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Tutti i media hanno ripreso un articolo di Reuters sulla vibrazione atmosferica indotta, che però non c’entra niente con il blackout iberico (e forse non esiste) E infatti Reuters quell'articolo è stata costretta a cancellarlo.
La chiusura della più famosa sauna di Bruxelles è un grosso problema per la diplomazia internazionale A Bruxelles tutti amano la sauna nella sede della rappresentanza permanente della Finlandia. Che ora però resterà chiusa almeno un anno.
C’è un cardinale che potrebbe non partecipare al conclave perché non si riesce a capire quando è nato Philippe Nakellentuba Ouédraogo, arcivescovo emerito di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha 80 anni o 79? Nessuno riesce a trovare la risposta.
La Corte europea ha vietato ai super ricchi di comprarsi la cittadinanza maltese Per la sorpresa di nessuno, si è scoperto che vendere "passaporti d'oro" non è legale.
Una nuova casa editrice indipendente pubblicherà soltanto libri scritti da maschi Tratterà temi come paternità, mascolinità, sesso, relazioni e «il modo in cui si affronta il XXI secolo da uomini».
Nella classifica dei peggiori blackout della storia, quello in Spagna e Portogallo si piazza piuttosto in basso Nonostante abbia interessato 58 milioni di persone, ce ne sono stati altri molto peggiori.
Microsoft ha annunciato che dal 5 maggio Skype “chiude” definitivamente L'app non sarà più disponibile, chi ancora si ricorda le credenziali potrà usarle per accedere a Teams.
Alexander Payne sarà il presidente della giuria alla prossima Mostra del cinema di Venezia Il regista torna sul Lido dopo un'assenza di otto anni: l'ultima volta ci era stato per presentare il suo film Downsizing.

Ne siamo usciti più stanchi

Il goffo ritorno del Presidente del Consiglio a reti unificate ci ha ricordato quanto ancora ci sia da fare. Ne avremo le forze?

19 Ottobre 2020

Se il ritorno dell’ora solare – l’inizio delle tenebre invernali, sancito dalla legge – fosse coinciso con la riapparizione della diretta televisiva e streaming del Presidente del Consiglio, sarebbe stato ironico, oltre che simbolico: di nuovo un goffo discorso alla nazione, di nuovo incerti provvedimenti restrittivi, di nuovo, dall’altra parte dello scranno, davanti agli schermi, paure sfumate ma minacciose, e ancora l’impressione che si stia agendo troppo poco, troppo tardi, troppo per caso. Invece Giuseppe Conte, dal cortile di Palazzo Chigi, ha anticipato le tenebre di una settimana piena, e per la verità annunciando regole che hanno ancora molto poco di restrittivo, o di simbolico.

Come si percepiva, a fine aprile, la primavera della fine degli isolamenti, del lento e parziale ritorno alle libertà dopo quei due mesi di inedito lockdown, allo stesso modo in questo fine settimana di metà autunno si avverte qualcosa di opposto, più oscuro, minaccioso, o forse soltanto, soprattutto, stancante. Ho fatto una passeggiata solitaria, domenica sera, alcune ore prima dell’annuncio del Presidente, nelle strade intorno a casa mia, vecchio quartiere di Milano nord con vista sullo skyline che, negli ultimi mesi, ha continuato a mutare e costruirsi con nuovi edifici. Ho percorso, istintivamente, lo stesso tragitto che percorrevo un paio di volte alla settimana a marzo e aprile, per sgranchirmi le gambe e gli occhi. Nessun paragone, solo il normale silenzio di una domenica di cielo grigio a metà ottobre, ma la sensazione, nell’attesa del Dpcm serale, quel déjà-vu di annunci epocali, era quella di un film già visto, e allo stesso tempo diverso.

Alcuni amici, amiche e conoscenti, nelle ultime settimane, si sono detti convinti di aver percepito, rispetto all’estate, un netto aumento del numero di sirene di ambulanza. Non sapevo se fosse soltanto una suggestione o il frutto, invece, di un istinto matematico particolarmente sviluppato. All’inizio ero piuttosto certo della prima ipotesi. Ora inizio a credere alla seconda.

La chiamiamo seconda ondata, eppure ha poco a che fare con la prima, sotto diversi punti di vista. Quantomeno, noi non siamo più nello stesso posto. Non ci faremo travolgere come la prima volta, pensavamo. Siamo più consapevoli, almeno così crediamo, di dove il virus può nascondersi e attaccare: e sappiamo, quindi, che il lavaggio mani è ancora una fondamentale liturgia igienica, ma non siamo più così terrorizzati dalle superfici, dalle suole delle scarpe, dalla frutta e verdura come vettori di pandemie; non si cambia più di marciapiede quando incontriamo altri esseri umani, anzi condividiamo con fiducia le strade, le piazze, sapendo che – così ci hanno insegnato – con una mascherina tutto, o quasi, è sopportabile all’aria aperta. Eppure qualcosa della primavera è rimasto, incastrato nel setaccio delle abitudini: i colpi di tosse sentiti per strada, di nuovo, ci fanno voltare allarmati o sospettosi, come era già a fine febbraio, prima che imparassimo a distinguere, da bravi primari autodidatti, la tosse secca da quella grassa, e i sintomi di un raffreddore stagionale da quelli di un potenziale Covid-19.

A maggio e giugno non ne eravamo usciti né migliori né peggiori, piuttosto quasi tutti più poveri, a volte disoccupati, spesso stressati o debilitati psichicamente, che ce rendessimo conto o meno. Ma l’aria calda era già alle porte, e così la libertà da riabbracciare. Oggi è evidente come, soprattutto, ne siamo usciti più stanchi: perché ci avevamo creduto tutti, che non saremmo tornati qui, o almeno non così tanto e non così drammaticamente. Che se i contagi aumentavano era merito dei tamponi, e se si riempivano gli isolamenti domiciliari e non gli ospedali ci trovavamo a che fare con un virus indebolito, che colpiva sia ex cavalieri del lavoro che calciatori di Serie A, e però li lasciava andare poi tutti, dopo un paio di settimane e senza troppi drammi. Le conversazioni si riaggiustano, di nuovo: se prima Napoli-Juventus ci aveva illuso di aver riportato le chiacchierate tipicamente da bar nel posto più adatto, oggi sono di nuovo le terapie intensive, l’indice Rt, il numero di tamponi e le chiusure delle scuole, argomenti che avevamo studiato abbondantemente e speravamo di poter dimenticare. Come prima, ma diverso.

Non è una seconda ondata perché è più difficile, se non quasi impossibile, trovare quel sentimento di curiosità nella tragedia che aveva pure caratterizzato il primo, devastante, impatto con la pandemia: non abbiamo più voglia di panificare, di fermentare, di incontrarci su Zoom per bere un bicchiere di vino facendoci forza a vicenda con gli altri amici isolati. Si è vista, questa triste consapevolezza, anche dalla diminuzione netta delle battute su Giuseppe Conte e il suo ritorno a reti unificate, che erano poche, e logore, fiacche come gli umori che ci troviamo addosso.

Se manca il terrore dell’ignoto, è subentrata la spossatezza per il fin troppo noto. Il virus, oggi, non è così dissimile dal marziano che atterra a Roma e, nel giro di pochi mesi, finisce per annoiare quelli che prima ne erano spaventati, e poi soltanto stupiti. È sparito lo sgomento, quello che si deve ai leviatani, ed è subentrata la stanchezza e la frustrazione. Non abbiamo imparato in fondo niente, se non ad avere più paura: perché le ricadute sono sempre peggiori delle prime volte, e sui balconi a fare amicizia, a novembre, non ci si può stare facilmente come ad aprile.

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