Attualità

La sinistra a cena da Francesca

Intervista a Francesca Archibugi a partire dal suo ultimo film, Il nome del figlio, scritto con Francesco Piccolo. Chiacchierata sui debiti, letterari e cinematografici, ma soprattutto sulla borghesia e la sinistra italiana. E tutti i loro difetti.

di Mattia Carzaniga

Parlo con Francesca Archibugi del suo ultimo film, Il nome del figlio, da qualche giorno nelle sale. Liberamente ispirato alla commedia Le prénom di Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière (da cui il film Cena tra amici, diretto dai due stessi autori), scritto da Archibugi insieme a Francesco Piccolo, è un film bello, sincero, accogliente. Ma anche lucidamente duro nel raccontare quel che resta di un generazione animata da ideali, guidata dalla sicurezza di essere “le anime belle”, finita nel solipsismo dei tweet (il professore Sandro/Luigi Lo Cascio) o nel qualunquismo con – forse – tentazioni renziane (l’immobiliarista in camicia bianca Paolo/Alessandro Gassman). Ci sono due donne: Betta (Valeria Golino), moglie di Sandro e sorella di Paolo, che cucina e fa ginnastica per non pensare; e Simona (Micaela Ramazzotti), moglie di Paolo, borgatara di Casal Palocco ripulita da una carriera televisiva di successo e un bestseller furbetto. Il quinto è Claudio (Rocco Papaleo), amico da tutta la vita di Sandro, Paolo e Betta, deus ex machina suo malgrado.

Mattia Carzaniga: A scanso di equivoci, cominciamo col dire che Il nome del figlio ha poco a che vedere con Cena tra amici.

Francesca Archibugi: Non è un remake, io e Francesco l’abbiamo detto da subito per onestà. Ma scatta sempre l’ipotesi del complotto. Se avessimo dichiarato che era un remake, ci avrebbero detto: e allora perché vi siete permessi di cambiare tutto? Abbiamo fatto molto serenamente quello che si chiama adattamento, c’è pure la parola. Da noi resiste la cultura del sospetto, e insieme la mancanza di comprensione dei meccanismi creativi, della scrittura. È nello stile nazionale, mi fa sorridere, per un attimo ho pensato di metterlo anche dentro al film.

Che Italia hai visto in questa commedia?

Ho usato le caratteristiche antropologiche dei personaggi, così ben scritti, e le ho fatte scivolare dentro il loro essere così profondamente italiani. Ho pensato a tutti quelli che acquistano un posto nel mondo solo perché credono in certe cose, e che poi da quella cuccia non escono più. Ma in ogni storia i personaggi non rappresentano che loro stessi: sono persone, prima che eco universali o simboli. Anche se tutti, in una certa misura, lo siamo.

C’è anche molta sinistra. Quella che continua a riconoscersi in una minoranza, quella che in epoca di renzismo comincia a sentirsi fuori posto, quella che ha smesso di lottare.

Sandro incarna un tic nefasto, dal quale non mi chiamo fuori: il bisogno disperato di sentirsi meglio degli altri, che è l’antitesi dell’essere di sinistra. Non basta l’apertura, la tolleranza: devi credere nell’uguaglianza, fino in fondo. Il fatto che avere la casa piena di libri o presentare un certo pedigree sociale ti faccia sentire migliore è insopportabile. Riguarda anche me. Non scaglio la pietra perché mi sento senza peccato, tutto il contrario.

L’autocritica, quest’altra sconosciuta nel nostro paese.

Se un film riesce a sollevare dei dubbi, a provocare un po’ di sana autocoscienza, a rivelare a ciascuno di noi atteggiamenti sbagliati o anacronistici, per me è solo positivo. Mettere in scena persone edificanti o da sbertucciare e basta non m’interessa né diverte. Vengo sempre accusata di non essere graffiante. Io non graffio: lecco.

All’anteprima milanese – eravamo entrambi in quella sala – c’erano anche Giuliano Pisapia e Massimo Moratti. Quanto è alto il rischio della sinistra che guarda se stessa sullo schermo e poi si autoassolve?

Me l’hanno scritto in molti: quando si accendono le luci, ti volti e attorno a te vedi che quelli che si spellano le mani sono esattamente come i personaggi del film. È un altro limite: ci si guarda da fuori, senza mai mettersi in discussione davvero.

«Quando si accendono le luci, ti volti e attorno a te vedi che quelli che si spellano le mani sono esattamente come i personaggi del film»

Guardando “da fuori”, il personaggio di Alessandro Gassman, a prima vista di destra, mi è sembrato quasi renziano.

Renziano non direi. È la tipica persona che non partecipa, la cosa più pericolosa. Fa un passo indietro anche rispetto allo spettatore, non si sente trascinato dentro la battaglia politica. Comunque, chissà con Renzi che succederà.

Forse tutto cambierà e tutto resterà com’è. Come nel film: i personaggi evolvono, litigano, e poi si ritrovano a cantare insieme la stessa canzone di quand’erano ragazzi: “Telefonami tra vent’anni” di Lucio Dalla.

Questo misto di famiglia e amicizia, il desiderio di rimanere appiccicati per tutta la vita, la tendenza a sedimentarci in clan: sono tutti tratti molto italiani. Ho voluto fare una commedia sentimentale, ma invece di mettere lui e lei ho descritto un gruppo di persone in cui sono tutti legati tra loro. Simona è il reagente chimico, fa esplodere tutto. Non è solo la borgatara che mette in discussione lo status borghese degli altri, è un’evoluzione di quella tipologia: è famosa, ha scritto un libro, per certi versi è anche “più” di loro. Ma li ama, perché li osserva e li capisce. Loro hanno smesso di guardarsi, forse anche di amarsi. Dopo quella notte saranno tutti diversi, ma è quel tipo di choc che ti riconsegna la bellezza della vita, che ti fa vedere con occhi nuovi. Io non penso che bisogna sempre dirsi tutto, ma accumulare dei misteri e poi svelarli rende ogni relazione più interessante.

Il clan di amici, la sinistra, gli slittamenti della società: ci ho visto molto Ettore Scola. Penso alla battuta di Valeria Golino «Ieri era ieri, oggi non c’è più», variazione degli Anni Dieci sul tema «Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi» di C’eravamo tanto amati.

A Scola non provo nemmeno ad avvicinarmi. Ma riconosco il debito al suo modo di fare la commedia. In Francia la chiamano ancora oggi “à la Scola”, i due autori de Le prénom la conoscono bene.

Da noi invece un sacco di gente non ha mai visto La terrazza, altro riferimento che salta in mente.

È stato un film incompreso, basti pensare che ha di fatto portato Age e Scarpelli alla separazione artistica. Fu letto come un autoritratto compiaciuto, quando invece era uno sguardo sereno e disincantato su tutto quello che stava accadendo, sui passaggi di epoca, società, sinistra.

È che forse, da sempre, in Italia non si fanno sconti a chi racconta la borghesia.

Da noi c’è un pregiudizio duro a morire. L’aggettivo borghese riguarda l’ambito narrativo che si sceglie, non è per forza qualificativo. Woody Allen fa cinema borghese, Martin Amis scrive romanzi borghesi, ma non significa che chi prende di petto la borghesia sia a sua volta un artista borghese nell’accezione deteriore del termine. Io non mi sento borghese in quel senso, ma qui raccontare certe storie è una colpa. In Italia resiste una passione per la narrazione degli ambienti poveri, anche nelle cose belle prodotte di recente: penso a Gomorra – La serie. Una certa critica, perlopiù piccoloborghese, preferisce guardare sempre verso il basso, come a non volersi specchiare mai.

In Italia resiste una passione per la narrazione degli ambienti poveri. Una certa critica, perlopiù piccoloborghese, preferisce guardare sempre verso il basso, come a non volersi specchiare mai.

Resta Nanni Moretti, ma per dichiarata “antipatia”.

Lui è spietato, e quando i film sono cattivi vengono più facilmente compresi e giustificati. Spesso mi dicono: tu non sei cattiva come gli sceneggiatori di una volta. No, perché non sarei io. Io so fare solo film appassionati, alla mia maniera.

È la tua famosa “sensibilità”? Non c’è recensione o articolo che ti riguardi in cui non venga citata.

Io cerco di dare calore. Mi piace condividere, mantenere un dialogo aperto, per quel solito discorso del reagente chimico che fa tornare indietro un sacco di cose: attraverso gli altri mi vedo, capisco quello che ho fatto, resto in movimento. Non m’interessa fare film per me e i miei amici, cerco di parlare con gli spettatori, di stabilire un contatto. E poi conservo un fondo di sinistra populista: fare cinema costa un sacco di soldi, con quelle cifre ci si può aprire un ambulatorio in Mali. Perciò quei soldi vanno adoperati con molta coscienza».

Una passione comune: Yasmina Reza. In molti hanno sentito nel Nome del figlio eco del suo Dio della carneficina, da cui Carnage di Roman Polanski. In una foto di scena del tuo film si vede sul tavolino del salotto l’ultimo, splendido romanzo della scrittrice: Felici i felici.

Capisco l’analogia con Carnage: c’è l’unità di luogo, lo scontro sociale, ma là le due coppie non si conoscevano prima, qui sono amici da tutta la vita. Poi, Yasmina Reza è più spietata, è un rasoio. Ne sono sedotta, ma a me certe debolezze umane piacciono, le giustifico perché mi ci riconosco. Siamo tutti parte di un esercito di vermi che attraversa la terra, questa nostra enorme fatica di strisciare mi commuove e mi fa ridere. Ecco, Felici i felici è forse più amoroso, più umano, anche se non manca quella sua capacità gelida e straordinaria di vedere le piccolezze.

Ultima cosa: la sinistra di Renzi ce la farà?

Non solo la sinistra. Io dico: l’Italia. Le persone. Forse ho una visione troppo limitata al lato umano, ma da noi più che altro mi sembrano tutti casi umani, fanno fallire progetti e controprogetti per problemi del tutto personali. Ero a Parigi nei giorni dell’attentato a Charlie Hebdo, da dentro mi sono resa conto ancora una volta della grandissima risposta collettiva, della coscienza civica così forte, nonostante i loro problemi, nonostante Marine Le Pen, nemmeno lì è il paradiso. Ma il rapporto tra cosa pubblica e individuo è completamente diverso. In Italia manca proprio la coscienza civica. Mi dispiace molto che nella nostra unica vita ci sia toccato questo contrappasso di civiltà.

E poi in Francia conoscono anche La terrazza di Scola.

Già.