Cultura | Coronavirus

Avete mai cenato “al fresco”?

La pandemia ha aumentato i prestiti di parole che passando da una lingua all'altra cambiano di significato, come "smart working" (in italiano) o, appunto, "al fresco" (in inglese).

di Andrea Beltrama

Si è parlato molto degli effetti linguistici della pandemia: lo sciame di inglesismi, militarismi e indici numerici che si sono improvvisamente impossessati delle nostre conversazioni. Nei Paesi anglofoni si è anche arrivati a parlare di “pandemic lexicon” – il lessico della pandemia: una categoria creata apposta per rappresentare le espressioni che si sono affermate durante questo periodo storico, e avranno il potere di rievocarlo negli anni. Da “lockdown” a “mascherina”; da “appiattire la curva” a neologismi creativi come “quarantini”, i Martini bevuti in quarantena — una di quelle fusioni figlie dei primi tempi del contagio, quando ancora ci si sforzava di buttarla sul ridere. Ma l’eredità linguistica del Covid non si riduce solamente all’aver introdotto termini nuovi. Include anche l’aver riportato sotto i riflettori innovazioni di anni precedenti. Parole alle quali non avevamo mai prestato particolare attenzione al momento, ma dalle quali, da un momento all’altro, ci siamo riscoperti circondati.

L’esempio più lampante è “smart working”: approdata in italiano negli anni Zero inoltrati per riferirsi a modalità di lavoro flessibili, tecnologizzate, in grado di essere svolte senza restrizioni di luogo e orario, l’espressione ha rapidamente sviluppato una vita propria. Acquisendo il significato specifico di “lavorare da casa”, con buona pace di “telelavoro” o “lavoro agile” – usati sì nel linguaggio burocratico, ma mai realmente capaci di ritagliarsi un ruolo nelle interazioni di tutti i giorni. E iniziando pure a funzionare come prefisso per creare liberamente nuovi termini, a testimonianza della sua profonda penetrazione nei meccanismi grammaticali dell’italiano: come “smart learning”, “smart schooling”, e altre espressioni che evocano processi lavorativi senza compresenza fisica (qui alcuni esempi raccolti dalla lessicografa Licia Corbolante). E così, da un giorno all’altro, lo smart working ha pervaso il nostro immaginario. Facendo capolino in ogni chat, tweet, messaggio, proprio mentre stavamo lavorando da casa. E scatenando diffuse sacche di irritazione a causa della sua duplice, tragica natura: non essere percepito come un termine italiano, ma non essere nemmeno un’espressione propria dell’Inglese.

Eppure, esempi del genere esistono in molte lingue, e non vengono sempre criticati ferocemente. Un caso eclatante, anch’esso riportato in auge dalla pandemia, è l’espressione inglese “al fresco”, che nei Paesi anglofoni ha un significato incredibilmente preciso: andare al ristorante e mangiare in un tavolo all’aperto. L’origine del termine è oscura: possibile che qualche turista americano l’abbia sentito durante un idillico pranzo sotto la pergola di una villa toscana, e ne abbia travisato il senso; ma c’è pure chi sostiene che l’espressione arrivi in realtà dallo spagnolo, seppur la maggior parte degli anglofoni la percepisca come un’eredità dell’italiano.

Anche qui, come nel caso di “smart working”, il legame con la lingua d’origine si è perso per strada. A patto che il tavolo si trovi effettivamente fuori dalle mura dell’edificio, si può infatti mangiare “al fresco”, e senza ironia, in una vasta gamma di situazioni climatiche: gelo, arsura, o sotto il temporale apocalittico che si è abbattuto su Stanley Tucci durante la missione in costiera amalfitana di Searching for Italy, mentre inseguiva la pasta alle zucchine. E così, quella che in altri tempi era una mera curiosità – tipicamente rivelata in articoli che consigliavano caldamente ai turisti di evitare di chiedere di “mangiare in carcere” durante il loro viaggio in Italia – si è trasformata improvvisamente in un tormentone. Visto che molte città americane hanno vietato o severamente ristretto la possibilità di mangiare all’interno, per lunghi mesi sedersi fuori è stato infatti l’unico modo per andare fuori a cena, o almeno illudersi di farlo. Ha richiesto l’installazione di plexiglas, pareti di plastica, tendoni, e funghi riscaldanti molto potenti. Che nelle serate di gennaio hanno creato oasi tropicali lungo i marciapiedi, eliminando definitivamente qualsiasi traccia di fresco potesse rimanere attaccata alla parola.

Searching for Italy di Stanley Tucci, in una scena “al fresco”

Eppure, se la pandemia ci ha permesso di osservare da vicino questi due casi, la maggior parte di queste espressioni continua a vivere sotto traccia. Dominando le nostre conversazioni senza che nemmeno ce ne fossimo accorti. Fanno parte della categoria degli pseudoanglicismi: le parole composte da materiale lessicale anglofono che hanno sviluppato un vita propria in italiano, assumendo significati a volte imprevedibili (qui una dettagliata carrellata, a cura della linguista Vera Gheno). Alcuni sono proprio inesistenti in inglese: come “golf”, che si usa per lo sport, ma non per il maglione; o “pullman”, che per un americano può al massimo rappresentare una città universitaria nello stato di Washington, ma mai una corriera. Altre hanno ancora un legame tangibile a livello di senso, ma si sono emancipati grammaticalmente: come l’uso della forma abbreviata “basket” per riferirsi alla pallacanestro, e che in inglese si riferisce a un generico cestino; o “toast”, che per un anglofono significa semplicemente pane tostato, o al limite un brindisi. Ma non certo il leggendario panino pancarrè e prosciutto cotto che fa capolino in ogni bar della penisola.

A parti invertite, lo stesso vale per l’inglese: “al fresco” ci fa impazzire, soprattutto se qualche visionario italiano dovesse iniziare a usarlo nella sua accezione anglofona – eventualità assolutamente non da escludere. Eppure, gode della compagnia di una lunga lista di pseudoitalianismi (qui una descrizione esaustiva da parte del linguista Cristiano Furiassi). Come “confetti” per riferirsi ai coriandoli; “gondola” per funivia; “studio” per monolocale. E, ovviamente, i termini legati al cibo come “panini”, una parola che ha colto di sorpresa generazioni di italiani all’estero. Viene usata, quasi sempre al singolare, per indicare un panino fatto con pane bianco non eccessivamente voluminoso – tipicamente una ciabatta – rigorosamente tostato, e possibilmente con le linee orizzontali della pressa ben evidenti in bassorilievo.

Mentre aspettiamo di vedere quali ulteriori novità verranno catapultate nel lessico dall’avvento delle vaccinazioni e delle nuove varianti del virus, rimaniamo dunque a fare i conti con una domanda irrisolta. Fino a che punto la diffusione del coronavirus ha davvero rivoluzionato il nostro modo di parlare? Tanto e poco al tempo stesso, verrebbe da dire. Da una parte, gli effetti linguistici della pandemia fanno leva su processi che esistono da sempre, e poco hanno a che fare col contagio: importazione di termini da altre lingue, riadattamenti e cambi di significato, parole che diventano di moda o cadono nel dimenticatoio. Dall’altra, l’effetto dirompente del Covid ha fatto sì che questi processi si siano a volte sviluppati in maniera drastica, improvvisa. Permettendoci di osservare in tempo reale, e da assoluti protagonisti, fenomeni che in circostanze normali sarebbero continuati a passare sotto silenzio, pur accadendo sotto il nostro naso. Come del resto spesso succede con la lingua.