Attualità
Lo spartito della felicità
C'è una canzone che dice di essere felici, un'evoluzione della famosa canzone per bambini sul battere le mani, e funziona: funziona anche in tempi in cui "felicità" è una parola, purtroppo, quasi tabù.
E poi, un giorno qualunque in cui probabilmente c’avevamo tutti le palle girate come in tutti i giorni qualunque, è arrivato un uomo con i pantaloni corti anche d’inverno e un enorme cappello da guardaboschi canadese hipster in testa e ci ha detto: dovete essere felici. Assolutamente. Incondizionatamente. Senza nessuna possibilità di negoziare. «Veramente io c’avrei mesi di fatture non pagate…». Zitto tu, e caccia fuori un sorriso. «Mio marito è finito in cassa integrazione settimana l’altra». E ma che palle, saremo mica qui a crogiolarci nel vittimismo. Resti lì a lamentarti o vieni a ballare con me?
Because I’m happy. Senza dare spiegazioni, senza pretendere giustificazioni. È così, un assunto inconfutabile, un dato di fatto puro e semplice. Nell’epoca in cui la felicità è più precaria della precarietà. Un lusso, forse. «La felicità? Ma hai idea di quanto costi oggi a una famiglia media? Prendi noi, prova a fare il conto: io, Claudia, i bambini… Ti pare? No, no. Stiamo a casa a guardarci un dvd che ci conviene».
(Flashforward: a occhio Happy ce la porteremo fino all’estate, e pure oltre.)
Antefatto. Il 21 novembre scorso Pharrell Williams, l’uomo con i pantaloni corti anche d’inverno e l’enorme cappello da guardaboschi canadese hipster in testa, pubblica Happy, pezzo contenuto nella colonna sonora del film d’animazione Cattivissimo me 2 (il dato passa pressoché inosservato) e primo singolo del suo album prossimo venturo, G I R L (il disco che avrebbe dovuto fare Justin Timberlake al posto del doppio The 20/20 Experience e che invece non ha fatto: ma questa è un’altra storia). Re delle collaborazioni illustri come manco Tosca o Barbara Cola, Pharrell sa che gli serve un singolo di sfondamento da solista. Da un po’ non ne butta fuori uno. Il momento è propizio. È sempre stato un figo, ora lo è esponenzialmente ogni minuto che passa. Viene dai gloriosissimi featuring nelle due canzoni più suonate dell’estate: Blurred Lines di Robin Thicke e, soprattutto, Get Lucky dei Daft Punk.
Si può già anticipare la sostanziale differenza tra quest’ultima e la sua Happy. Una dice – traduzione libera ma non troppo – «Stiamo in piedi tutta la notte per scopare»: un’esperienza in divenire, un processo finalizzato, una semplice speranza, anche. L’altra stabilisce – traduzione letterale ma non troppo – «Batti le mani insieme a me se pensi che felicità sia sinonimo di verità»: un dato di fatto, appunto. Una variazione sul tema «se sei felice tu lo sai batti le mani», il ritornello più idiota di tutti i tempi, e non soltanto per l’assai creativa sintassi: il battere le mani non è una prova dell’essere felici, neanche a tre anni; tanto più se mi costringi a farlo. E pure se mi costringe a farlo Pharrell.
È l’instant classic confezionato per piacere ai famigerati grandiepiccini, da 0 a 99 anni, come i giochi da tavolo che non si fanno più. Nasce come gioco di società anche il suo video – molto ruffiano.
Esce Happy. Iniziamo tutti a dire che è bellissima, non si capisce se per apprezzamento reale o sfranticamento di maroni preventivo. Iniziamo a comprendere l’esistenza di una terza via: l’autoconvincimento. Se lo diciamo tutti insieme, allora forse sarà vero: come il divenire del non andare a dormire perché si spera in una scopata, solo edulcorato, con gli angoli arrotondati, per far contenti anche i bambini. Assodato. Because we’re happy. Perché è l’instant classic confezionato per piacere ai famigerati grandiepiccini, da 0 a 99 anni, come i giochi da tavolo che non si fanno più. Nasce come gioco di società anche il video molto ruffiano della canzone, in cui Pharrell e altri fighi come lui ballano instancabilmente per ventiquattr’ore, un po’ come in Non si uccidono così anche i cavalli? di Sydney Pollack, solo che là morivano, qua figurati, che happiness sarebbe altrimenti. Se sei felice tu lo sai batti le mani.
Immancabilmente, capita quella disgrazia già successa al più grande capolavoro pop di tutti i tempi, Call Me Maybe: diventa virale. Se già lo sfranticamento di maroni è preventivamente in atto, Internet lo esaspera, anche solo per imperscrutabili logiche algoritmiche: Happy ti comparirà in news feed ogni quarto d’ora, postata da un qualsivoglia contatto. L’algoritmo è trasversale come la canzone: ingloba chiunque, dal compagno delle medie alla firma di giornale. Iniziano a circolare i meme. Le parodie. Gli spot delle macchine. I flash-mob, dalla piazza di Caronno Pertusella al palco del Teatro Ariston di Sanremo. (Ho sempre pensato: è davvero divertente partecipare a un flash-mob? Mi sono risposto: deve nascere da quella stessa roba coatta del se sei felice tu lo sai batti le mani.) Poi gli Oscar: Pharrell che balla insieme ad altri fighissimi come lui (Meryl Streep, Lupita Nyong’o, Amy Adams) sui tempi cronometrati al secondo della regia. «È il blocco-felicità, abbiamo due minuti e mezzo… Dai… Vai… Ok, la 3 sul sorriso di Amy… I ballerini… Dammi Lupita… Ok, chiudi. Stop». Fine della felicità, rullo sui morti dell’anno. Poi Alessia Marcuzzi su Happy ci fa l’entrata nell’ultimo Grande Fratello. Simona Ventura ringrazia su Instagram (settimana scorsa) i suoi seicentomila follower su Twitter (è macchinoso, ma tant’è) con un montaggio di vecchie foto. Colonna sonora: indovinate.
Appena mi sono messo a scrivere mi sono detto: non cederò alla prima equazione che mi è venuta in mente, non farò il grillino delle canzonette pop. Non dirò: «Facile per Pharrell essere felice: dovrebbe esserlo anche solo perché ha quarantun anni e ne dimostra ventotto. Facile per Pharrell essere felice: dovrebbe esserlo anche solo per tutte le royalty che gli entrano ad ogni se sei felice tu lo sai batti le mani. Per l’enorme cappello da guardaboschi canadese hipster (ma firmato Vivienne Westwood) che starebbe di merda a chiunque (a proposito: temo che il mio Borsalino sia troppo largo). Facile per lui, mentre qua si perde il lavoro, la disoccupazione grida per le strade, e forse mi hanno pure messo le corna». Mi sono detto: no, non lo farò. Perché la questione è un’altra. Sta nel condizionamento sociale. Nell’invito alla felicità a tutti i costi. È una felicità indotta. È, in una parola, il felicismo. La collettivizzazione forzata di un sentimento privato, dell’attimo perfetto imprendibile, del bellissimo sognato nascosto nel mediamente bruttissimo che viviamo di questi tempi. È un’emozione precisa, riguarda ciascuno di noi preso da solo, non può valere per tutti, parlare a tutti, a me, a te, tutti insieme. Non adesso. Non qui.
Felici i felici di Yasmina Reza, pubblicato lo scorso anno (in Italia da Adelphi), è esattissimo a cominciare dal titolo, suggerito all’autrice da Jorge Luis Borges. Ogni tanto lo riapro a caso, e ci trovo solo cose esattissime. (Apro a caso.) «A volte, quando ero bambino, regalavo a mia madre un sassolino o una castagna trovati per terra. Le cantavo anche delle canzoncine. Offerte insieme inutili e immortali. Mi è capitato spesso di convincere dei pazienti che il presente è l’unica realtà. Il ragazzo egiziano mi ha messo la banconota in bocca e la mano sulla faccia. Ho preso tutto quello che mi ha dato, il suo cazzo, i soldi, la gioia, il dolore». Non servono altre parole per raccontare la felicità. Sono immagini precise che si trovano per caso, aprendo a caso, non arriva mai nessuno a dirci di battere le mani insieme a lui.
Pharrell ha dilagato. Pharrell è il virus. Il virus dei puntiesclamativi, il virus della felicità. Il virus del felicismo, che è più peloso dell’ottimismo, più insidioso del buonismo.
Il 26 marzo Woodkid, un altro strafighissimo, ha messo online il “Sad Remix” di Happy. Ci sono tutte le parole della canzone di Pharrell, tranne la parola happy. Non si può sostituire «felice» con «triste», nel mondo in cui devono sorridere tutti, ballare tutti, battere le mani tutti. Woodkid evidentemente sapeva che il suo pezzo sarebbe finito in pochi minuti su tutti i social network al pari dell’originale (o quasi). Sapeva che lì la tristezza non deve esistere, che i like sono felici sempre.
Da un comunicato stampa arrivatomi qualche giorno fa: «Ed Sheeran torna con un nuovo singolo che non ti aspetti… prodotto da Pharrell! Sing in poche ore si è diffuso come un virus». Pharrell ha dilagato. Pharrell è il virus. Il virus dei punti esclamativi, il virus della felicità. Il virus del felicismo, che è più peloso dell’ottimismo, più insidioso del buonismo. Perché si può essere pessimisti, si può essere cinici: ma se ti chiedo di rinunciare alla felicità (anche solo: all’illusione della felicità) saresti mai capace di accettarlo? Qualcuno ci riesce. «Sai che ti dico? Invece di inseguire un’impossibile felicità, forse è meglio prepararsi qualche piacevole ricordo per il futuro», diceva Nicola (Stefano Satta Flores) in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Dei ricordi di Nicola faceva parte un collettivismo che non prevedeva il battere le mani a tempo. Voleva cambiare il mondo, senza riuscirci. Ma anche questa è un’altra storia.
Ospite del programma di Ellen Degeneres il 10 aprile scorso, Pharrell Williams riceve in regalo un cappello da guardaboschi canadese hipster ancora più enorme del suo. Mi piace pensare che Ellen l’abbia fatto per sottolineare l’esagerazione di questa felicità a tutti i costi, più che l’esagerazione del cappello. Ma il punto è un altro. «Io e i miei collaboratori siamo stati sommersi di roba, stiamo cercando di star dietro a tutto», dice Pharrell a proposito del successo di Happy. È questo il dato vero, questa la prova. La felicità, in tempi così grami, è solo un lavoro. Qualcuno doveva pur farlo.