Attualità

L’arte vista dai bestseller

I lanciafiamme, Il cardellino, Oggetti di Bellezza. Come l'arte e il suo mondo sono rappresentati nelle pagine di alcuni successi letterari. E perché, nonostante le riserve dei lettori addetti ai lavori, è bene che lo siano.

di Barbara Meneghel

C’è una scena de I lanciafiamme di Rachel Kushner in cui la giovane protagonista si trova in Lombardia – a Bellagio, per la precisione – ospite nella villa di famiglia del facoltoso fidanzato italiano. Per lei, ragazza del Nevada trapiantata a New York da una manciata di mesi appena, qui è tutto nuovo ed estraneo – nonostante il discreto italiano ereditato da un anno di studi passato a Firenze. A un certo punto, nelle sue descrizioni vivide di voce narrante, Reno accenna a una portata che viene normalmente servita a quella tavola di ricchi industriali europei: «un piatto regionale chiamato pizzoccheri (proprio così, in corsivo nel testo), pesante, e ricco di formaggio e di burro».

Il lettore italiano, se da quelle parti in cui si mangiano i pizzoccheri ci è nato e cresciuto, abbozza istintivamente un sorriso. Che è un miscuglio tra tenerezza indulgente e senso di familiarità, ma anche un pizzico di sufficienza per la cautela estranea con cui viene nominato qualcosa che lui conosce perfettamente, e per cui nessuna cautela gli è mai stata necessaria. E per un attimo noi, lettori lombardi, ci troviamo in una curiosa posizione: assistiamo alla descrizione di qualcosa che di fatto conosciamo benissimo, confezionata per un lettore che invece no, questo qualcosa non lo conosce affatto. Ma è proprio in questo momento che impariamo a guardare il nostro oggetto in maniera mediata. Da un altro punto di vista. Interno ed esterno allo stesso tempo. Sono molti gli esempi nella “parte italiana” del romanzo della Kushner che si potrebbero fare a questo proposito. Ma l’innocua descrizione dei pizzoccheri mi è sembrata tra i più incisivi. E no, il riferimento al libro non è casuale. I lanciafiamme è un romanzo che parla – tra le altre cose – di arte contemporanea. È fiction. Ma racconta di arte reale, mescolata a personaggi e vicende di fantasia. E il lettore che appartiene cosiddetto “art world” – chi si occupa di arte tutti i giorni, si trova nella stessa posizione del lombardo a cui viene spiegato cosa sono i pizzoccheri, scritto in corsivo perché è concetto esotico e parola straniera.

Il lettore che appartiene cosiddetto “art world” – chi si occupa di arte tutti i giorni, si trova nella stessa posizione del lombardo a cui viene spiegato cosa sono i pizzoccheri, scritto in corsivo perché è concetto esotico e parola straniera.

Che cosa succede dunque nella mente dell’art-professional quando si trova a leggere opere di narrativa che scrivono d’arte per il pubblico non specializzato, per i non-addetti ai lavori? Mi sono trovata di recente a leggere alcuni esempi di ‘romanzi-che-parlano-di arte’: e, sì, di solito leggo di questo argomento in senso più specialistico. Ma i casi in cui la narrativa lo presenta al pubblico generico intrecciandolo alla fiction sono un ottimo spunto di riflessione per capire molto di più dell’arte stessa. Torniamo per un attimo ai Flamesthrowers, secondo romanzo della scrittrice americana pubblicato lo scorso anno. Le vicende sono ambientate negli anni Settanta del Novecento, tra gli Stati Uniti e l’Italia. Un romanzo storico, dunque? Probabilmente sì. Ma quello che importa considerare qui è l’inserimento – in questo caso molto ben riuscito – di personaggi e microvicende di assoluta invenzione in un contesto ben preciso, quello della scena artistica newyorkese di quel periodo.

Sullo sfondo reale e realistico del Lower East Side di Manhattan, che avrebbe dovuto attendere altri trent’anni per diventare il luogo cool che ha iniziato a essere una decina scarsa di anni fa – e che ciononostante vibrava già di energie nuove – si muovono, innanzitutto, gli artisti. È (aspirante) artista la stessa Reno, diplomata alla scuola d’arte in Nevada e consapevole fin da subito che ‘era necessario trasferirsi a New York per poter diventare un artista dell’ovest. Sono artisti i personaggi che incontra arrivata in città, primo tra tutti il futuro fidanzato Sandro, scultore minimalista italiano, figlio come si diceva di potenti industriali della gomma del Belpaese (immediato il rimando, ad esempio, a Pirelli – che per inciso è azienda coinvolta direttamente e attivamente nel sostegno dell’arte contemporanea). È artista il di lui migliore amico, Ronnie, figura affascinante e sfaccettata di cantastorie. E ancora l’amica Giddle, personaggio meraviglioso che si direbbe chiesto in prestito a una canzone di Lou Reed: e infatti la cameriera ha un passato alla Factory di Andy Warhol, che aveva vissuto i suoi momenti di massima gloria pochi anni prima, e che le aveva offerto una piccola parte in uno dei suoi film. Ora, abbandonata quella vita, lei è «una cripto-bohemien addetta a servire caffè».E ancora Gloria, sofisticata performer socialite, e molti altri.

Artisti mai esistiti, che tuttavia producono e vivono l’arte che realmente esisteva in quegli anni a New York. Le loro figure si intrecciano di continuo a quelle di galleristi, curatori e critici che si intrattengono in lunghe conversazioni agli opening e alle cene che oggi ci piace chiamare after-party, parlando di minimalismo e di land-art, ma anche di Antonioni e di Rossellini. Kushner è molto abile in questo tratteggio in bilico da un piano narrativo all’altro. Crea un amalgama credibile, tale per cui il lettore “addetto ai lavori” si arrende volentieri al sentirsi raccontare di un contesto che già conosce attraverso gli occhi di personaggi perlopiù negativi, ma a cui tuttavia non può fare a meno di affezionarsi. (Meno disinvolta e raffinata sarà, a mio parere, nel tratteggiare la situazione politica italiana degli anni di piombo nella seconda parte del romanzo: ma questa è altra storia, da lettrice-che-conosce-i-pizzoccheri). Non stupisce che queste cose siano state scritte da una critica d’arte, che molto ha vissuto di quell’ambiente, e che ha scritto tra le altre cose su Artforum, bibbia ancora incontrastata dell’arte contemporanea mondiale. Il lettore-addetto-ai-lavori sente di potersi fidare di lei, e della sensatezza delle sue considerazioni sull’arte. Sente di poter abbandonare la sua istintiva diffidenza (snobismo? Sì, snobismo) nei confronti di queste operazioni interdisciplinari. E se in una recensione del libro uscita sul New Yorker si dice che per Reno l’arte è soltanto un ‘subsidiary concern’, io non sono certa che sia realmente così.

Qualche sopracciglio in più si alza leggendo Oggetti di Bellezza (2010) di Steve Martin, che con I lanciafamme presenta senza dubbio alcune affinità. Anche in questo caso la scena artistica è quella di Manhattan. Una Manhattan che nel frattempo ha attraversato due decenni di crescita esponenziale del mercato dell’arte, un fiorire indiscriminato di gallerie, uno spostarsi dell’epicentro della scena a sud-ovest, sui pier ventosi di Chelsea, ed è arrivata alla seconda metà degli anni Novanta. Anche in questo caso la protagonista è una ragazza, anche in questo caso bella, anche in questo caso arrivata a New York da zone più periferiche perché, in quegli anni, sembra non esserci alternativa per poter lavorare in quel settore. Ma le similitudini finiscono qui. Perché la Lacey Yeager di Steve Martin (che – attenzione – non è un’aspirante artista, ma un’aspirante gallerista) non ha nulla della dolcezza quasi ingenua di Reno: ci si presenta al contrario come un’arrampicatrice sociale, ambiziosissima, spregiudicata, spudorata, sexy – disposta a sacrificare qualsiasi cosa, e ce lo dimostrerà ampiamente, sull’altare della carriera. Eppure, va detto, dotata di un senso dell’ironia che ci impedisce di trovarla antipatica. È però curioso come nei dei due romanzi compaiano due scene molto simili, e molto icastiche, collocate in entrambi i casi verso la fine del racconto: le due immaginarie protagoniste si ritrovano a un certo punto – entrambe sole – ad affrontare due grandi eventi di cronaca che hanno segnato la storia contemporanea di New York: per Reno si tratta del drammatico blackout del luglio 1977, e per Lacey, come è facile intuire, dell’11 settembre 2001. Pagine che, in entrambi i casi, funzionano come utilissime cartine al tornasole dell’inserimento della fiction su uno sfondo reale.

Nel caso di Martin (sì, quel Steve Martin. Che è anche collezionista e mecenate) tuttavia, questo inserimento avviene in modo un po’ meno felice. I riferimenti all’arte “reale” sono qui più espliciti, numerosi, dichiarati. Il che ha perfettamente senso, trattandosi di un romanzo completamente dedicato all’arte (superfluo specificare cosa sia l’Object of beauty del titolo: l’opera d’arte, naturalmente). Ma purtroppo risultano agli occhi del lettore-che-conosce-i-pizzoccheri rischiosamente didascalici. La vicenda è godibilissima, divertente, ben scritta. Ma per un addetto ai lavori, va detto, a tratti risulta irritante. L’atteggiamento di Martin è simile a quello di chi vuole stendere un manuale di storia dell’arte per un livello di scuola abbastanza primario. Probabilmente utile per un lettore non specializzato, senza dubbio. Ma chi conosce la materia fatica davvero a tenere a bada i moti di snobismo (perché, ammettiamolo, di questo si tratta).

La vicenda è godibilissima, divertente, ben scritta. Ma per un addetto ai lavori a tratti risulta irritante. L’atteggiamento di Martin è simile a quello di chi vuole stendere un manuale di storia dell’arte per un livello di scuola abbastanza primario.

Ma il grande caso letterario di quest’anno su cui si è dibattuto di arte e letteratura è stato naturalmente Il cardellino di Donna Tartt. Due brevi premesse personali: la prima, non ho trovato Il cardellino il capolavoro assoluto che mi sarei aspettata alla prima pagina. Un buon libro e una bella storia. Non un capolavoro. La seconda: l’arte di cui si tratta questa volta non è esattamente quella di mia competenza – il contemporaneo – ma quella fiamminga di un maestro di Delft. Detto questo, stiamo parlando in questo caso di un testo di fiction che è Romanzo – con la R maiuscola. È narrazione pura, una storia a cui ci si abbandona con il vero piacere del racconto. Non viene la voglia di tenere continuamente in testa un confronto con il reale, con i nomi e le situazioni citate. Eppure i riferimenti reali ci sono, e sono già tutti nel titolo stesso. Il cardellino, come ormai è noto a tutti grazie anche ai fiumi di inchiostro spesi su questo romanzo – è il titolo di un quadro esistente: una piccola, meravigliosa tela del pittore fiammingo Carel Fabritius, morto nell’esplosione di una fabbrica di polvere da sparo a Delft nel 1654. Tra i pochissimi lavori sopravvissuti all’incendio, questo ritratto di un uccellino su un trespolo nelle 900 pagine della Tartt fa da filo conduttore di tutte le vicende del protagonista, Theo. Un ragazzino, e poi uomo, che vive nella Manhattan (anche lui!) dei nostri giorni, ma una serie di vicende personali per lo più disgraziate lo poteranno a spostarsi negli scenari del Nevada e in seguito nel nord Europa.

Rispetto ai casi precedenti, l’operazione narrativa di Donna Tartt con l’arte è più sottile, meno urlata, ma non per questo meno interessante. Il museo che fa da sfondo al tragico episodio iniziale dell’attentato terroristico potrebbe essere tranquillamente il Metropolitan – e tuttavia non viene nominato. I grandi nomi della storia dell’arte che si trovano nelle sue sale sono, naturalmente, reali e contestualizzati. Da lì in poi, i riferimenti al mondo dell’arte newyorkese sono più sussurrati, disseminati con discrezione, ma presenti e importanti: a volte si tratta di aste da Sotheby’s e Christie’s, altre volte una galleria, spesso collezionisti (fittizi, attenzione: ma che dei collezionisti veri hanno tutte le sembianze). Theo, cresciuto, diventerà antiquario sotto l’ala paterna del personaggio di Hobie, e del destino – e sarà dunque quello il mondo artistico che farà da sfondo alle sue vicende. (destinato poi a tingersi di giallo e di rosso, perché mescolato a torbide vicende di traffico illegale di opere d’arte e di droga).

Chissà che Donna Tartt non riesca a rendere universalmente noto Il cardellino di Fabritius come è riuscita a fare Tracy Chevalier nel 1999 con La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer (per inciso, i due dipinti sono stati esposti insieme, di recente, in una mostra approdata a Bologna dopo un lungo tour, dedicata alla pittura fiamminga da Vermeer a Rembrandt). Già, perché è impossibile non andare con il pensiero anche a questo titolo e al Codice da Vinci (arcinota quarta fatica di Dan Brown, pubblicato nel 2003). Tralasciando ora completamente le questioni sulla veridicità o meno delle vicende narrate in questi due casi, e le infinite problematiche esegetiche connesse al secondo, si tratta di due bestseller, nei cui casi lo snobismo degli addetti ai lavori si fa sentire più forte.Non ho letto nessuno dei due, lo ammetto. Per sufficienza? Per disinteresse? Per assoluta distanza dal genere thriller di Brown? Un po’ di tutto questo. Ma ci sono anche questi esempi. Anzi, no: ci sono soprattutto questi esempi. Probabilmente quelli più conosciuti dal grande pubblico se si tratta di binomio tra arte e narrativa contemporanea. La domanda che è giusto porsi, dunque è questa: non sono forse questi i casi in cui si veicola maggiormente la conoscenza dell’arte al pubblico non specializzato? Quanto questi esperimenti possono contribuire a far avvicinare il grande pubblico della letteratura, tradizionalmente più ampio rispetto a quello dell’arte, a un sistema spesso considerato di nicchia?

L’arte ha senza dubbio bisogno di nutrirsi di un approccio interdisciplinare, per evitare il più possibile di chiudersi nell’autoreferenzialismo che spesso ancora la contraddistingue. Il problema che sorge agli occhi del lettore-che-conosce-i-pizzoccheri, del professionista dell’arte, è naturalmente quello della qualità della proposta. Della preparazione in materia dell’autore del testo. Per non sollevare moti di disagio nei confronti del racconto che ci troviamo di fronte abbiamo bisogno di sentirci rassicurati da una ricostruzione accurata, precisa e il più possibile vicina al linguaggio che siamo abituati a usare – nel momento in cui viene proposta come verità. Una volta superato un ideale esame di plausibilità, questi esperimenti – i quali vantano naturalmente una lunga storia, che affonda forse le proprie radici in quel delizioso racconto che era Il capolavoro sconosciuto di Balzàc – sono assolutamente ben accolti.

E se negli esempi citati è la letteratura ad andare in cerca dell’arte, non sarà forse un caso che le edizioni più recenti della Biennale di Venezia sembrino recepire il messaggio in direzione opposta: nella scorsa edizione della mostra internazionale curata da Massimiliano Gioni il “perno narrativo” era il celebre Libro Rosso di Jung – esposto con venerazione al centro della prima sala del percorso espositivo. E ancora nell’edizione che aprirà il prossimo maggio sotto la direzione di Okwui Enwezor sembra che un ruolo centrale sarà il Capitale di Marx (insieme all’Angelus Novus di Benjamin e a quello di Klee): in entrambi i casi, il faro sono grandi lavori di letteratura – anche se naturalmente non narrativa. Non due grandi opere d’arte del passato (come era stato per esempio con Bice Curiger nel 2011, che apriva la sua Illuminazioni con un grandioso Tintoretto). No: due grandi lavori letterari, nel tempio massimo dell’arte mondiale. Viene da chiedersi allora cosa ne pensino esperti di Jung ed esegeti del Capitale in visita alla Biennale: chissà se l’effetto è stato quello del pizzocchero della Kushner. Ma questa è l’interdisciplinarità, finalmente. E va bene così.
 

Nell’immagine in evidenza: un dettaglio de Il cardellino di Carel Fabritius.