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La Spagna

Da essere la nazionale più perdente, prima del 2008, al possibile record del 2014, la Spagna di del Bosque è ancora tra le favorite ma con nuovi dubbi: il sistema di gioco è logoro? Il finale di Liga influirà? E Diego Costa come verrà inserito tatticamente?

di Eleonora Giovio

Dal numero 1 di Undici, in edicola e libreria.

«En nuestro corazón, la pasión de un campeón». Nel nostro cuore batte la passione del campione. È la scritta che accompagnerà il pullman della nazionale spagnola in Brasile. Una nazionale che fino al 2008 era il brutto anatroccolo e che dopo i rigori con l’Italia agli Europei di Austria e Svizzera si è trasformata in cigno. Lo hanno sempre riconosciuto tutti i giocatori. «I quarti erano la nostra barriera, battere l’Italia ci ha fatto credere in noi stessi». Non solo superarono la barriera quel 22 di giugno all’Ernst-Happel-Stadion di Vienna ma andarono dritti dritti al trionfo. Da quell’estate del 2008 non si sono più fermati. La Spagna è la cenerentola del calcio mondiale: la prima nazionale che potrebbe fare la doppietta europei-mondiali-europei-mondiali. Nessuno mai ci è riuscito. Ma la scarpetta del tiqui taca si sarà rimpicciolita o la potranno calzare ancora? Cambierà del Bosque lo stile di gioco con “l’acquisto” di un goleador come Diego Costa? In che condizioni fisiche arrivano i giocatori dopo una stagione estenuante in cui il campionato si è deciso all’ultima giornata e in cui molti dei 23 convocati hanno giocato l’ultima partita il 24 maggio a Lisbona?

I dubbi sul fatto che il possesso palla esasperato possa funzionare ancora contro nazionali poderose fisicamente come il Brasile, per esempio, comincia a farsi sentire in Spagna.

Sono i quesiti che ronzano nell’ambiente in Spagna un paio di settimane prima della partenza per il Brasile. Il calcio spagnolo continua a regnare in Europa – Real Madrid e Atlético in finale di Champions e Siviglia campione di Europa League – , la metà dei calciatori convocati da Del Bosque gioca nei grandi campionati europei, eppure non c’è troppo ottimismo sul fatto che la nazionale possa entrare nella storia sei anni dopo aver conquistato l’Europeo. Simeone e Ancelotti hanno portato in finale due squadre che non giocano il tiqui taca. Il primo ha costruito un gruppo solido a base di sacrificio e sforzo, un calcio non bello ma efficace. Il secondo ha ricostruito un gruppo con pazienza e ne ha fatto una squadra veloce, rapida, nella quale tutti difendono e tutti attaccano; che abbina il possesso palla a uno spettacolare contropiede. Pep Guardiola ha provato a esportare il tiqui taca in Germania e non è riuscito a imporlo (almeno non in Europa). La sua Bundesliga è stata una passeggiata ma in Champions il Bayern si è fatto intimidire e non ha trovato armi per frenare il Real Madrid di Ancelotti. I dubbi sul fatto che il possesso palla esasperato possa funzionare ancora contro nazionali poderose fisicamente come il Brasile, per esempio, comincia a farsi sentire in Spagna. Primo perché l’architetto del tiqui taca, il suo migliore interprete dal 2008, ha avuto una stagione pessima. Xavi, con i suoi 34 anni, non è più ai livelli del 2010 (e il suo sostituto naturale, Tiago Alcantara è infortunato e non parte per il Brasile). Quest’anno ha levato il piede dall’acceleratore e il Barcellona ne ha risentito. Così come ha risentito della stagione iniziata male da Iniesta e di quella sotto tono di Busquets e di Cesc Fàbregas. La colonna vertebrale della Spagna vincente, della Spagna che ha fatto innamorare tutti, comincia a scalfirsi. Puyol ha detto addio alla nazionale e al calcio, Piqué ha avuto grossi problemi fisici, Pedro ha giocato poco perché bisognava fare posto a Neymar. “Desgaste” è la parola più usata dai giornalisti spagnoli per definire il momento che attraversa il gruppo di Vicente del Bosque. “Desgaste”, ovvero logoramento. Il gruppo è lo stesso del 2010 e 2012 ma più anziano, giocatori come David Villa e Fernando Torres hanno perso lo sprint di sempre. Valdés è infortunato e Casillas ha giocato senza regolarità (Coppa e Champions).

Logoramento a parte, i rivali ormai sanno a memoria come gioca La Roja, l’hanno studiata, in alcuni casi (vedi la Germania o l’Italia) hanno cercato di copiare il suo modello ma, soprattutto, le hanno preso le misure. Sanno come contrastare il suo possesso palla. Il Brasile l’anno scorso lo dimostrò nella finale della Confederations Cup. «Il gene competitivo non ce lo toglie nessuno, quello ormai è un bene acquisito ed è il nostro tesoro, ma mi sembra una cosa impossibile che la nazionale spagnola possa rivincere il Mondiale. Se succede sarà un miracolo. Nel calcio moderno nessuno è riuscito a ripetere i trionfi. L’Italia vinse il Mondiale due volte di fila nel ’34 e nel ’38; il Brasile nel ’58 e nel ’62. Erano altri tempi. L’abbiamo visto anche in Champions, nessuno, dopo il Milan di Sacchi, l’ha vinta due volte di fila», dice Miguel Ángel Lara, giornalista del quotidiano Marca che ha appena pubblicato una biografia autorizzata su Vicente del Bosque. Gli aggettivi che più si sentono ripetere in casa Spagna quando si parla di dobletee di ripetere la vittoria mondiale per entrare definitivamente nella storia sono “impossibile”, “complicato”, “difficile”. Non è pessimismo, perché, tranne il Brasile, nessuno vede altre grandi favorite. È realismo. Una realtà dettata dal logoramento di un gruppo, che può aver perso fame di vincere dopo gli Europei del 2012. Un gruppo che, comunque, potrà contare su Diego Costa, l’attaccante dell’Atlético che ha segnato trentasei gol questa stagione nelle tre competizioni. Nato in Brasile, vive in Spagna da quando aveva sedici anni, è il centravanti puro che la Spagna non ha mai avuto. È cresciuto giocando per strada ed è convinto che «dare gomitate fosse una cosa normale nel calcio», come mi disse una volta in un’intervista. Attaccante che per racimolare qualche soldo in più se ne andava a zonzo al confine con il Paraguay a prendere merci false per poi rivenderle nel centro commerciale del suo paese, Lagarto.

«Il suo carattere, la sua forza di volontà, il fatto di lasciarsi l’anima in campo contagiano il resto della squadra. L’Atlético ne è la prova. Quel plus di adrenalina, di “canagliesca”, che ha Diego Costa può essere importante per la squadra. Non si tira indietro, lotta, se c’è da mettere la gamba, la mette. È un po’ il bad boy che manca alla Spagna», spiega Eduardo Castelao del giornale El Mundo che segue l’Atlético e la nazionale spagnola.

«Né con Diego Costa né con nessun altro giocatore la Spagna cambierà gioco. Sono i giocatori che devono adattarsi al nostro stile».

Eppure ci sono dubbi anche su Diego Costa. A marzo debuttò proprio al Vicente Calderón contro l’Italia. Sembrava un pesce fuor d’acqua nel gioco d’orchestra della Spagna, più attento a combinare, a cercare i passaggi, a toccare il pallone che ad andare in porta a segnare. Andare in porta e segnare è quello che fa nell’Atlético. Molti si chiedono se sarà capace di adattarsi al gioco della Spagna che da anni non ha un attaccante fisso ma il cosiddetto falso nueve(Cesc Fabregas). Del Bosque non ha mai avuto un attaccante goleador (Villa e Torres hanno sempre giocato aperti sulle fasce) e ora che ce l’ha il dubbio è se cambierà lo stile di gioco, rinunciando un po’ al possesso palla e utilizzando un calcio più diretto e verticale. La sensazione è che Diego Costa non sarà titolare nella Spagna, ma che il tecnico lo utilizzerà come fattore sorpresa quando le partite gli si complicheranno. Lo stesso del Bosque lo ha ripetuto in varie occasioni negli ultimi mesi: «Né con Diego Costa né con nessun altro giocatore la Spagna cambierà gioco. Sono i giocatori che devono adattarsi al nostro stile. Però a Diego Costa chiedo solo una cosa: che non si tiri indietro, che non sia timido, che giochi in direzione contraria al pallone e che allunghi la squadra».

Del Bosque, quando gli chiedono se considera favorita la Spagna, risponde sempre con l’umiltà di un figlio di un ferroviere comunista perseguito durante la dittatura spagnola. «Sentirsi favoriti è antisportivo. Ci stiamo preparando per vincere ma sappiamo che sarà difficile. Bisogna essere prudenti e cercare di vincere, se si può. E, se non si può, voglio che la squadra sappia perdere perché il nostro compito è anche quello di essere un esempio di vita». Ma allora, gli fecero notare in un’intervista su El País alcuni mesi fa, bisognerebbe cominciare a preparare la gente alla sconfitta. «A perdere non si prepara nessuno». Parola di del Bosque, l’uomo tranquillo che potrebbe entrare nella storia il 14 luglio.