Stai per cominciare a leggere il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi. Parla della metropolitana. E di Milano. Non era difficile arrivarci (ma il tragitto non è mai lineare come sembra): si capiva dalla M del titolo, dalla copertina illustrata con una striscia superiore, grigia e piovosa, dove si distingue il profilo del cosiddetto cavall stracch di piazza Missori, e una inferiore, rossa e colorata, con un campionario di tipi umani in attesa del treno sulla banchina della linea 1. Come nella più banale delle trovate metanarrative, stai perfino scendendo i gradini della rossa, fermata Lima, con il libro infilato nella sacca a tracolla, perché – ulteriore cornice alla cornice – stai correndo al rinfresco dato dalla rivista che ospiterà la tua recensione. Potresti leggerlo ad alta voce di vagone in vagone, come in quei magnifici inseguimenti istericamente flemmatici sull’underground di New York. Oppure spargerne le pagine in giro, lasciare che il libro si legga da solo e che tu scorga tutto attraverso le vetrate ingiallite, come in quel vecchio mugugno-canzone di Tom Waits, 9th and Hennepin, dove lui racconta la vita privata e pubblica di una città, per poi liquidare tutta la faccenda con un colpo di scena finale: «And I’ve seen it all… And I’ve seen it all / Through the yellow windows of the evening train… ».
Arrivi alla banchina e, mentre aspetti, ti tornano alla mente una serie di libercoli analoghi. Ricordi quel momento, una decina d’anni fa, in cui Milano e la sua linea metropolitana sembravano essere diventati l’ossessione di una parte dell’editoria italiana, con un’attenzione spasmodica verso piazzale Loreto, soprattutto per la presenza aleggiante di Dante Virgili sopra la piovra asfaltata, scrittore fantomatico a partire dal nome, raccontato da Antonio Franchini nel bellissimo Cronaca della fine (Marsilio). Da quella piazza, e da una penna che conosceva bene Virgili, partiva Ferruccio Parazzoli per andare a trovare il padre in ospedale in MM Rossa (Mondadori). E sempre di lì, incerto se scendere o no nel sottosuolo di elettricità e gomma, transitava con il suo carico di passate sofferenze il fantasma di Luciano Bianciardi, evocato da Alessandro Zaccuri in Milano, la città di nessuno (edito da L’ancora del mediterraneo).
Ancora adesso, mentre sgomiti nel treno stipato di persone, sgrani il rosario con i nomi di Savinio, Delfini, Landolfi, Magrelli.
Pensavi che quei libretti – allora, non senza pretenziosità, li definivi anomali, obliqui o perfino (orrore) inclassificabili – riuscissero a raccontare molte più cose grazie al pudore di chi non occupa la scena con la posa del Grande Romanzo. E che anzi perpetuassero un filone fecondissimo della letteratura italiana. Ancora adesso, mentre sgomiti nel treno stipato di persone, sgrani il rosario con i nomi di Savinio, Delfini, Landolfi, Magrelli, Scarpa e non solo. Scrittori-sineddoche che, spesso, hanno trovato il tutto nella parte. «Altro che i tomi della Morante o i mattoni di Moravia!» stai gridando nel frastuono di una frenata. «Spesso è lì che trovi la grande prosa italiana. Vogliamo parlare dei disegni milanesi di Gadda?» L’intellettuale muffito che vedi riflesso nel vetro non risponde, infatti è schizofrenico e leggendo La Storia hai pianto, ma insomma hai sempre avuto un debole per queste scritture di andirivieni.
E la metro (o il metrò)? Già Will Self, in un vecchio libro su Londra, raccontava di come l’idea della città ormai fosse stata soppiantata dal tracciato sinusoidale, ellittico, trasversale del tubo, proiettata all’esterno in una serie di rimandi che non si esauriscono mai, come tra conscio e subconscio. È un doppio infero che ne ha ispirati di registi, dal Luc Besson di Subway al Walter Hill dei Guerrieri della notte , passando per l’inseguimento nel Braccio violento della legge fino alle alternative sentimentali di Gwyneth Paltrow. E sulla pagina non inizi nemmeno. Anzi sì: vuoi ricordare almeno quel grande racconto horror di Clive Barker che era Macelleria mobile di mezzanotte . E allora, mentre ostenti il libro metropolitano come un uomo che sfogli Baudelaire al bordello o Bukowski al bar, ti domandi se Bartezzaghi non abbia sfruttato quella griglia sotterranea per incanalare la scrittura della sua vita. Ti ricordi della frase che Longanesi domandò a Flaiano, altro autore di libercoli e prose inclassificabili, sempre all’incrocio tra divagazione e digressione, in cerca di una coincidenza: «Lei è capace di scrivere una frase come: ella staccò la fronte dal vetro della finestra per tornare in mezzo alla stanza? No, di queste banalità lei non è capace, e quindi non è capace nemmeno di scrivere romanzi che di donne che staccano la fronte dal vetro della finestra non possono fare a meno, anche Tolstoj ne è pieno…».
Bartezzaghi esplora il tessuto suburbano e subumano in una continua tensione tra sotto e sopra, dentro e fuori, prima e dopo.
E così pensi che forse con una scrittura che segue e imita gli andamenti e le fermate del mondo sotterraneo, la calca delle ore di punta e la desolazione delle ore piccole, come uno Zadig nel metrò, mixing memoria e desiderio, Bartezzaghi esplorerà il tessuto suburbano e subumano in una continua tensione (la terza rotaia della scrittura) tra sotto e sopra, tra dentro e fuori, tra prima e dopo. Divagherà, evocherà storie di amici e amiche, risusciterà con dolcezza Oreste del Buono e Italo Calvino; farà flanella nel linguaggio lasciandosi portare a volte dal suono e altre dal senso; troverà modo di narrare la bellezza di Milano senza mai farsi prendere dal sentimentalismo o di evidenziarne la bruttezza senza scadere nel moralismo; ricorderà la scabrosa attività portata avanti da Jacques Jouet nei vagoni affollati (non la rivelo); troverà anagrammi, com’è prevedibile («Modernità» = «Metro and I»); citerà la «virtù discenditiva» individuata da Giorgio Manganelli indirizzandola sull’Homo Obliterans; improvviserà una scombinata metronovela con un cast ancora più scombiccherato di personaggi nascosti dietro sottospecie di anamorfosi dialettali (il barman americano «Chook Menrath», il malinconico fumettista «Bart Lafouse», la disinvolta blogger «Nala Vada», fino all’inflessibile professoressa armena «Venki Ketadopéri» – qui forse riderai molto); trascriverà idee per racconti e opere teatrali e rubriche di riviste mai nate, come fermate a cui non si è mai scesi, ma dove si è passati innumerevoli volte; scriverà forse che «la metrò è però, e innanzitutto, una teoria sulla città: una sintesi, un riassunto, una rappresentazione, un’ombra riportata»; oppure si domanderà se «è una coincidenza che dentro a “metropolitana” ci sia il “metro”? Sì, perché il “metro” della metropolitana non è lo stesso “metro” del metronomo. Non è il métron , misura; è il meter , madre e utero. La “metropoli” è la città-madre, qui sotto a Loreto abiti l’amnio-Milano, le telecamere di sorveglianza sono la tua ecografia»; oppure ancora intuirà che «Milano è una lumaca, esce e rientra nella sua conchiglia, decide lei quando»; e se il ’68 francese bollava lo stile di vita borghese con la litania sarcastica dodo-métro-bulo-métro-dodo e cioè nanna-metro-ufficio-metro-nanna, lui al contrario non si arrenderà mai a imitare il treno come routard della routine e passerà dall’enigmistica alla poesia, dalla citazione dotta al bozzetto demenziale, cucendo insieme con più grazia del tanto dibattuto ago di piazzale Cadorna le tante anime di una città e di un’esistenza tra le tante.
Riemerso dalla talpa, quando arriverai al rinfresco, un redattore della rivista ti chiederà com’è il libro che dovrai recensire. «Molto bello, ma non l’ho ancora aperto». Alla sua espressione stupefatta, risponderai con aria saputa che hai visto tutto quanto, seen it all , attraverso le finestre ingiallite di un vagone della metro, tra la fermata Lima e quella Cordusio, dalle pagine intonse del nuovo libro di Stefano Bartezzaghi.
Nell’immagine in evidenza: la linea rossa di Milano negli anni Settanta. (Foto tratta da Internet)