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Non si capisce se lavorare da casa aumenti la produttività oppure no

In Italia, la prima compagnia ad dare la possibilità di lavorare da casa è stata Vodafone, nel 2014. Lo stesso hanno fatto Ferrovie dello Stato, Unicredit, Sisal ed Enel (in quest’ultimo caso gli impieghi flessibili sono 7 mila). A livello internazionale, invece, secondo la classifica di Flexjobs, le aziende che offrono il maggior numero di contratti per smart workers sono Appen, LiveOps e, al terzo posto, Amazon. Il fenomeno è in crescita per i tentativi di datori di lavoro di aumentare la produttività e ridurre i costi, accaparrandosi allo stesso tempo i talenti migliori. Nella lista di Flexjobs, pubblicata a gennaio, la Ibm è al ventiduesimo posto. Poco dopo, a marzo, l’azienda informatica ha richiamato migliaia di dipendenti in ufficio. 

Ibm non è un caso isolato. Yahoo ha fatto lo stesso nel 2013, mentre per Google o Apple la flessibilità non è mai stata un’opzione. Secondo un articolo dell’Atlantic, gli studi che tentano di dimostrare i vantaggi dello smart working e quelli che, al contrario, provano a convincerci che si tratta di una grande illusione, in fin dei conti si equivalgono. Uscire dal muro contro muro dei dati, però, è relativamente semplice. Basta specificare di che tipo di produttività stiamo parlando. In altre parole, la flessibilità funziona quando l’obiettivo è accrescere la produttività del singolo impiegato. All’opposto, non è una scelta raccomandabile quando si tratta di lavorare in gruppo per affrontare i problemi, perché la scarsa abitudine a comunicare potrebbe ritardare la ricerca di una soluzione. Ciò dipende dal fatto che le mail, il telefono, applicazioni dedicate al lavoro di gruppo come Slack, le videoconferenze hanno tutte un grande difetto: l’utente deve scegliere di aprire un canale di comunicazione. In ufficio questo non è necessario. Ecco perché, conclude l’Atlantic, resta ancora oggi il mezzo migliore per interagire.

 

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