto il verso di una poesia di Emily Dickinson che termina con la parola «giorno». Che legame c’è tra poesia e horror?
Penso che siano collegati in un modo molto particolare – entrambi riguardano principalmente la morte e ciò che è incerto. Specialmente quando scrivo, mi capita di leggere molta poesia perché, come l’horror o l’inquietante, è piena di mistero. Ho scelto Emily Dickinson, e solo una parte di quel verso, principalmente perché è una delle mie poetesse preferite, ma anche perché la sua vita “gotica” e appartata era una specie di indizio, diciamo, una specie di introduzione. Lei era anche molto consapevole della dualità delle persone, e io volevo che i miei personaggi fossero ambigui: tranne forse Mercedes (la madre di Rosario, ndr), infatti, nessuno è totalmente “buono” o “cattivo”. Ecco perché ho scelto un titolo che, nominando la parte di oscurità che tutti portiamo, implica anche quella di luce.

Uno dei temi principali del romanzo è l’«eredità», che di solito è una cosa che viene tramandata ai figli. Lei, per sua scelta, non è diventata madre, ma è una scrittrice e ha moltissimi lettori. Che importanza ha per lei il concetto di eredità?
Come scrittrice non molta. Sono – penso che la parola sia questa – un’“iconoclasta” e credo che la mia “eredità” letteraria sia da ricercare in molti posti. Per me, la tradizione spagnola è importante quanto Rimbaud, i decadenti francesi, gli scrittori horror dall’era vittoriana fino a oggi, il gotico meridionale e la poesia. Mi interessa di più l’eredità nella vita reale. Perché facciamo dei bambini, cosa gli affidiamo, quali traumi gli trasmettiamo, sia familiari che storici: credo che queste siano tutte domande che emergono dal mio romanzo.

Qual è stata la prima immagine che le è venuta in mente del romanzo? E come è riuscita a tenere insieme le fila di personaggi, trama ed eventi storici?
Volevo scrivere un romanzo di genere, un romanzo di fantascienza oscura, quindi la prima immagine è stata quella dell’Ordine e dei suoi rituali per evocare un dio amorfo che parlasse con loro attraverso un medium. Poi quando ho iniziato a scrivere è arrivato tutto il resto, i personaggi, la storia, i dettagli, la geografia particolare in cui è ambientato, tra il Sud America e Londra. Il mio metodo, dal momento che non volevo scrivere un romanzo cronologico – è molto lungo e avevo bisogno di momenti, stili e voci diversi – è stato dividerlo in quattro parti. I riferimenti politici mi vengono naturali e penso che siano inevitabile in un romanzo che parli, anche, di potere, chi lo ha per davvero, chi lo ha sempre avuto e il motivo per cui lo si desidera.

È d’accordo quindi con la lettura politica del suo lavoro? Essere «politica» è qualcosa che fa consciamente?
Sì, ma penso che anche uno scrittore come Stephen King sia politico. Carrie, per esempio, parla sia di fanatici religiosi che di un massacro a scuola. It inizia con un crimine d’odio. Mr Mercedes con uno psicopatico che uccide le persone che sono in fila in attesa di un lavoro. Non capisco perché anche lui non venga letto come uno scrittore politico. Se il mio essere politica è intenzionale è perché l’ho imparato da lui e da alcuni scrittori latinoamericani che non si occupano di fantastico, ma dell’orrore della vita reale della povertà.

Colpisce, nel suo romanzo, la fortissima sensualità degli uomini. Come è riuscita a descriverla così bene?
Non lo so! Mi piace scrivere di sesso e mi infastidisce molto quando le persone ne ridono o dicono che sia difficile. Può essere difficile come qualsiasi altra cosa, ma non scrivere cose sensuali è una sorta di prudenza. Le donne lo fanno molto nei romanzi rosa anche se in modo schematico e a volte scadente, come è richiesto dal genere stesso. Devo ammettere anche di essere ossessionata dall’androginia e da un certo tipo di bellezza maschile.

Un padre e un figlio in fuga in un mondo sul quale incombe una grande minaccia: la storia da cui parte porta alla mente La strada di McCarthy. Lo aveva in mente mentre scriveva? Pensa che sostituendo alla coppia padre-figlio quella di madre-figlia avrebbe cambiato la trama in maniera radicale?
Amo tutto McCarthy e quel romanzo mi aveva colpito particolarmente perché poneva una domanda essenziale: perché e cosa dovrei fare con una giovane vita in un mondo che sta morendo, specialmente quando questa giovane vita è quella che io stesso ho portato dentro questa morte? È di nuovo la questione dell’eredità, ma in un ambiente apocalittico e l’avevo in mente durante la prima parte del romanzo. E sì, penso che con un’altra accoppiata sarebbe stato molto diverso. Primo perché, personalmente, volevo proprio una coppia padre-figlio, come Ulisse-Telemaco e così via, quel tipo di eredità in un mondo in cui il patriarcato non è più quello di una volta. Ovviamente Juan e Gaspar non sono i soliti padre-figlio. Madre-figlio avrebbe portato un genere completamente diverso di significati per me in quanto scrittrice e per chi si identifica come donna, mentre non volevo raccontare una storia madre-figlia: la storia e le implicazioni di quel rapporto non solo sono diverse, ma avrebbero potuto portarmi in una direzione in cui non volevo andare.

In quello che scrive – e mi riferisco anche ai bellissimi racconti di Le cose che abbiamo perso nel fuoco – cerca sempre di trasformare i topoi della letteratura horror e gotica per renderli più «latinoamericani». Come definirebbe il suo contributo alla creazione di un nuovo genere?
Non credo sia un nuovo genere, ma una traduzione. Volevo scrivere horror e dark fiction da sempre e non sapevo come farlo. Avevo bisogno di trovare le nostre paure e in qualche modo collegarle al genere, perché penso sia importante rispettare i topoi del genere, che sono lì per un motivo. Allora, qual sarà la forma e il significato della casa stregata in America Latina? Come sarà il fantasma che perseguita il protagonista? Certamente non una contessa, più probabilmente una vittima di violenza. La paura della povertà, le cicatrici della violenza politica, l’incertezza dei perpetui problemi economici… E la geografia, il paesaggio, che è un mix di metropoli e vasti spazi di natura quasi incontaminati.

Pensa che la violenza di un Paese sia legata alla proliferazione di un genere come l’horror o alle pratiche dell’occulto?
Non credo. Parlo spesso con un amico messicano che scrive horror e a cui non piace molto mescolare eventi reali e fiction, anche perché dice di non poter competere con la realtà che sa essere anche molto più atroce. Le pratiche dell’occulto, invece, non le conosco. Non penso che violenza e irrazionale siano correlati. La violenza, il più delle volte, è molto, molto razionale.

È una coincidenza il fatto che, nel suo romanzo, le forze dell’Oscurità siano strettamente legate all’aristocrazia?
No. Volevo che i ricchi e i potenti, i proprietari delle vite e della terra, fossero in contatto con questo dio e provassero quello che, immagino, sia l’obiettivo finale quando sei così potente: la vita eterna mantenendo la mente intatta, non del genere “reincarnarti in un gatto”. Quello che mi interessava era la disuguaglianza e come, quando è così “naturalizzata”, diventi, per i privilegiati, impunità oppure totale indifferenza.

Lei ha esordito a 19 anni con un romanzo generazionale che ebbe un grande successo di pubblico. Cosa direbbe a quella ragazza?
Niente. Magari di mandare a fanculo alcuni giornalisti maschi che le facevano domande volgari del tipo: «Come fai a sapere così tanto sul sesso tra uomini?». Ah, e forse anche di vestirsi meglio: quello credo che sarebbe stato un altro buon consiglio.

Una delle storie che ho amato di più in Le cose che abbiamo perso nel fuoco è quella sull’ossessione di una donna per i cuori malati. Anche in questo romanzo c’è un uomo dal cuore debole. Cosa simboleggia, per lei e la sua scrittura, il cuore?
È un feticcio strano e, per questo, non posso davvero elaborarlo o intellettualizzarlo. Penso che abbia a che fare con alcune idee romantiche proprie sia della letteratura che nel pensiero comune: il sangue, i vampiri, la debolezza, una malattia che non può essere vista, l’organo delle emozioni e dell’amore.

Che ruolo ha avuto la musica, soprattutto il rock e il punk, nella sua formazione come essere umano e come scrittrice?
Ho sempre amato la musica fin da piccolissima. A 9 anni ero già nel fandom dei Duran Duran, e non solo perché erano sexy. Se in un’intervista menzionavano le loro influenze (Roxy Music, Sex Pistols) andavo subito a sentirli. La musica per me ha qualcosa di misterioso, come la poesia: è molto astratta. Mi piace anche la mitologia intorno al rock, e il punk mi ha dato ironia e disciplina. Ho lavorato come giornalista musicale per molti anni, ma sono sempre stata una fan. Il mio artista preferito, indipendentemente dal genere, è Nick Cave. Uso la musica anche per scrivere. Avrei potuto diventare una musicista, ma purtroppo non ho avuto quel dono.

Il suo lavoro è stato spesso etichettato come “nuova narrativa argentina”. Quali sono le caratteristiche di questa “corrente”?
È difficile da dire. Penso che tra di noi non ci sia molto in comune a parte ciò con cui siamo cresciuti, in termini sia culturali sia di eventi traumatici. Mi piacciono Luciano Lamberti, Samantha Schweblin, Maria Gainza e Gustavo Ferreyra, ma non credo che tra di noi siamo molto simili. L’Argentina è un Paese vasto e uno scrittore di Buenos Aires non è lo stesso di uno di provincia.

In questo ultimo anno e mezzo di confinamenti quali prodotti culturali le hanno fatto più compagnia?
Molte cose. Riguardare Twin Peaks e The Wire. Rileggere Toni Morrison e Borges. La ferrovia sotterranea. Fumetti come Locke & Key e The Wicked + the Divine. Ascoltare Caleb Landry Jones. Le storie di fantasmi. Scrivere uno strano libro di immagini e testi con un amico e illustratore che è argentino ma vive in Messico. I film sui vampiri. Leggere libri di amici che in quel periodo sono riusciti a scrivere – mentre io no, non ci riuscivo, anche se ora penso di avere ricominciato.

Pensa che un giorno scriverà qualcosa sulla pandemia? A che cosa sta lavorando?
Sto scrivendo di fandom e fantasmi. Ma finora nessuna pandemia, solo fantasmi… che possono andare ovunque.

Nel suo romanzo, come spesso accade con questo genere, l’horror è spesso legato al luogo e al paesaggio, soprattutto periferico. Potrebbe abbozzare un mini tour virtuale dell’orrore nel suo Paese?
Penso che i luoghi più terrificanti siano quelli in cui sono state commesse delle atrocità. Alcuni luoghi in Patagonia dove sono stati uccisi gli indigeni, per esempio. È successo anche al nord, ma lì è stato diverso, si è andati verso l’integrazione. Oppure i tanti campi di concentramento della dittatura, che sono stati sia interi quartieri militari sia semplici case in mezzo a un quartiere. Il Riachuelo, un fiume molto inquinato che divide la capitale dalla periferia sud. Ho una specie di paura degli spazi aperti, per questo ce ne sono molti anche nel mio romanzo.

Infine, si è fatta un’idea del perché noi umani siamo così attratti dall’orrore? Non ce n’è già abbastanza nel mondo reale?
L’orrore ci attrae proprio perché esiste nel mondo reale. È una prova, una preparazione, un avvertimento. Attraverso queste storie, impariamo che il mondo è pericoloso e ci interroghiamo sul soprannaturale, sulla possibilità di un altro mondo. Penso che una certa letteratura ci aiuti ad affrontare i veri orrori e, perché no, ci diverta anche (o almeno alcuni di noi) perché, come abbiamo detto all’inizio, non siamo tutti oscuri o tutti luce, ma un miscuglio di tutte e due le cose.