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Tutti i viaggi di MACE

Tra basi ambient, elettronica e tanti feauturing, nel suo nuovo album Obe, il produttore milanese ha provato a trascrivere le sue esperienze. Soprattutto quelle psichedeliche.

di Corinne Corci

Mace, foto di Maria Sang.

Partire, e poi tornare. L’architettura che sorregge i viaggi andata e ritorno di cui nel corso dell’ultimo anno abbiamo tutti avvertito la mancanza, di tragitti che in qualche modo sembrano sempre accorciare le distanze, promuovere evoluzioni personali e nuove idee. Come Obe, il nuovo album del producer milanese MACE (classe 1982, nome d’arte di Simone Benussi) in uscita a mezzanotte, 17 brani, una tracklist di sole collaborazioni – c’è anche “La canzone nostra”, il singolo realizzato con Salmo e Blanco che è in testa alle classifiche da qualche settimana – nate al temine di un periodo a Johannesburg in cui MACE aveva registrato un disco con artisti africani. «Ma quando sono tornato in Italia per finirlo ho sentito che quella musica non mi apparteneva più», come se fosse una cosa da lasciare là, un’esperienza che gli ha cambiato la vita ma determinata. Ha deciso di non farlo mai uscire, e ha dato vita a Obe, omaggio a una musica che è un genere senza genere e alla voglia di raggiungere nuovi luoghi non solo fisicamente, considerando che tra ambient, elettronica e strane incursioni MACE ha provato a tradurre i suoi viaggi psichedelici, che lì le parole non sono necessarie, «ci sono nuovi stati alterati di coscienza», (lo dice lui ma anche Michael Pollan con le stesse parole, in Come cambiare la tua mente), e i confini si dissolvono, «sono più che altro suggestioni, per renderle ci puoi riuscire solo con la musica».

Cresciuto nella periferia di Milano, fin da quando aveva vent’anni ha organizzato serate e concerti, facendosi conoscere come beatmaker e produttore nella scena rap e hip hop italiana per Ghali, Fabri Fibra, Venerus (sono solo alcuni), fondando il collettivo Reset! nel 2007, con cui ha viaggiato in Australia, Inghilterra, Giappone, suonando e producendo. E Obe è questo ma anche altro, non un riassunto della sua vita ma nemmeno un inizio, «piuttosto una fotografia del modo in cui ho visto la musica in questo periodo», spiega. «È un’opera unica, sono sempre in trasformazione e non farò più niente di simile né con lo stesso approccio. Era proprio il disco che mi sentivo di fare adesso».

ⓢ Perché ora?
Avevo bisogno di qualcosa che mi rappresentasse. Quando sono tornato da Johannesburg mi sono guardato intorno e ho scoperto che la musica italiana mi piaceva più di prima, anche se dall’Italia ero scappato. Eppure mi sono accorto che non c’era mai stata tanta musica nelle mie corde come in quel periodo lì, non solo il rap o la trap che non sempre state la mia spina dorsale, ma anche pop, musica cantata da artisti che mi piacevano e ho detto ok, forse è un segnale. Ed è anche il motivo per cui non ho contattato ospiti internazionali o inserito composizioni puramente strumentali. Volevo solo lavorare con questo incredibile agglomerato di talenti che abbiamo adesso.

ⓢ Parlando di fughe e di ritorni, tu hai sempre viaggiato tantissimo e questo è stato il motivo di una componente internazionale tanto forte nel tuo lavoro. Ci sono stati dei luoghi in particolare che hai trasformato in tracce? Magari proprio in Obe.
Tante idee che ci sono nel disco sono idee che ho collezionato viaggiando, brani che ho iniziato quand’ero in Sudafrica e in Giappone, emozioni, immagini. L’idea era quella di chiamare tanti amici [come Salmo e Gemitaiz, nda] che conoscevo da tempo, e anche più giovani con cui non avevo mai lavorato ma con cui avevo tantissima voglia di confrontarmi. Mediamente per quasi tutti i brani del disco, quando facevo la prima bozza della strumentale, sapevo già chi chiamare, mi veniva sempre suggerito dalla musica, li visualizzavo. Per esempio “Colpa tua”, il primo singolo della tracklist, l’ho fatta mentre vivevo in Sudafrica. Ci avevo registrato sopra con una cantante sudafricana che adesso si sente nella parte finale e che prima monopolizzava la canzone. Sono tornato in Italia e ho detto ecco, qui Venerus sarebbe perfetto.

ⓢ Obe vuol dire “Out of Body Experience”, me lo spieghi?
È un termine che mi rappresenta tantissimo. La prima prima esperienza extra corporea l’ho provata che avevo 5 anni, completamente sedato in sala operatoria per un’operazione al femore, e al risveglio ho descritto a mio padre tutta la scena ma vista dall’alto, riportando frammenti di dialoghi degli infermieri. Mio padre rimase piuttosto scioccato, ma mi si è scolpita molto nell’immaginario. Forse prima ancora che musicista mi definisco viaggiatore, e il termine “obe” per me rappresentava il mio approccio al viaggio, questo “uscire da me”, dalla mia quotidianità e cornice di tutti i giorni per vedere le cose da un’altra prospettiva.

ⓢ Però che tasto dolente che continui a toccare parlando di viaggi.
A chi lo dici, io ho fatto il mio primo vero viaggio a 20 anni, in Messico. Mi sono ritrovato a un certo punto nel bel mezzo della fermata degli autobus nella capitale e mi ricordo di aver pensato voglio fare questo, viaggiare, sentirmi così per tutta la vita.

ⓢ E invece per la musica, c’è stato un momento in cui hai capito di voler fare anche quella per tutta la vita?
Diciamo che quando ho iniziato, nonostante già il primo disco, L’alba [insieme al rapper Jack the Smoker, con cui formava il duo La Crème, nda], aveva avuto abbastanza successo nell’ambiente di nicchia, quello dell’hip hop in cui non c’era nemmeno prospettiva di guadagno, non pensavo sarei mai riuscito a vivere di questo. E invece pochi anni dopo, con l’esperienza di Reset! suonavamo in Australia, Giappone, Tailandia, Ibiza e ho detto ok, forse non è più il caso di preoccuparmi di trovare un lavoro vero. Insospettabile, nei 2000 io organizzavo serate e concerti per mantenermi, ma mica ci mangiavo.

ⓢ Ma all’epoca hai anche organizzato il primo grande concerto di Fabri Fibra.
Quando uscì il primo disco io avevo 22 anni e mi ricordo ancora che i grossi media non se ne erano accorti, nemmeno i grandi organizzatori di concerti. E invece noi ragazzini a Milano Fabri lo sentivamo ovunque, ci siamo accorti di che cazzo di casino stava succedendo e l’abbiamo organizzato al The Black in via Canonica. Immagina, sold-out sia il locale sia la strada davanti, neanche gli autobus riuscivano a passare.

La cover di Obe, il nuovo album di MACE in uscita venerdì 5 febbraio per Island Records

Quella del producer è una figura che rimane dietro le quinte, ed è sempre stata considerata un po’ marginale. Anche se sono proprio tutte le persone che stanno dietro le quinte quelle grazie a cui viene costruito il resto. Obe è voler salire sul palco?
Il discorso di essere dietro le quinte o davanti non ha mai importato molto. E io per indole non ho mai voluto stare al centro dell’attenzione, anche se dal colore dei miei capelli sono sicuro non lo diresti. Volevo fare un disco per avere il vero controllo creativo, perché quando lavoro ai dischi degli altri nonostante ci sia sempre tanto di me, cerco di lasciare il mio ego fuori dalla porta e incanalare la loro visione, piuttosto che la mia. Obe è stata un’esigenza personale e creativa, più che un cercare di uscire dal dietro le quinte. Sai, vorrei fare un po’ come Brian Eno.

ⓢ Punti in alto.
Eh beh, bisogna sempre puntare in alto, sennò non puntare neanche. A parte che mi sono visto milioni di sue interviste e mi sono immedesimato molto nel suo approccio alla creazione, all’arte, nel modo in cui pensa, a volte mi sembrava di sentire le stesse cose che penso io ma dette ovviamente molto meglio.

ⓢ Tornando a Obe, c’è una canzone dell’album a cui sei legato in modo particolare?
Una di quelle che mi fa emozionare di più è “Ayahuasca”, è l’unico brano in cui ho incanalato in maniera diretta l’argomento psichedelici e quindi ho chiamato Colapesce, per me uno dei maggiori poeti contemporanei, perché sapevo sarebbe stato perfetto. Io ho preso l’Ayahuasca tante volte, e gli ho raccontato delle mie esperienze, chiedendogli di aiutarmi a mettere in parole parte di queste visioni assolutamente non riassumibili con le parole. Sembra un po’ un Battiato in acido, con un mix di percussioni che sono una campionatura di quelle dei rituali amazzonici.

ⓢ Rituali, atmosfere ambient, elettroniche, psichedeliche, forse Obe stesso è un trip?
Esatto [ride]. Volevo fare un concept album con 30 voci molto diverse, difficilissimo, ma credo alla fine di esserci riuscito nonostante quella fosse sicuramente la difficoltà più grande. Così da dipingere tutte queste scene con le visioni che ti sovrastano.

ⓢ Si percepisce molto non solo in “Ayahuasca”, ma anche nell’ultima traccia, “Hallucination”, in cui sei solo tu, senza voce, senza featuring. Immagino che nasca da un viaggio.
In realtà l’ho creata insieme a Venerus a livello strumentale, perché stavamo cercando di mettere in musica il nostro viaggio psichedelico in tutte le sue fasi, e infatti parte con questo ronzio che è una cosa molto comune nell’inizio dei trip, e poco a poco i suoni prendono forma, raggiunge un climax più potente. Sono viaggi astratti, perché quando sei in questi stati alterati di coscienza vivi una sinestesia molto forte tra suoni e emozioni, i rumori prendono corpo e diventano oggetti, esseri viventi, strutture, io volevo solo ricreare quella sinestesia.

ⓢ A proposito di voci diverse. Dall’album e dalla tua carriera sembra che tu sia a tuo agio con qualsiasi genere, tanto da essere riuscito a mettere insieme in “Ragazzi della nebbia” un inguaribile romantico come Irama insieme a FSK Satellite che cantano «cocaina nelle calze, milf nella suite». Forse hai creato una cosa fluida, un genere non genere in cui sta bene tutto?
Mi piace tantissimo come definizione. Volevo fosse un flusso continuo, perché a me della musica ha sempre interessato l’effetto novità. Non devi fare musica per forza nella vita, perché se fai qualcosa che c’è già a che cazzo servi tu, e io questo l’ho sempre metabolizzato con l’idea di realizzare qualcosa con elementi che apparentemente non c’entrano tra loro, come in “Ayahuasca”, un po’ prog italiano con la musica sciamanica, o accostando artisti che tu non avresti mai accostato. Si può trovare la combinazione perfetta per qualsiasi elemento, probabilmente un grande chef potrebbe cucinare un piatto buonissimo con la nutella e il salmone. Alla fine, se trovi la chiave giusta per unire due cose, tutto si può unire.