Attualità

Leggere per dimenticare

Nei nostri scaffali cerchiamo sicurezze e tendiamo a idealizzare i libri, ma spesso non ricordiamo perché ci sono piaciuti.

di Francesco Guglieri

«Non puoi averlo letto tutto, non ne hai avuto il tempo», mi dice lei. In effetti no, ho saltato qualche pagina tanto il succo era quello e comunque non mi interessava granché. «Ma come fai a dirlo se non l’hai letto tutto?» La frequenza di questi scambi tra la mia ragazza e me si sta facendo preoccupante. Probabilmente sui siti di dating più à la page c’è l’opzione da spuntare per poter scegliere il partner tra i «lettori totali», ma noi ci siamo conosciuti alla vecchia maniera e ormai ci eravamo compromessi troppo quando abbiamo scoperto le reciproche abitudini di lettura. Io posso dire di aver letto un libro anche se ho saltato qualche pagina, lei no. Lei se inizia a leggere deve arrivare alla fine, io no: se mi accorgo che mi annoia, è brutto o inutile, lo poso e passo ad altro. E per capirlo non serve arrivare in fondo: insomma, quante volte l’opinione che vi eravate fatti di un libro leggendo la sua prima metà è cambiata arrivando in fondo? La vita è breve e i libri da leggere, per tacere del resto, sono infiniti.

Quando le rimostranze del partito dei lettori totali si fanno più stringenti, di solito me la cavo citando Oscar Wilde – sempre un utilissimo passe-partout in queste occasioni: «Per riconoscere l’annata e la qualità di un vino non c’è bisogno di bersi l’intera botte. Chi desidera sorbirsi per intero un libro ottuso? Lo si assaggia, è sufficiente – a volte è anche troppo».

«Per riconoscere l’annata e la qualità di un vino non c’è bisogno di bersi l’intera botte» (Oscar Wilde)

Eppure, lo ammetto, i rimbrotti della mia ragazza vanno a toccare qualcosa dentro di me. La verità è che, nonostante abbia dedicato praticamente la totalità della mia vita adulta a essa, fino al punto, di fatto, di essere pagato per leggere, poche cose mi restano più misteriose della lettura. E più mi dedico a tale attività, più la studio, ne analizzo i meccanismi, il funzionamento, la storia, più la sua essenza mi sfugge.

Cosa intendiamo quando diciamo che abbiamo letto un romanzo? Non sappiamo neanche dire quando avviene davvero, come dimostrano le mie discussioni casalinghe: devo leggerne metà, tre quarti, oppure solo se ne leggo ogni riga posso dire davvero di possedere un libro? In Strada a senso unico Benjamin scrive che l’unico modo per possedere davvero un libro è copiarlo. Del resto è evidente che, poniamo, la comprensione di uno studente sprovveduto dell’Educazione sentimentale non può essere paragonabile a quella di un maturo studioso che il romanzo di Flaubert l’ha letto e riletto, glossato, smontato e commentato – oltre ad aver assaggiato personalmente il rugginoso sapore della sconfitta di cui parla Frédéric. La questione si fa ancora più paradossale se pensiamo che lo studente e lo studioso possono essere la stessa persona, solo in due tempi diversi della vita: quale lettura, quindi, è più vera?

Ho capito di aver un problema quando tempo fa ho comprato Pornografia di Gombrowicz e poi, tornato a casa, mi sono accorto che non soltanto l’avevo già letto ma lo possedevo anche (due categorie che non si implicano a vicenda). A quel punto lo sguardo che ho rivolto alla mia libreria era molto meno sereno e tronfio del solito (fateci caso: non è soprattutto orgoglio e conferme quello che cerchiamo quando ci riflettiamo nei nostri scaffali?). Alcuni libri li ricordavo perfettamente, altri solo a grandi linee ma sapevo di cosa parlavano. Di alcuni romanzi amatissimi mi rendevo conto di non saper ricostruire la trama, di altri libri avevo dimenticato addirittura di averli dimenticati.

Ho nascosto la copia in più e non l’ho detto alla mia ragazza: quale splendida occasione sarebbe stata per ribadire il mio lassismo! Sarebbe servito a poco giurarle che di quel libro fondamentale avevo assorbito ogni parola tanti anni fa, ben prima che ci conoscessimo – anche se adesso non ne ricordavo una.

Certo, bisogna fare la tara a una mia eventuale demenza precoce. Ma il fatto è che troppo spesso non pensiamo che la lettura è, in fondo, qualcosa che ha a che fare soprattutto col tempo. Non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume, tantomeno nello stesso libro: perché leggere vuol dire soprattutto dimenticare.

Troppo spesso non pensiamo che la lettura è, in fondo, qualcosa che ha a che fare soprattutto col tempo

Negli scaffali cerchiamo conferme e sicurezze, non qualcosa che metta in dubbio la nostra identità: ammetto che quando mi sono ritrovato con due copie di Gombrowicz in mano ho avuto un piccola vertigine. Come sempre trovo conforto in Montaigne. Anche lui, scrive nei Saggi, ha una pessima memoria: dimentica perché sta andando nel suo studio ancora prima di arrivarci, la servitù la chiama per la funzione che svolge o il paese d’origine non riuscendo a memorizzarne i nomi. Figuriamoci per i libri: «E se sono uno che qualcosa legge, sono anche uno che nulla ritiene». Succede così che gli capitano tra le mani libri che capisce di aver già letto solo vedendo le note che ha scarabocchiato ai margini. Allora si inventa un metodo curioso: «Per ovviare un po’ al tradimento della mia memoria e alla sua deficienza, ho preso l’abitudine, da qualche tempo, di aggiungere alla fine di ogni libro (dico di quelli dei quali mi voglio servire una sola volta) la data in cui ho terminato di leggerlo e il giudizio che all’ingrosso ne ho ricavato: affinché questo mi rammenti almeno l’opinione e l’idea generale che mi ero fatta dell’autore leggendolo». Forse oggi metterebbe i commenti su aNobii.

Eppure la rilettura ha molti vantaggi. Nabokov diceva che l’unica vera lettura è la rilettura. Non è difficile capire cosa intendesse: solo quando siamo sollevati dalla necessità di comprendere cosa sta accadendo ai personaggi, che direzione stanno prendendo gli eventi, quando smettiamo di farci domande su cosa succederà adesso, ecco solo in quel momento possiamo concentrarci sulle cose veramente importanti di un testo.

La lettura è un processo lineare che si estende nel tempo, ma nella rilettura questa linearità temporale è un po’ attenuata, avvicinando l’esperienza a quella della contemplazione di un quadro: abbiamo una visione di insieme, lo sguardo e il pensiero spaziano avanti e indietro (sappiamo già cosa succederà), conosciamo le traiettorie e possiamo più facilmente fare quei collegamenti da cui emerge il senso. Quando un grande critico del secolo scorso, Paul de Man, diceva che la letteratura genera necessariamente il proprio formalismo intendeva questo: il linguaggio letterario è così denso, vistoso ed enigmatico che non è pensabile che venga tutto risolto in ciò che esso semplicemente sembra dire a una prima lettura. C’è sempre come un resto, un residuo non referenziale, che richiede il rigore di un metodo… o quantomeno una rilettura. Ed è per questo che la rilettura è la modalità tipica della critica, così come di una parte del lavoro editoriale: l’editing di un testo o la revisione di una traduzione sono diverse forme della rilettura, in fondo. Alla fine del saggio, de Man scrive: «la letteratura, come la critica – la differenza tra le due è illusoria – è condannata (o privilegiata) a essere per sempre il linguaggio più rigoroso, e conseguentemente più inafferrabile, per il cui tramite l’uomo si nomina e si trasforma». Nella mia vecchia copia di Allegorie della lettura trovo questa frase sottolineata e evidenziata da un punto esclamativo a matita.

«L’uomo si nomina e si trasforma» attraverso la letteratura. È una frase molto bella e coraggiosa. A volte, però, ho paura che sia una frase bella e coraggiosa e un po’ fuori moda, residuo fossile di un’epoca in cui era parola d’ordine al limite dell’ideologia ma che oggi suona strana, stonata.

People reading in a park View of people reading books on the bench of a park

Ma forse è solo un errore di prospettiva. Me ne sono reso conto qualche settimana fa leggendo questo articolo dell’Atlantic in cui si raccontano alcune recenti ricerche in ambito psicologico che paiono confermare quanto l’uomo sia un animale narrativo. Le storie sono il modo che il nostro cervello ha per organizzare l’esperienza, intrecciando i singoli istanti caotici in un tessuto più vasto, complesso e narrativamente coerente: non semplici archi narrativi con un inizio, una fine e un climax in mezzo, ma storie dentro storie, multilivello, frattali come un flusso di Joyce. Diverse narrazioni per diversi ambiti della nostra esistenza (lavorativo, sentimentale eccetera). E che ovviamente cambiano nel tempo. Per questo, spiegano gli psicologi, siamo attratti da diverse forme di storie nel corso della nostra vita. Ad esempio da bambini privilegiamo il plot perché ancora non gestiamo l’idea che un personaggio – e quindi una persona – possa mutare nel tempo, mentre da adulti sono proprio quegli aspetti a interessarci di più. Così lo stesso libro letto da adolescente apparirà all’adulto come un libro completamente nuovo, pieno di sorprendenti particolari a cui non aveva fatto caso prima. È come se la psicologia sperimentale confermasse la temporalità della lettura.

La lettura e la rilettura hanno molto più a che fare con ciò che dimentichiamo che con ciò che ricordiamo, con ciò che non vediamo che con ciò a cui facciamo caso e reputiamo importante. Ed è curioso se ci pensate, perché è l’esatto opposto di ciò che la nostra cultura associa alla lettura. Ci insegnano a considerare ciò che leggiamo come un bagaglio da afferrare una volta per tutte e da portarci dietro per il resto dei nostri giorni, qualcosa su cui si ha un possesso certo, una presa sicura; e i libri cha abbiamo letto come delle parti di noi, dei piccoli cervelli extracorporei a cui abbiamo demandato porzioni o aspetti della nostra personalità. Il rischio è sacralizzare un gesto meravigliosamente profano come quello di leggere. Più che a metterci in contatto con un ipotetico immutabile iperuranio o con lo spirito assoluto o i con i morti, alla fine la lettura conta per quel che ne facciamo: il più delle volte per parlare con noi stessi e con chi ci sta accanto.

Per questo alla fine mi sono deciso di tirare fuori il doppione di Pornografia e regalarlo alla mia ragazza.

Nell’immagine in evidenza: persone intente a leggere in un parco pubblico. (Carlos de Andres/Cover/Getty Images)