Cultura

La figlia oscura è un bel film anche senza Elena Ferrante

Il dialetto napoletano diventa l'accento del Queens e la Costiera Amalfitana è un'isola greca sperduta, ma l'esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal, da poco al cinema, funziona comunque.

di Francesca Faccani

C’erano diverse neo-mamme in fila alla biglietteria di un cinema al centro di Milano per vedere La figlia oscura, il film tratto dal romanzo del 2006 di Elena Ferrante che segna l’esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal. Se ne sono accorti anche su The Cut a inizio anno, che molti dei film usciti nel 2021 avevano come protagoniste delle madri (Madres Parallelas di Almodóvar, Petite Maman di Céline Sciamma) e che quindi anche loro avevano incominciato a popolare i cinema alla ricerca di qualche istruzione sul copione da recitare. In realtà su The Cut sono più specifici. A partire da La figlia oscura scrivono che le madri che abbiamo visto sul grande schermo nel 2021 sono quelle arrabbiate, spaventose perché non vogliono esattamente fare le madri – indicando come precorritrice Betty Draper di Mad Men quando si lamentava di essere in svantaggio numerico contro i suoi figli – «mom rage is back», dicono. Lo è sicuramente per la protagonista Leda, interpretata prima da Olivia Colman e poi da Jessie Buckley quando si ricorre ai ricordi, che quando in vacanza le chiedono dove siano le sue figlie è sempre molto elusiva, cerca di cambiare discorso, fino a quando non rivela a metà del film (in realtà nel libro la narratrice non ne fa mai un segreto) che è scappata e per tre anni le ha lasciate col marito. Prima di diventare madre e mollare le velleità accademiche Leda Caruso studiava letterature comparate. Poi un giorno, dopo essere partita per una conferenza, realizza che prova più piacere a recitare a memoria la traduzione italiana di una poesia di Yeats che a giocare con le bambole insieme alle figlie, e scappa. «Le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa», è quello che dice nel libro quando le chiedono perché avesse deciso di lasciarle. «Ero disorientata e mi sentivo di esplodere», è più o meno come liquida la domanda nel film.

È normale sentirsi disorientati e sul punto di esplodere per le due ore del film. Non è colpa nostra, ma del nome di Elena Ferrante che svetta prepotentemente nel poster. Ma dov’è Elena Ferrante? I vicoli scrostati di Napoli, il sentimento delle parole pronunciate in dialetto, l’orrore che escano dei sibili volgari come succede ai genitori, il mare a due passi, lasciare tutto e poi magari ritornare ma sempre solo per poco? Nel film di Gyllenhaal la sua protagonista è una professoressa che insegna ad Harvard: ha appena spedito le figlie a vivere con il padre e per la prima volta nella sua vita si concede qualche settimana su un’isola sperduta in Grecia. Non sa rilassarsi, stare ferma su un lettino a non fare niente, non avere nessun figlio da controllare che non affoghi nel mare, così, quando mette giù la Divina Commedia che si è portata in spiaggia (ricordo che lo aveva fatto anche Don Draper), finisce avviluppata nei drammi della famiglia chiassosissima che sta davanti al suo ombrellone e che, da quando lei ha detto di non avere alcuna intenzione di spostare il lettino per farli stare più vicini, la guarda in modo torvo.

Nel libro, ambientato sulla costiera amalfitana, è una numerosa famiglia napoletana, con giri sospetti esplicitati, che le risveglia ricordi della sua infanzia, dei luoghi che ha lasciato per scappare a Firenze a studiare, di una lingua che non sentiva da quando, decenni prima, sua madre aveva sibilato qualche parola in dialetto poco prima di morire. È inorridita ma ne è attratta e decide di infilarsi negli anfratti di questa famiglia perché vede sé stessa com’era vent’anni prima nella giovane ragazza (interpretata da una splendida Dakota Johnson, bravissima nel suo tentativo di mimetizzarsi in mezzo alla famiglia turbolenta) che in spiaggia gioca insieme alla figlia e alla sua bambola, come lei non aveva saputo fare con le sue. In un atto immotivato, Leda ruba la bambola e se la infila in borsa, portando alla disperazione la famiglia, cugini e parenti che la cercano e stampano volantini tipo “chi l’ha visto?”.

Nel film, la famiglia napoletana diventa originaria del Queens e il dialetto è un’inflessione nella pronuncia sbiascicata simile a quella che sentiamo a Julia Fox. Aveva detto che non se la sentiva Maggie Gyllenhaal, di appropriarsi dei luoghi di Ferrante e l’autrice le aveva risposto in un articolo sul Guardian che l’importante era che sentisse suoi quei luoghi e quella storia, che il resto non importava. Che in un certo senso si snaturi è normale, specialmente per un film tratto da un libro che all’apparenza è poco cinematografico – anche se molto visivo – e ambientato nei corridoi interiori del passato, percorsi ossessivamente avanti e indietro alla ricerca di risposte, o nel caso di Leda, delle motivazioni che l’hanno portata ad abbandonare le figlie per tre anni. Come succede nei romanzi di Ferrante, il libro andava a indagare il rapporto che Leda stessa aveva con la madre, con la sua necessità di scappare da tutto quello che considerava provinciale e rozzo, dalla sua educazione napoletana. Nel momento in cui viene a mancare l’incombenza della provincia, le frasi che Leda nei flashback pronuncia al marito quando sta per abbandonare la famiglia ­– come l’importante è studiare e io che me ne faccio delle figlie, non portarle da mia madre che poi finiscono male, lei non ha nemmeno la licenza elementare, non sa cos’è la vita – fanno un brutto effetto.

Sarebbe tutto perfetto su quell’isoletta greca, la famiglia del Queens le ha solo chiesto di spostare il suo lettino un po’ più in là, e lei è solo una professoressa con troppo tempo libero e il libro sbagliato in spiaggia che non sa farsi gli affari suoi. Il rapimento della bambola diventa l’incidente che innesca i tempi ansiogeni del thriller, mentre Napoli, la minaccia della provincia, dista ancora molto dall’immaginaria isola in Grecia. Forse è colpa della Ferrante fever d’oltreoceano, della semplificazione e di quello che si perde nella traduzione a furia di volersi infilare a tutti i costi in ogni spiraglio che la storia lascia aperto per riconoscersi. Si perde qualcosa ma poi si guadagna tutto: The Lost Daughter, come hanno deciso di tradurre il titolo del libro, è comunque uno splendido film sulla maternità, su quanto sia frustrante, asfissiante, appagante. «Lo scombussolamento», scriveva Ferrante nei capitoli finali del libro, «Mia madre usava un’altra parola, lo chiamava frantumaglia». «È vero, ti si sfrantuma il cuore: non riesci a sopportare di stare insieme a te stessa e hai certi pensieri che non puoi dire», e per fortuna che Olivia Colman li sa esprimere benissimo mentre pettina e gioca con quella bambola rubata, «Sono una madre innaturale», dice alla fine quando la restituisce, «Volevo solo giocare».