Attualità

La punta della lingua

Da che l'inglese è diventato una lingua franca, come ha influenzato il nostro modo di esprimerci e fare arte?

di Vincenzo Latronico

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un saggio di Vincenzo Latronico originariamente apparso sul numero 4 (Spring 2012) dell’edizione tedesca di frieze. La versione in inglese del testo è consultabile a questo link.


(Traduzione di Cesare Alemanni)


Nel 1878, apprestandosi a un giro d’Europa, Mark Twain si prefisse di padroneggiare quella che, in un saggio eponimo, avrebbe più avanti definito “La terribile Lingua Tedesca” (1880). Ci aveva già provato (fallendo) circa trenta anni prima, da adolescente dotato di una memoria migliore e di una mente più elastica. Questa seconda volta, i suoi sforzi rafforzarono in lui la convinzione che il tedesco «dovesse essere delicatamente e con reverenza messo da parte, insieme alle altre lingue morte, dal momento che soltanto i morti dispongono del tempo necessario a impararlo».

Tuttavia Twain quel tempo lo trovò. In visita presso la camera delle meraviglie del Castello di Heidelberg, sorprese il custode che gli confidò che il suo tedesco «era davvero eccezionale, forse unico […] e voleva aggiungerlo al suo museo». Nel 1897, in occasione di un altro viaggio attraverso Svizzera e Austria, lo scrittore impressionò a tal punto i membri del ‘Presseclub Concordia’ di Vienna da essere invitato al loro festival in un Bierpalast, per tenere una lezione liberamente ispirata al suo saggio del 1880. Non importa quanto gli occorse, molto semplicemente Twain aveva dovuto imparare il tedesco: nel 19esimo secolo, se desideravi muoverti nell’area attualmente nota come Germania, Austria e Svizzera, non avevi altra scelta.

Oggi, gli scrittori – gli scrittori d’arte, in particolare, insieme ad artisti, curatori, galleristi e simili – continuano a viaggiare per il continente; ma qualcosa è cambiato. Io mi sono trasferito da Milano a Berlino 130 anni dopo il pellegrinaggio di Twain attraverso il Secondo Reich. Come lui, da ragazzo ho provato (senza riuscirci) a impararne la lingua. Ma i parallelismi finiscono qui: io non ho neppure tentato di risuscitare la mia competenza linguistica prima di mettermi in viaggio – e, con mio grande disappunto, il mio pressoché inesistente tedesco non era migliorato al momento di rientrare in Italia due anni più tardi. Come sono riuscito allora a scivolare attraverso 24 mesi di conversazioni astratte, gossip da galleria, prenotazioni nei ristoranti e chiacchiericcio generalista senza neppure sfiorare la lingua ufficiale del paese in cui mi trovavo? Be’, perché parlo inglese, ovviamente. Come tutti noi.

Con quel “noi”, intendo tutti coloro le cui professioni incrociano quella fantasmatica astrazione comunemente nota come “il mondo dell’arte”. Qualunque sia la nostra nazionalità, lingua madre ed educazione, è per noi indispensabile parlare inglese. Tutte le istanze, le dichiarazioni, i comunicati stampa, i cataloghi e i curriculum collegati all’arte circolano in inglese o, al massimo, in versione bilingue. Con “inglese” qui non mi riferisco solo all’inglese della Regina o all’inglese americano ma anche alla lingua usata da chi, come me, non la utilizza quale propria prima lingua. La si può chiamare in molti modi: lingua franca, Inglese Internazionale, Globish, ESL (English as a Second Language; Inglese come Seconda Lingua). Twain sarebbe sorpreso di scoprire che molte delle persone che parlano inglese nel mondo dell’arte tedesco non sono americani ma tedeschi.

In un certo senso, questa situazione non necessiterebbe nemmeno di spiegazioni. Qualunque comunità transnazionale – siano essi i monaci medievali, i diplomatici del diciannovesimo secolo, i fisici del ventesimo o gli artisti del ventunesimo – deve possedere una lingua comune. Eppure le ragioni per cui è stato scelto proprio l’inglese come lingua franca – colonialismo, imperialismo, economia, media, cultura pop, forse persino la moda – vengono d’abitudine ignorate. Si parla inglese ma il suo predominio è circondato da un silenzio inspiegabile, ridicolo e assordante. Gran parte dell’arte politicamente impegnata, anti-post-Fordista o focalizzata sulle minoranze viene commentata e discussa in inglese e ancora non smette di stupirmi il fatto che non si esprima mai alcun giudizio, neppure di passaggio, sull’apparente paradosso di parlare di politica ignorando la politicità del linguaggio che si sta usando. Alcuni artisti hanno cercato di affrontare il tema – vengono in mente il video di Nicoline van Harskamp The New Latin (2010) e quello di Jakup Ferri An Artist Who Cannot Speak English is No Artist (2003) – ma si tratta di un ristretto manipolo. E, del resto, potrebbe andare diversamente? Riuscite a immaginare, per esempio, un incontro sull’effetto globalizzante del circuito delle biennali che, in polemica con la globalizzazione Anglo-centrica, si svolgesse in finlandese? Ovviamente no: il pubblico interessato a un incontro del genere e la maggior parte dei suoi ideali oratori disporrebbe solo dell’inglese quale unico comune veicolo di conversazione. È per questo che è un paradosso: non c’è via d’uscita.

Ho preso chiara coscienza delle complesse ragioni che si celano dietro l’uso dell’inglese – e del suo predominio in paesi in cui vivono relativamente pochi inglesi madre-lingua – parlando con un artista albanese che viveva a Milano. Dopo essersi trasferito in Italia da Tirana alla fine degli anni ’90, aveva cominciato a dare ai suoi lavori titoli in italiano; ma poi, più avanti, era passato all’inglese. Aveva esposto soltanto in Italia e non aveva alcun contatto significativo al di fuori: e allora perché l’inglese? Smontò le mie critiche molto rapidamente. L’italiano era una lingua straniera che aveva imparato prima di trasferirsi, guardando la televisione italiana in Albania, dove era l’italiano, più dell’inglese, a essere considerato “prestigioso”. Il passaggio successivo, dall’italiano all’inglese, rappresentava un avanzamento verso un nuovo genere di prestigio che rifletteva il cambio di contesto avvenuto nella sua vita. A suo parere nessuna lingua si poteva considerare un mezzo neutro e diretto di trasmettere informazioni. E per la maggior parte di noi l’inglese non è neutro: nella maggior parte dei casi ci relazioniamo all’inglese dall’esterno. Nell’adattare ciò che diciamo alle convenzioni e ai parametri di questa lingua, la carichiamo di valenze (positive e negative), implicazioni e associazioni che hanno senso soltanto in una prospettiva esterna – e delle quali un madrelingua molto semplicemente non si rende conto, esattamente come io non riuscivo a capire le ragioni dell’iniziale preferenza dell’artista albanese per i titoli in italiano.

Non era peraltro il solo che si stava muovendo verso l’inglese. All’inizio degli anni 2000, ho tradotto numerosi testi dall’italiano all’inglese per artisti italiani. Con il passare del tempo, i loro contatti con il discorso artistico internazionale hanno permesso loro di scrivere da sé i propri testi in lingua. Continuavano però comunque a chiedermi di editarli, ed è stato a quel punto che che ho notato una cosa. Non appena avevano iniziato a scrivere in inglese, la loro prosa, il loro stile – le loro idee – erano cambiate. La trasformazione più ovvia era di natura formale – frasi brevi, lessico più limitato, sintassi basilare – ma la cosa poteva essere ascritta solo in parte a una competenza da principianti. In inglese, il cambiamento non riguardava infatti solo le loro abilità di scrittura ma anche gli standard che usavano per valutare che cosa valeva la pena scrivere e come dovesse essere scritto. L’inglese ha uno stile intellettuale distinto: propri criteri specifici che definiscono cos’è un argomento convincente, un’idea solida, un’affermazione forte, una buona citazione. Padroneggiare la lingua – editare un testo o modificare una traduzione – non è sufficiente per esprimere un’idea originariamente concepita in italiano. Idee, tesi e concetti che sembrano solidi in italiano a volte non funzionano altrettanto bene in inglese.

Lo stile intellettuale dell’italiano, ad esempio – lo stile argomentativo caratteristico della scrittura accademica e spesso di quella artistica – è stato determinato, fino a non molto tempo fa, dal doppio influsso della filosofia tedesca dell’ottocento (a partire da Marx fino a includere Benedetto Croce) e del post-strutturalismo francese (al cui interno, abbastanza curiosamente, troviamo anche Martin Heidegger). Questa mistura rende la prosa divagante, strenuamente lunga, contortamente composta di subordinate annidate dentro ad altre subordinate in una fumosa mise-en-abîme. Chiunque sia abituato alla scrittura inglese molto probabilmente ne ricaverà la sensazione che non vi sia alcuna tesi. Gli aggettivi si moltiplicano come salve retoriche; citazioni e riferimenti abbondano in una frenesia di appelli all’auctoritas che sembrano celare l’assenza di una qualsivoglia fondata argomentazione. E questo, abbastanza paradossalmente, è il risultato a cui conduce una buona istruzione, quel che gli accademici lavorano duramente per ottenere e ciò che lo stile intellettuale della lingua italiana considera lo stato dell’arte di un’argomentazione ben pensata.

Le differenze linguistiche sono spesso interpretate in termini di difficoltà di traduzione. Ma, in questo caso, il problema è più profondo. Non è questione di un testo che perde appigli rispetto al suo retroterra culturale quando viene traslato in un’altra lingua: quello che cambia è l’insieme di standard e parametri usati per valutare ciò che vale la pena dire e il modo in cui dirlo. Questo aspetto è particolarmente evidente nel caso dell’auto-traduzione. In teoria niente dovrebbe andare perso quando lo scrittore è anche il traduttore; o almeno è quello che credevo quando ho iniziato a tradurre il mio romanzo dall’italiano all’inglese. Ovviamente ne conoscevo a fondo i capitoli: avevo speso un numero incalcolabile di ore a ripulirli, editarli, leggerli e ri-leggerli; alcune parti le avrei potute citare a memoria. Eppure non appena li ho trasposti in inglese, le metafore suonavano spuntate, inefficaci o enfatiche al punto del ridicolo; intere frasi apparivano banali o ridondanti. Proseguendo, sono diventato via via sempre più consapevole della frattura interna sperimentata da chiunque si sia cimentato nell’auto-traduzione: conosci il senso del testo (lo hai scritto tu); sai che quel senso è espresso interamente dalla versione originale; constati che tecnicamente la traduzione è priva di errori ed eppure – ed eppure – qualcosa è cambiato. Molto semplicemente il mio romanzo non suonava più troppo interessante: non era stato concepito in quel modo. Era stato concepito in italiano.

Un problema simile, ma indubbiamente molto più grande, si è presentato con la traduzione di Bild-Anthropologie (2001) dello storico dell’arte tedesco Hans Belting. Nella prefazione dell’edizione inglese An Anthropology of Images (2011), Belting annota come, nonostante una stretta collaborazione con un traduttore molto paziente, un capitolo – che era apparso in francese, in spagnolo, e in altre versioni – aveva dovuto essere scartato «perché sembrava resistere a qualunque traduzione sensata». A cosa si doveva questa resistenza? All’inglese non mancano certo le categorie specifiche necessarie al testo (e anche se non fosse stato così, potevano pur sempre essere create o definite). La resistenza che descrive Belting può venire dallo stile intellettuale menzionato sopra, tuttavia le sue conclusioni sono più ampie. Un libro concepito in tedesco, «in inglese dovrebbe essere riscritto e ri-concepito come un nuovo libro». Belting si riferisce implicitamente alla teoria linguistica nota come l’ipotesi di Sapir-Whorf quando conclude: «crediamo di pensare con o in una lingua, ma più spesso sono le lingue a pensare con noi».

Questo verdetto è forse troppo drastico. L’ipotesi Sapir-Whorf – dal nome dei linguisti e antropologi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf – è anche nota come il “principio della relatività linguistica”: ogni lingua ha un diverso e distinto impatto sul modo di vedere il mondo di chi la parla. L’ipotesi è oggi considerata un’esagerazione dai ricercatori di linguistica. Come sostiene il linguista Guy Deutscher nel suo studio Through the Language Glass: Why the World Looks Different in Other Languages (2010), la lingua madre si ripercuote sulle nostre abitudini mentali e sulla nostra Weltanschauung. Ma svariate ricerche suggeriscono che è altamente improbabile che questo impatto vada al di là di qualche effetto superficiale, come le associazioni mentali che i parlanti una data lingua fanno con un sostantivo per via della sua classificazione come maschile o femminile. Le lingue naturali, sostiene Deutscher, possono essere usate per esprimere qualunque cosa – perché questo, tanto per cominciare, è il motivo per cui si sono sviluppate.

Ma è qui che questa discussione va per la propria strada: l’inglese come lingua franca non è una lingua naturale bensì una seconda lingua, e lo è intrinsecamente. Non si è evoluto allo scopo di accogliere tutti i possibili argomenti di conversazione. Alcune cose non possono essere espresse con precisione nella versione in qualche modo annacquata e convenzionale dell’inglese che spesso parliamo noi stranieri (sebbene la comunicazione non sembri essere un problema). Ma il problema risiede altrove: fino a che punto una lingua acquisita influenza quello che scegliamo di dire e di scrivere e il modo in cui lo facciamo? Via via che gli artisti e gli scrittori originariamente abituati a una lingua straniera migliorano le loro competenze in inglese,  essi (noi) diventeranno consapevoli in modo crescente che alcune delle loro (nostri) argomentazioni perdono gran parte della loro efficacia quando vengono tradotti; di conseguenza, piuttosto naturalmente, essi (noi) elaboreranno argomentazioni diverse.

E c’è di più: questa influenza, è ovvio, agisce in entrambe le direzioni. Anche se artisti e scrittori di tutte le nazionalità adottano lo “stile intellettuale” inglese, quello che dicono e scrivono non coincide necessariamente con l’inglese corretto. Un segno particolarmente interessante dell’influenza di questi soggetti può essere colto nella ricerca portata avanti dall’artista David Levine e dalla sociologa Alix Rule, che hanno tenuto il workshop “International Art English” nel corso dell’edizione 2011 di Artissima.

Secondo Levine e Rule, l’ “Internation Art English” è esemplificato da un ampio assortimento di comunicati stampa e newsletter di argomento artistico in lingua inglese. Hanno analizzato questo corpus e isolato una tendenza alle frasi esageratamente lunghe, un proliferare di superflui sostantivi astratti, l’eccessiva frequenza di sostantivi che terminano in “-izzazione” e persino una metafisica leggermente peculiare: gli scriventi attribuiscono ad oggetti inanimati – mostre, progetti, ricerche – azioni e facoltà che dovrebbero invece essere ascritte agli individui che li hanno prodotti. Secondo Levine e Rule, la ragione di queste particolarità risiede in una influenza straniera: l’imitazione della teoria e della filosofia francese, conosciuta però attraverso la traduzione inglese.

Levine e Rule hanno ragione: tali peculiarità costituiscono una differenza significativa tra l’International Art English e l’inglese “standard” (ma ancora una volta, ci si può chiedere: lo standard di chi?) e suggeriscono che l’International Art English sia più vicino a una lingua straniera come il francese che all’inglese di tipo canonico. Inoltre, l’idea che un insieme di espressioni formali nella sintassi e nel vocabolario possa alla fine risultare in una differenza di contenuti, persino di metafisica, è una maniera valida e chiara di formulare la questione. Forse però un’analisi del linguaggio condiviso di una comunità variegata e geograficamente sparpagliata non è condotta al meglio se posta in termini di norma e deviazione dalla norma perché, propriamente parlando, la norma è ancora in fieri. E chi la fa? Tutti noi.

Una lingua franca è un’impresa intrinsecamente collaborativa. Per esempio, quando un curatore polacco e un artista svizzero discutono un progetto, è molto probabile che parlino una lingua (inglese) che non è la loro e che padroneggiano a livelli differenti. È del tutto normale che uno dei due completi la frase dell’altro mentre lui o lei sta cercando la parola esatta; che entrambi si lancino in complesse perifrasi per evitare di usare termini di cui non sono del tutto sicuri; o che proiettino parti della struttura della loro lingua madre all’interno di quello che stanno dicendo. Il risultato – seppure formalmente scorretto – può ancora essere compreso (e dunque entrare nel gergo condiviso) o altrimenti essere riformulato finché non ne emerge infine il significato. E alla fine il significato emerge.

Moltiplicate questo piccolo esempio per tutte le possibili combinazioni di lingue che si trovano nel discorso artistico, all’interno di un ampio gruppo di persone e per un periodo di qualche decennio, e otterrete una norma linguistica flessibile e costruita collettivamente: una norma che ammette storpiature e contributi da qualunque lingua straniera, fintanto che il suo significato può essere compreso senza troppa difficoltà da un altro parlante non inglese. Risiede qui la ragione delle “-izzazioni” (vengono dal francese), dei paragrafi lunghi e avvolgenti (vengono dal tedesco) e persino dell’improvviso statuto di soggetto garantito agli oggetti inanimati (può venire dalle molte lingue che usano il genere per nominare gli oggetti inanimati e così rimpiazzano i sostantivi con pronomi come “lui” o “lei”). Levine e Rule sono nel giusto quando ascrivono simili peculiarità a un’influenza straniera; ma nel torto, credo, nel considerarle qualcosa che rende la lingua soltanto più complessa. L’influenza straniera rende la lingua più accessibile, ma a un pubblico differente, più ampio ed eterogeneo, rispetto a uno composto esclusivamente da madrelingua. L’International Art English – lingua franca, Globish o ESL – usa meno parole e una sintassi meno varia dell’inglese di alto livello; allo stesso tempo però, le parole utilizzate non sono necessariamente le più semplici né lo è la costruzione sintattica. Adattato alle necessità di un parlante non madrelingua, la lingua diventa allo stesso tempo più facile e macchinosa: un insieme di finezze astratte ed involute e di immediatezza pratica, una strana combinazione, forse, ma niente affatto unica. La stessa cosa è capitata al latino.

Il latino parlato nel medioevo era una lingua internazionale di comunicazione erudita, originariamente basata sulla lingua della Bibbia nella vendutissima traduzione di San Girolamo e dei numerosi commentari che ne derivarono. Il successo della traduzione dipendeva precisamente dagli aspetti che più tardi furono disapprovati dai filologi rinascimentali, impegnati a riscoprire la purezza del latino classico: lo stile di Girolamo era più semplice, più ripetitivo, più banale, ed usava bizzarre parole mutuate dal greco e dall’ebraico sebbene avesse a disposizione sinonimi più appropriati. In breve: il suo latino era più facile (essendo inteso per un vasto pubblico) e inutilmente complesso allo stesso tempo. Suona famigliare?

A differenza dell’International Art English di oggi, il latino medievale non era soltanto un linguaggio intellettuale: era anche l’unica lingua letteraria ascoltata durante le funzioni religiose dai cristiani d’Europa.  In tal modo, la Bibbia Vulgata è diventato il principale riferimento per il latino parlato in giro per l’Europa, da differenti comunità, in diverse regioni, in varie versioni. Sappiamo com’è finita: quelle comunità hanno parlato quella lingua macchinosa e semplice così tanto che alla fine l’hanno cambiata, rendendola meno macchinosa e meno semplice, trasformandola infine, con l’andare del tempo, in quelle lingue oggi note come francese, portoghese, spagnolo, catalano, italiano e rumeno (e qualche altra decina) – ovvero le lingue neo-latine.  A un certo punto della storia, il latino di Girolamo cessò di essere solo il suo, e divenne di tutti gli altri. Mi sa che dobbiamo solo aspettare.

 

 

Una nota dell’autore sulla traduzione

Questo testo è stato scritto originariamente in Globish. È la prima volta che leggo un mio testo tradotto da altri nella mia lingua madre: e c’è un qualche effetto di straniamento, che non ha nulla a che fare con la qualità della traduzione. Si tratta, credo, della riprova del problema dello “stile intellettuale”: in questo testo – nelle frasi così brevi e scarne – nell’argomentazione lineare in modo quasi ottuso – si respira un’anglofonia indipendente dalla lingua, profonda e ineradicabile. Alcuni potrebbero trovarla fastidiosa: altri più coinvolgente di un perfetto equivalente “puro” (per via dell’argomento, anche quello accennato sopra, del prestigio). Credo che non sia né l’una né l’altra: ma, più semplicemente, quella che sta diventando una variante dell’italiano. Quale? Be’, la nostra. (vl)