Cultura | Letteratura

Uomini e natura, secondo Michael Pollan

Le piante, gli psichedelici, il Coronavirus e il cibo che scegliamo di mettere in tavola: intervista allo scrittore americano.

di Davide Coppo

Michael Pollan. Foto di Christopher Michel

Di tanto intanto mi capita di pensare che ci vorrebbe un libro di Michael Pollan per ogni cosa. L’ultimo, Come cambiare la tua mente, uscito nel 2019 per Adelphi, è un’esplorazione della storia, degli effetti e delle applicazioni future delle sostanze psichedeliche, ma Pollan ha scritto soprattutto di natura e di cibo: partendo da Una seconda natura (Adelphi), una storia del giardinaggio, passando per i testi fondamentali sull’alimentazione come Il dilemma dell’onnivoro e Cotto. Quello che lo rende il migliore, probabilmente, tra i saggisti e i divulgatori di questo tempo, è la competenza con cui affronta ogni argomento, la capacità di spiegare – verbo rischioso, da non usarsi alla leggera – senza risultare paternalista, e la dolce sicurezza del tono di voce con cui, partendo da un maiale arrosto in Carolina del Nord, ti sa accompagnare in un viaggio di decine di migliaia di anni nell’evoluzione della specie umana. Quando lo videochiamo su Zoom si trova in quarantena a Berkeley, in California, nella stessa casa in cui, nella versione Netflix di Cotto, lo si vede informare pagnotte, preparare barbecue e cucinare un indimenticabile stufato insieme alla chef Samin Nosrat. È il mese di giugno, e il “primo lockdown” è terminato da poco. A Milano piove a dirotto. In California, naturalmente, c’è una temperatura perfetta. Sono le 10 di mattina.

ⓢ  È il primo di molti Zoom della giornata?
Sì, ormai vivo su Zoom. Ci sono giorni in cui ci passo sei o sette ore.

Era così anche prima, o è tutto arrivato con il lockdown?
Per il lockdown! Insegnando qui a Berkeley, ero proprio nel mezzo di un corso, quindi siamo subito passati a Zoom, più o meno a metà corso. E ho dovuto imparare come si insegna su Zoom, cosa che mi è costata un po’ di fatica: è un’esperienza molto diversa. E poi ovviamente tutte le riunioni di facoltà, le ore di ufficio, i colloqui con gli studenti. Come tutti, ho creato uno “Zoom office”, e ci passo moltissimo tempo. E mi chiedo, pensa se tutto questo fosse successo dieci o quindici anni fa: saremmo stati costretti a usare il telefono, che è un modo di insegnare davvero difficile, molto insoddisfacente. Ma penso che il fatto di aver fatto la transizione a Zoom a metà del semestre, per me, abbia reso le cose più facili, perché avevo già un rapporto con tutti gli studenti. Li conoscevo tutti, erano già stati nel mio ufficio – quello in carne e ossa – e non riesco neanche a immaginare come sarebbe iniziare un corso così, e creare il tipo di rapporto di cui hai bisogno.

Come sta andando la vita tra casa e schermi?
È stato un enorme dono di tempo. Solitamente viaggio abbastanza, soprattutto ad aprile, maggio e giugno. Avevo una lista di viaggi, sia nazionali che internazionali, e sono tutti… pfff, in fumo. È stato bellissimo. Non andare in aeroporto, non salire sugli aerei, mi è sembrato di avere a disposizione giornate molto più lunghe. E poi non sono più uscito a pranzo! Due o tre giorni ogni settimana solitamente dovevo incontrare qualcuno per pranzare, ed è una cosa che in California può durare anche due ore. Quindi ho recuperato anche quel tempo, con il mio triste piccolo pranzo da un quarto d’ora tutto solo.

Il tempo che abbiamo avuto a disposizione è stato molto e ha rischiato di essere troppo. A marzo, i primi giorni di quarantena, come molti, li ho passati praticamente sempre in cucina: tagliavo, affettavo, marinavo e cuocevo, tutte cose per meditare facendo qualcosa, mantenermi sano in tutti i sensi. Dopo due mesi, però, ho iniziato a sentire il peso della mancanza di possibilità. Mi chiedo se la noia, alla lunga, sia capace di schiacciare anche le migliori intenzioni.
È una domanda importante: abbiamo imparato delle nuove abitudini, nuovi comportamenti, nel mezzo di questo lockdown (il primo, nda). Alcuni rimarranno, e alcuni li rifiuteremo appena ne avremo la possibilità. E quindi troverai persone che hanno cucinato e impastato più di quanto abbiamo mai fatto prima che torneranno allo status quo, che magari non vedono l’ora di ricominciare a mangiare sempre al ristorante, di smettere di cucinare per se stessi. Oppure, troverai persone che capiscono: ehi, posso farlo, mi è piaciuto – magari non voglio farlo ogni singola sera, ma ho imparato una cosa nuova. Non penso che possiamo ancora prevedere granché. Però abbiamo visto dei nuovi comportamenti: c’è stata, soprattutto all’inizio, quando andare al supermercato era qualcosa di minaccioso, la volontà di condividere il cibo, e altre cose da comprare, gli anziani chiedevano ai giovani di fare la spesa per loro.

ⓢ Nell’introduzione di Cotto parli di questo paradosso per cui, mentre aumentano in tv i reality show di cucina e i programmi pieni di chef, le persone passano sempre meno tempo a cucinare davvero. Lo schermo, in questa descrizione, è una mera distrazione. Stare in lockdown ci ha mostrato una versione più umana degli schermi?
Sì, un modo più intimo, meno passivo. Quello che stiamo facendo noi adesso, ad esempio, non è come guardare la tv. Non è un processo passivo se stai interagendo con qualcuno, e soprattutto se stai insegnando. Quindi sì, esiste un altro modo di usare gli schermi, e penso che sia chiaramente meno passivo, e più coinvolgente. Ma attenzione, parliamo sempre di un surrogato del contatto dal vivo. Il contatto visivo, qui, non è perfetto, penso ci sia un livello che ci lascia un po’ sconcertati, visto che io dovrei guardare in quel piccolo punto nero dove c’è la telecamera, e non te, ma se guardo la tua immagine vedo che tu stai guardando un po’ più in alto di dove sono io… insomma, siamo stati allenati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione per il contatto visivo come uno dei più importanti modo di interazione umana, e questa cosa continua a essere un po’ bizzarra. Tutto è un po’ bizzarro. Come ho detto, però, è meglio di niente.

ⓢ Almeno ci possiamo vedere.
Mia moglie e io, su Zoom, abbiamo spesso chiamato un’altra coppia di amici, ed è una cosa che non avevamo mai fatto prima, prima era sempre un tête à tête, mentre questo sistema ti permette di fare le cose insieme. Con il telefono, nessuno parla con altre tre persone. Certo, abbiamo fatto il Seder, a Pesach, con la famiglia di mia moglie (il pranzo che apre la Pasqua ebraica, nda), e quello è stato piuttosto terribile. L’idea di dover mangiare di fronte a uno schermo… A un certo punto mi sono disconnesso. Ok per le preghiere, ma il pranzo… D’altra parte la mia famiglia ha festeggiato il compleanno di mio padre, che è morto due anni fa, con mia madre, le mie tre sorelle, le loro famiglie e tutti i nipoti. Ed eravamo tutti insieme, è stato bellissimo, siamo stati insieme per un’ora e mezza. Quindi sono molto grato a Zoom. E sarà interessante capire se Zoom sarà un’abitudine destinata a rimanere, e a sostituire, per esempio, le telefonate. Io, per lavoro, di solito faccio molte telefonate per i miei reportage, e molte di queste si sono spostate dal telefono a Zoom. Ed è meglio: ci si scambia meglio le informazioni. Ma dipende: ho ancora dei bellissimi ricordi di quello che succedeva quando lavoravo nella redazione delle riviste, e non so se esiste un equivalente Zoom delle conversazioni da corridoio, le chiacchierate spontanee e casuali in cui nascono e si mettono insieme le idee.

ⓢ In un pezzo che hai scritto per la New York Review of Books a giugno, e che ha fatto molto discutere, parlavi di come il Coronavirus sta mostrando quanto è insostenibile, non solo ecologicamente ma anche per quanto riguarda i diritti e la salute di chi ci lavora, l’industria della carne. In questi mesi tutto è andato molto più veloce del normale, quindi, nel giro di un mese, cosa è cambiato?
È successo che Trump è riuscito a intimidire e a far riaprire gli allevamenti intensivi. Hanno riaperto, e i tassi di infezione continuano a crescere. Ho letto stamattina di un allevamento in Iowa dove un terzo o un quarto degli impiegati sono stati infettati. Quindi il tentativo di costringere i lavoratori a tornare in fabbrica anche se sono malati, o spaventati, non si è fermato. La situazione, insomma, è peggiorata. Ma c’è più consapevolezza rispetto a un mese fa. C’è stata molta copertura mediatica, molte persone se ne sono accorte. In quel pezzo scrivevo in modo abbastanza ottimistico di come i piccoli allevamenti si stavano adattando al lockdown, ma nel frattempo alcuni sono andati in crisi, soprattutto quelli che si appoggiavano ai ristoranti per vendere i loro prodotti.

ⓢ In una vecchia intervista al New York Magazine, nel 2013, ti sei descritto come «uno scrittore di natura che scrive di quella particolare parte della natura che non pensiamo come natura». Diversi scrittori di non-fiction  passano attraverso argomenti molto diversi tra loro, nel tuo lavoro invece c’è una coerenza, un filo che tiene tutto insieme.
Il mio lavoro è sempre stato intorno alla natura. È la mia ossessione. Tutti gli scrittori hanno una serie di domande, e se scavi a fondo in tutti i loro lavori arrivi sempre a questi interessi. Michael Lewis è ossessionato dal successo. Tom Wolfe dalla reputazione. Per me è il rapporto degli esseri umani con la natura. Non sono molto interessato alla natura come qualcosa da guardare a distanza: noi siamo nella natura, noi siamo natura, anche se non pensiamo a noi stessi così. Siamo le uniche creature a pensare di avere un tipo di relazione con la natura. Questo implica che in qualche modo ne siamo fuori. E ovviamente non è così. Siamo legati alla natura in diversi luoghi, e uno dei luoghi più importanti è la tavola. Ed è così che ho iniziato a scrivere di cibo. Ma la cosa che più mi interessa, più che gli animali, sono le piante, che sono spesso dimenticate, e i funghi. E gli psichedelici: sono molto interessato al rapporto reciproco tra piante e persone, come noi le cambiamo, e come loro cambiano noi. E naturalmente uno dei modi più radicali in cui ci cambiano, è quando cambiano la nostra mente. Quindi vedo tutto questo come connesso.

ⓢ In tutto quello che scrivi però c’è anche una specie di attivismo verso l’abbracciare uno stile di vita migliore. Hai sempre una spinta del genere quando scrivi?
Quando ho iniziato a scrivere di cibo avevo molte meno convinzioni. Era un tema che approcciavo da reporter, perché non ne sapevo molto. E penso che nei miei primi articoli non si trovino molte cose tipo “dovremmo fare questo…”. Ma a un certo punto ho scritto così tanto di cibo, che mi sembrava di essere arrivato a capire come funziona il sistema, e cosa nel sistema era totalmente sbagliato. Sarebbe stato in malafede allora fingere di non avere un punto di vista, di non avere in mente una direzione chiara di dove penso che le cose debbano andare. Sia a livello di politica, ma anche per quanto riguarda le nostre vite individuali. Questa è un’area in cui le decisioni che prendiamo tre volte al giorno su cosa mangiare possono modificare l’intero sistema agricolo. Non sono l’unico fattore, ma sono un fattore importante. E sono ancora interessato ad aiutare le persone con la loro salute. Quando ho iniziato a scrivere di cibo ero incredibilmente sorpreso da quanto la gente fosse confusa. Questo forse non succede in Italia, ma in America la gente non ha la minima idea di cosa mangia. Ho visto un sentiero abbastanza chiaro, su come attraversare questa confusione, e ho coniato il famoso slogan di 7 parole: «Eat food, not too much, mostly plants». Sì, do consigli. E per quanto riguarda gli psichedelici, sì, penso di essere un sostenitore, sono stato convinto però dalle ricerche che ho letto, dai pazienti che ho intervistato, ma qui la cosa per cui mi batto è più ricerca.

ⓢ Nei tuoi libri parli di cose che solitamente hai abbracciato: il giardinaggio, un certo tipo di alimentazione, cucinare. Cose che immagino continui a fare, perché sono diventate una parte importante della tua vita.
Sto panificando e facendo giardinaggio come mai prima!

ⓢ So che non è legale, quindi parlarne può essere complesso, ma per quanto riguarda gli psichedelici, sei ancora interessato, diciamo così, a esplorare le possibilità della mente?
Non ne parlo molto proprio per questo, ma sì, sono ancora molto interessato. Penso di avere ancora molto da imparare, ma sono in difficoltà con il fatto che sia illegale. Mi sono chiesto se il lockdown fosse un buon periodo per usarli oppure no. Per certi versi penso sia problematico, perché c’è così tanta paura e ansia, nell’aria, e il set e il setting sono fattori fondamentali, che mi preoccupa. Dall’altra parte, siamo così limitati nel tipo di esperienze che possiamo avere durante la quarantena, che questo è l’unico modo di viaggiare che abbiamo a disposizione.

ⓢ Da febbraio o marzo il mondo è in ginocchio per aver incontrato un virus che probabilmente ci è arrivato tramite un animale, utilizzando a sua volta un altro animale come veicolo. Anche questa è natura: hai mai pensato di esplorare questa area di ricerca?
È un altro pezzo del nostro rapporto con il mondo naturale. Sono chiaramente consapevole che quello che sta succedendo è un evento ecologico. Preservare la biodiversità è un modo che abbiamo per evitare che cose come questa accadano, o almeno limitare le possibilità. Quando, decine di migliaia di anni fa, inventammo l’agricoltura, e iniziammo a vivere molto vicino agli animali, cosa che non avevamo mai fatto, lì prese vita un’ampia gamma di malattie. E ora c’è un’altra fonte di microbi di cui ho scritto e che mi preoccupa molto, che è quella che arriva dagli allevamenti intensivi, in cui gli animali vengono trattati, giorno dopo giorno, con gli antibiotici, e stanno aumentando i batteri resistenti agli antibiotici, e questi batteri prima o poi infetteranno l’uomo. È già successo. È facile puntare il dito contro i mercati di selvaggina in Cina, ma gli allevamenti intensivi sono ugualmente pericolosi.

ⓢ Ne La botanica del desiderio parli di “co-evoluzione”, ciò che porta un’ape a impollinare un fiore senza, diciamo, essere completamente libera di farlo: in un certo senso, è il fiore che ha manipolato l’ape con colori e profumi per potersi riprodurre in giro. E ho naturalmente pensato alla pandemia: siamo stati usati dal virus per scopi che non vediamo immediatamente?
Esatto. Il Coronavirus usa la specie umana per produrre copie di se stesso, che è quello che alla fine vogliono fare tutti gli organismi. Un virus non è esattamente “vivo”, ma sa riprodursi. E ha trovato questo ospite perfetto, l’uomo: il virus era probabilmente bloccato in una piccola popolazione di pipistrelli nel bel mezzo della Cina, e guarda adesso: sta conquistando il mondo. Quindi, con il nostro aiuto, questo virus ha raggiunto un successo straordinario. Quando ha imparato a infettare una specie che ha l’abitudine di viaggiare su aeroplani attraversando il pianeta, beh, non poteva trovare un vettore migliore. Ed è un virus intelligente: intanto non uccide tutti, perché si infilerebbe in un vicolo cieco – se uccidi il tuo ospite, non ti diffondi; e poi c’è il fatto che si diffonde prima di renderci sintomatici, anche questa è una strategia geniale. Quindi sì, penso a questa pandemia esattamente in questi termini. Non dobbiamo dimenticarci che siamo solo una specie tra tante, e che siamo nella natura, non siamo osservatori esterni.

ⓢ Pensi davvero che come specie sia possibile imparare qualcosa da quello che stiamo vivendo, o il sistema capitalistico è troppo complesso per essere cambiato in sei mesi di emergenza?
Sono ottimista di natura. Questo è un momento propizio. Un’opportunità per capire cosa e dove stavamo sbagliando. E ci sono stati momenti nella storia in cui abbiamo reagito in un modo corretto, e attuato cambiamenti che limitavano i rischi. Siamo creature che rispondono a minacce immediate e visibili, e penso davvero che questo virus abbiamo fatto luce su molte fragilità della nostra società. Insomma, esiste la possibilità di costruire una nuova politica, che agisca esattamente verso i problemi che la pandemia ha portato alla luce. Ho visto dei segnali incoraggianti. Un esempio: se penso al Partito democratico, in America, Joe Biden, prima della pandemia si era impegnato a riportare il sistema sanitario al periodo di Obama, una semplice restaurazione. Ora, invece, sta parlando di cambiamenti molto più profondi.

ⓢ Se c’è una parola con cui descriverei il tuo modo di scrivere, è “competente”. La competenza era una cosa che sembrava essere minacciata da ogni parte, negli ultimi anni. Il virus ha rimesso gli scienziati sul piedistallo, al posto di molti politici. Dopo la pandemia ci sarà un ritorno della competenza?
L’attacco alla scienza, e agli esperti, è stato uno degli elementi più distruttivi nella politica attuale americana, almeno per parte repubblicana. C’è chiaramente un risvolto di classe, in questo: gli scienziati sono bollati come “élite”, e tutto quello che è elitario deve essere distrutto. C’è una vera e propria campagna per screditare la scienza, ed è stata in passato apertamente finanziata dall’industria del petrolio. Penso che quella politica sia arrivata alla fine. Se guardi ai sondaggi, il tasso di approvazione di Anthony Fauci, nonostante Trump cerchi di nasconderlo e di farlo tacere in tutti i modi, è estremamente più alto di quello di ogni altro politico. Quando sei malato vuoi un dottore, non un ciarlatano. Non te ne fai niente del pensiero magico. Quindi sì, mi sembra che questa cosa stia succedendo, almeno per quanto riguarda la scienza legata alla medicina. Speriamo si estenda al cambiamento climatico.

Una versione di questo articolo è uscito sul numero 43 di Rivista Studio