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La vita bugiarda degli adulti, Elena Ferrante addomesticata

La serie Netflix rispetta la trama del romanzo ma non la sua ferocia, a partire dal personaggio di zia Vittoria, interpretata da una Valeria Golino che non ha niente di oscuro.

di Francesca Faccani

Scrollando Netflix alla ricerca di qualcosa da vedere e finendo rapiti dagli sguardi di Adam Driver e Greta Gerwig, ci si potrebbe imbattere in una di quelle anteprime delle quali è impossibile abbassare il volume, sentendo tuonare questa dichiarazione: «La famiglia è la culla della disinformazione». È una frase dell’attore nell’ultimo film di Baumbach, o meglio del suo personaggio nel nuovo film Rumore bianco, che, tra le altre cose, narra delle bugie e dei complotti che si nascondono nella distanza delle cose che vengono dette tra genitori e figli. Diventi adulto quando scopri che una buona percentuale di quello che ti raccontano i tuoi genitori è falso, fatti ed episodi che senti narrare da loro a tavola vengono sconfessati nel momento in cui li ripeti a scuola a qualcun altro che ti dice che non è così. Per me è stata qualche informazione che riguardava le guerre puniche. È perfetto che a pochi giorni dall’uscita di Rumore bianco, Netflix abbia reso disponibile anche la serie La vita bugiarda degli adulti tratto dal romanzo di Elena Ferrante, la storia di una bambina di nome Giovanna che prende coscienza del fatto che i suoi genitori sono bugiardi, si tradiscono, e non la amano incondizionatamente. Il tradimento più feroce che instrada dall’infanzia nell’età adulta.

Per Giovanna l’infanzia finisce nel momento in cui origlia dalla porta della cucina i genitori che commentano i suoi risultati scolastici e si lasciano scappare che si è fatta brutta. O meglio, non hanno detto proprio così, ma che «sta facendo la faccia di zia Vittoria», una persona che Giovanna non ha mai conosciuto se non tramite gli aggettivi che le associano i genitori, sempre grotteschi e maligni. «Lei era uno spauracchio dell’infanzia, era una sagoma secca e spiritata, era una figura arruffata in agguato negli angoli delle case quando cala il buio», scrive nel libro. Questo commento instilla in Giovanna il desiderio di vedere in faccia questa zia Vittoria, e compararsi per stabilire se magari assomiglia più a una donna arcigna e crudele ma autentica che non ai suoi genitori, borghesi e ipocriti, degli insegnanti che da lei sembrano desiderare solo un ottimo rendimento scolastico. La curiosità di zia Vittoria, oltre a spingerla in maniera simbolica lontana dai genitori, lo fa anche in modo fisico, perché Giovanna, dalla casa di famiglia in alto su nella Napoli scintillante ed educata del Vomero degli anni Novanta, scende fino a Pianto, la Napoli dei muri scrostati, dell’odore di bucato che risale dalle fogne, delle male parole sibilate in dialetto. Il suo obiettivo, scoprire «cosa succedeva, insomma, nel mondo degli adulti, nella testa di persone ragionevolissime, nei loro corpi carichi di sapere? Cosa li riduceva ad animali tra i più inaffidabili, peggio dei rettili?». La sua guida sono le parole brutali che le rivolge zia Vittoria, che la costringono ad aprire gli occhi su quello che fanno i genitori, o in generale gli adulti, «se no non ti salvi».

Non ho ancora detto “nella serie” per distinguerla dal libro, perché a livello di trama sono pressoché identiche, al contrario dell’ultimo adattamento che ha subìto un romanzo di Ferrante, La figlia oscura che la regista Maggie Gyllenhaal aveva fatto diventare The lost daughter, in cui l’ambientazione della costiera amalfitana si era trasformata in una remota isola della Grecia e il dialetto napoletano in quello della Valley americana. Tramite un articolo pubblicato sul Guardian, la scrittrice aveva dato alla regista la sua benedizione, scrivendole che non era importante appropriarsi dei luoghi e degli episodi del suo libro, ma contava che sentisse suoi i luoghi e la storia che aveva scelto, il resto non importava. Nel film c’era la storia ma non c’era Elena Ferrante, mentre in questa serie ci sono sia la storia che Elena Ferrante. Appaiono solo in maniera più educata, qualche piccola bugia “bianca”, innocua, che neutralizza i toni sentenziali che ha spesso Ferrante quando descrive qualche scena dei quartieri bassi di Napoli o quando riporta il dialetto di qualche personaggio.

Si può dire che il personaggio di zia Vittoria, per esempio, è stato neutralizzato. Nel libro c’è una costante tensione nel definire la sua bellezza (qualche volta a Giovanna è capitato di vederla sorprendentemente bella, solo senza armonia, mentre la maggior parte delle volte è semplicemente ripugnante) e il suo atteggiamento, sempre in qualche modo ostile, anche nelle rare manifestazioni di affetto per la nipote, è accompagnato da frasi in dialetto gridate con veemenza e spietatezza. La zia Vittoria della serie è un personaggio poco ambiguo. Sicuramente non aiuta che a interpretarla sia una Valeria Golino in formissima, che rende proprio difficile ricacciare nella mente che una volta il suo personaggio era stato pensato per risultare sgradevole. È una zia Vittoria buona, che si lascia scappare parole d’affetto, e non fa per nulla paura. La Giovanna del libro guardava con ammirazione la zia perché vedeva in lei il manifestarsi del suo futuro, e voleva farsi trovare preparata a scacciare via gli uomini o a comandarli come faceva lei, a diventare burbera, gretta, parlare del sesso usando parole ancestrali come “chiavare” senza giri di parole pretestuosi come facevano invece i suoi genitori. In tutto il libro Giovanna insegue la tensione, il destino manifesto, di diventare come lei, di arrivare al cuore delle cose e non soffermarsi ad ammirarne la buccia usando solo belle parole. Anche a costo di diventare maligna. Un’altra bugia bianca sta nella resa del rapporto con la migliore amica Angela. Viene completamente cloroformizzata la tensione sessuale tra le due bambine che a pochi anni scoprono insieme il piacere infilandosi pupazzi a forma di cavallo tra le gambe. Non sarebbe educato.

E poi ci sono quelle esplicitazioni di colpe e attribuzioni di frasi che del libro costituiscono quasi il mistero (chi gliel’ha detto a mamma che papà la tradiva?) e di cui non viene fatto segreto nella serie, dove il disvelamento dei tradimenti della famiglia, che precede la sua lacerazione, avviene davanti ai nostri occhi. Non ci sono i non detti che da sempre cambiano, nei libri di Ferrante, la posa della piccola protagonista – «Quann si’ piccerella, ogni cosa te pare grossa. Quann si gross, ogni cosa t’pare niente», ripete in ogni episodio in maniera ossessiva una voce metallizzata di sottofondo. Anche il Rione non fa poi così paura come nelle parole di Elena Ferrante, in questo libro come in L’amica geniale, perché non è un futuro dal quale scappare, ma è un luogo semplicemente abitato da persone che gironzolano a cavallo e da qualche ragazzo che intima di salire in macchina senza troppa insistenza quanta più noia, semplicemente innocuo.