Attualità
La curva a campana
Jonathan Franzen e la scomparsa dei margini. Cos’è un “Great American Novelist” oggi? Soprattutto: cosa devono rappresentare le sue opere? Un’analisi che parte da Infinite Jest e arriva a Libertà passando per Middlesex, per capire che tipo di mondo riflette, oggi, il grande romanzo americano.
Pubblichiamo un estratto dal nuovo numero di Studio, che per l’occasione cambia nome e diventa Scrivo. Si tratta di uno speciale annuale soltanto digitale dedicato al mondo della letteratura e, per l’appunto, all’arte dello scrivere. I possessori di iPad possono scaricarlo direttamente dalla nostra applicazione (che, in caso non ce l’aveste, è qui), mentre tutti gli altri possono rivolgersi all’edicola virtuale di PortReview, dov’è in vendita.
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Perché un cartone di Disney ci colpisca con tutto l’orrore di un quadro di Bacon, basterebbe scriverci sotto come didascalia: non esiste nient’altro.
John Berger, About Looking, 1980
1.
La considerazione di partenza di quello che sto scrivendo è che il Pantheon non figura nei libri di teologia ma in quelli di storia. Ciò significa che al Pantheon non chiediamo di parlarci degli dèi, che non esistono, ma dei romani che vollero specchiarsi in loro pur sospettando che non esistessero.
Nel 2010 la rivista Time ha dedicato la copertina a Jonathan Franzen, che aveva da poco pubblicato il suo romanzo Libertà. Nello stesso anno vi hanno figurato anche Steve Jobs, Joseph Ratzinger e Angela Merkel. In passato vi sono stati Hemingway, Eliot e Dos Passos. Accanto alla foto o al disegno del viso, le copertine di Time riportano a volte una didascalia. Nel caso di Franzen questa era “Great American Novelist” – grande romanziere americano. Una celebrazione tanto diretta ed esplicita non si era mai vista prima. Non può non essere estremamente significativa. Ma cosa significa?
“Great American Novelist” non è solo una lode. Storicamente, caratterizza un genere letterario. Quel genere include i libri che ambiscono a offrire un’immagine comprensiva o particolarmente emblematica della società da cui sono scaturiti. Sono libri come La commedia umana, Guerra e pace e USA Trilogy; e comeLibertà.
I loro autori sono di solito uomini bianchi ben acculturati. Sono già forti di un successo letterario precedente da cui traggono la fiducia e l’esperienza necessarie a perseguire un’ambizione tanto ampia. Queste non sono limitazioni, ma condizioni del genere stesso. Solo chi è ai vertici di una società può ritenersi in grado di abbracciarne ogni aspetto. I romanzi di questo tipo, persino più dei romanzi in genere, sono un privilegio della classe dominante.
Questa ragione non basta a considerarli viziati dal pregiudizio, e quindi irrilevanti. Ciò che conta non è che uno scrittore sia o meno in grado di restituire senza distorsioni l’immagine della società in cui vive, scopo che sarebbe impossibile se non inutile, poiché la vediamo anche noi. Ciò che conta è che uno scrittore offra un’immagine in cui tale società, o una sua parte, desideri rispecchiarsi al punto da assumerlo nel proprio canone – un canone che, simboleggiato dalla rivista Time, è prima sociale e politico, di costume, che letterario.
Da questo punto di vista, Libertà ci dice qualcosa della società contemporanea non come farebbe una fotografia, ma come farebbe una selfie scelta per un profilo di Facebook. La domanda da porle non è se assomigli o meno al proprio soggetto, ma come mai abbia scelto proprio quella.
Da questo punto di vista, Libertà ci dice qualcosa della società contemporanea non come farebbe una fotografia, ma come farebbe una selfie scelta per un profilo di Facebook. La domanda da porle non è se assomigli o meno al proprio soggetto, ma come mai abbia scelto proprio quella.
2.
Appena ha potuto liberarsi dagli impegni legati al travolgente successo di Libertà, Franzen è andato su un’isola deserta per spargere nel Pacifico le ceneri di un altro romanziere americano, David Foster Wallace, che si era suicidato due anni prima. Qualche mese dopo lo ha raccontato sul New Yorker.
Erano nati a tre anni di distanza, facevano lo stesso mestiere. Nell’articolo Franzen scrive che Wallace era “un malato di mente” e “un tesoro nazionale”, e che alla loro amicizia non era estranea la competizione. Fra i molti dettagli sorprendenti ce n’è uno che colpisce: Franzen ammette che la consegna delle ceneri non era un desiderio di Wallace, ma di sua moglie, che a suo dire l’ha voluta più per lui (Franzen) che per se stessa.
Franzen è troppo acuto per ignorare che questa appare come la dichiarazione di un passaggio di testimone – consegnato dai redattori di Time, o tramandato in eredità da una vedova affranta, o strappato dalle mani di un cadavere, cambia poco. Se anche non erano queste le sue intenzioni andando sull’isola, non potevano che esserlo quando ha deciso che quel gesto privato meritava di essere raccontato ai lettori del New Yorker. Alcuni di loro, benché certo non tutti, erano anche lettori di Wallace.
Con quel racconto Franzen ha chiesto esplicitamente che la sua opera fosse considerata in continuità con quella di Wallace. Capire le ragioni dell’assunzione di Franzen a grande romanziere americano significa quindi capire che cosa Libertàandava a rimpiazzare su quel podio. Sulla prima pagina della copia di Infinite Jestche ha regalato a Franzen, Wallace aveva disegnato un cazzo.
3.
Infinite Jest è uscito nel 1996. Parla di un gruppo di persone che include il figlio geniale e autistico di un regista suicida, uno spietato reparto di separatisti del Québec in sedia a rotelle, un manipolo di tennisti e di tossici in fuga da due centri psichiatrici, e una ragazza costretta a nascondersi dietro un velo perché sfigurata o forse perché di bellezza accecante. Stanno cercando un’opera perduta del regista di cui sopra. È l’opera di intrattenimento definitivo: chiunque la veda perde il desiderio di fare qualunque altra cosa, e finisce per morire. L’idea di base di Infinite Jest è che la società occidentale assomiglia a questo. Superficialmente, è ovvio, questa proposizione è falsa.
Infinite Jest è fuori dalla media per lunghezza, lingua e complessità. Eppure non risulta irrealistico solo perché pochi individui reali somigliano a quei personaggi, o perché nessuno parla con la brillantezza strabordante dei loro dialoghi. La lingua di Wallace è pirotecnica e torrenziale, ricca di tecnicismi astrusi e divagazioni sterminate: ma questa al lettore non appare una forzatura. Al contrario, quella lingua è l’unico modo per raccontare in maniera convincente le dinamiche psicologiche e le disavventure di un segmento della società altrettanto distante dalla media. Proprio come la lingua che le esponeva, tali dinamiche erano estreme, disfunzionali, esagerate: ma in filigrana lasciavano intravedere qualcosa di spaventosamente simile al mondo reale.
“Spaventosamente” non è un rafforzativo generico. Meccanismi in genere percepiti come accettabili si mostrano, se amplificati, in tutta la loro violenza. I lettori di Wallace non erano in una clinica di disintossicazione, ma probabilmente avevano un rapporto crescentemente passivo e dipendente con l’intrattenimento. I personaggi del romanzo mostravano loro delle versioni esasperate di se stessi. Come in un ingrandimento fotografico i dettagli vi apparivano più chiari, e questa chiarezza era spaventosa.
Implicita nell’uso di questa tecnica letteraria è la convinzione che tali dettagli siano potenzialmente pericolosi – è per questo che vale la pena rivelarli. È l’intento che anima, in modi diversi ma allo stesso scopo, tanto Balzac quanto gli scrittori di fantascienza. È una tecnica intrinsecamente ammonitoria, e buona parte dell’ironia e dell’assurdo messi in campo da Wallace serve a disinnescare il potenziale moraleggiante di questo monito. Ci riesce, e il suo romanzo non mostra di voler ammaestrare (come Balzac) o premonire (come la fantascienza). Mostra di voler rivelare qualcosa che sta latente sotto la superficie della quotidianità. Perché questa superficie non ostruisca la vista, Wallace la fa esplodere.
Potremmo chiamare questa tecnica letteraria “realismo per esagerazione”.
I lettori di Wallace non erano in una clinica di disintossicazione, ma probabilmente avevano un rapporto crescentemente passivo e dipendente con l’intrattenimento. I personaggi del romanzo mostravano loro delle versioni esasperate di se stessi.
4.
Quattordici anni dopo è uscito Libertà. È quasi altrettanto lungo, ma al contrario diInfinite Jest scorre rapidissimo, forte di un intreccio molto potente e di una lingua tanto lucida e priva di asperità da apparire quasi invisibile, come il vetro di un diorama. Dietro quel vetro è in mostra un esemplare perfettamente conservato di famiglia tipica, se non dell’occidente tutto, almeno di quel segmento alto d’occidente che legge i libri di Franzen.
I genitori si sono conosciuti in università; all’apertura del libro lei è una casalinga infelice, lui un burocrate di alto livello. La lascerà per la sua assistente, mentre lei farà rivivere una fiamma di gioventù con un comune amico. Un figlio molto intelligente cercherà di fare i soldi. Una figlia molto sensibile cercherà una via di fuga dalla borghesia. Il comune amico diventerà un musicista famoso. L’assistente morirà in automobile. I genitori si ricongiungeranno all’età della pensione. Secondo Franzen, la società occidentale somiglia a questo.
In modo più evidente di Wallace, Franzen dice la verità. Conosco molte persone la cui vita somiglia a questo. Come loro, i personaggi di Franzen sbagliano, si illudono, osano e soffrono, e covano le proprie piccole stranezze sotto una scorza di atterrita normalità. I loro processi mentali ed emotivi sono ricostruiti con una lucidità che fa sentire il lettore inchiodato a se stesso. Leggendone si ha la costante sensazione che potrebbe trattarsi di te o di tua sorella. Nella trama figurano parecchie minoranze (milionari, omosessuali, truffatori, ossessi), ma solo un pizzico ciascuna; incrociano la vita dei protagonisti nello stesso modo in cui quella dei miei genitori è stata incrociata da compagni di studi che militavano nelle BR, o da vicini di casa che hanno fatto i miliardi.
Anche a livello linguistico Libertà evita con ogni sforzo di suscitare lo sbalordimento del lettore. La voce di Franzen spicca per profondità di sguardo ma non per complessità e ricchezza. Non si stacca mai da quel registro neutro ed elegante che nel giornalismo si associa al New Yorker. Come per i personaggi e la trama, questa ordinarietà non è una mancanza ma un tratto programmatico. Franzen ha chiesto alla musa di fargli cantare il centro.
Potremmo chiamare questa tecnica letteraria “realismo statistico”.
5.
Infinite Jest e Libertà condividono lo scopo di raccontare la stessa società, a quattordici anni di distanza. Ma i loro autori raggiungono quello scopo per vie molto differenti.
Franzen è stato lodato per aver fatto il “ritratto realistico di una famiglia indimenticabile”, e criticato per essere più “distante” dai suoi personaggi di quanto il lettore si sarebbe atteso. Queste osservazioni sarebbero parse sorprendentemente fuori bersaglio rispetto al romanzo di Wallace. Wallace offre un racconto della realtà, ma questo fine non passa attraverso il mezzo del ritratto credibile di una famiglia. Nessuno dei suoi personaggi è un tipo umano statisticamente probabile. Wallace è estremamente consapevole delle attese del lettore; ma da questa consapevolezza trae ogni occasione per tradirle, per difetto o più sovente per eccesso. Quando viene introdotto il personaggio del regista suicida, la nota a piè di pagina che ne riassume la filmografia fittizia è lunga dieci pagine.
Questa differenza non è una differenza fra sperimentalismo e tradizione. Più di vent’anni dopo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, Wallace non sta sperimentando ma inserendosi in una tradizione solida e fruttuosa. (Di questa tradizione, forse comprensibilmente, proprio Infinite Jest sarà il fuoco d’artificio conclusivo.) Parallelamente, la decisione di Franzen di rivitalizzare una forma alta del romanzo ottocentesco potrebbe essere un gesto di rottura più che un’adesione al canone dei suoi tempi.
Al di là dei filoni a cui possono essere ricondotti, Franzen e Wallace mettono in opera due modi diversi intendere la letteratura. Questo cambiamento non ha a che fare unicamente con due scrittori, ma è qualcosa che ha investito in modo più ampio la narrativa americana di quei decenni. Se la letteratura è o dovrebbe essere la risposta a una domanda della società, che come le ballerine di Balzac si dà all’artista in cambio di un ritratto, quello che stiamo dicendo è che quattordici anni sono bastati a cambiare ciò che la società esige da un grande romanzo. Il fatto letterario è spia di un fatto sociale.
Questo fatto letterario trova la sua manifestazione più precisa nella narrativa di Jeffrey Eugenides.
Con Infinite Jest, Wallace non sta sperimentando ma inserendosi in una tradizione: parallelamente, la decisione di Franzen di rivitalizzare il romanzo ottocentesco è una rottura più che un’adesione al canone dei suoi tempi.
6.
Nel 2002, esattamente a metà di quei quattordici anni, è uscito Middlesex di Jeffrey Eugenides.
È una saga familiare raccontata da un giovane uomo che ripercorre la storia dei suoi nonni e genitori. Si apre in un’Europa arretrata e campestre, all’inizio del novecento. Ci sono molti personaggi, che via via si adattano alla vita negli Stati Uniti mentre questa si adatta al ventesimo secolo. C’è la traversata dell’oceano, lo sbarco a Ellis Island, il lavoro in fabbrica, l’apertura della prima attività in proprio, la crescita, il successo e in sua virtù l’ammissione di diritto nella classe media, verso cui era orientata teleologicamente.
Come gli altri romanzi di Eugenides Middlesex usa una lingua tersa e controllata, meno compatta di quella di Franzen ma comunque più vicina ad essa che all’esuberanza di Wallace. Superficialmente questo schema di distanze relative vale anche dei contenuti. Sia Eugenides che Franzen parlano di un mondo che ospita poca variabilità sociale. È un mondo che assomiglia al loro e a quello dei loro lettori, quello che si intravede nei servizi di costume dei giornali.
La superficie è fuorviante, perché il narratore di Middlesex è un ermafrodita. Prima di scoprirsi anatomicamente maschio ha vissuto sino all’adolescenza come ragazzina. Ciò dipendeva da una mutazione genetica che gli derivava dalla consanguineità dei suoi nonni, partiti dalla Grecia come fratelli e sbarcati a New York come sposi. Questa versione canonica dell’epica commerciale della borghesia americana comincia con un incesto.
Nel 2011 – otto anni dopo Middlesex, un anno dopo Libertà – Eugenides pubblica il suo terzo romanzo, La trama del matrimonio. È la storia di tre amici che si incontrano all’università. Crescono insieme, si amano, litigano, intraprendono viaggi, tradiscono carriere di grande successo, si avvicinano e si allontanano. Li animano le aspirazioni migliori della classe media (un lavoro significativo, una vita piena e moralmente lucida), e li sconvolge il disturbo maniaco-depressivo di cui soffre uno di loro. Come un buco nero al centro del romanzo, la malattia eserciterà una forza gravitazionale intensissima sulle traiettorie di tutti e tre. La conclusione del libro è incerta. Il malato decide di sparire, per permettere agli altri di tornare alla normalità, o di cercare di ritrovarla, o di fingerla, che è lo stesso.
7.
A prima vista, le analogie fra Middlesex e La trama del matrimonio sono piuttosto forti. Entrambi offrono il racconto di una parte apparentemente convenzionale della classe media. Entrambi inseriscono al centro di tale racconto un elemento “deviante” che ne determina in maniera imprevedibile gli sviluppi. Entrambi tematizzano oscuramente l’impossibilità di controllare la propria vita.
Queste analogie divergono solo su un aspetto apparentemente trascurabile di statistica. La malattia al centro de La trama del matrimonio ha un’incidenza del 2% nella società occidentale. La sindrome maniaco-depressiva appartiene all’orizzonte degli eventi di qualunque adulto europeo o americano – ha colpito un suo parente, o l’ex marito di una sua amica, o un collega di parecchi anni fa. Probabilmente abbiamo sentito dei racconti su cosa significa conviverci, e quei racconti corroborano la forte presa emotiva del realismo del romanzo.
I racconti di incesti o di ermafroditismo sono meno frequenti. La mutazione genetica al centro di Middlesex è rintracciata in 50 famiglie in tutto il mondo. Scegliere di raccontarla come normalità ha qualcosa di “esagerato” – nel senso in cui caratterizzavamo con questo termine il realismo di Wallace. È, statisticamente, molto improbabile – molto più improbabile di un disturbo bipolare, ad esempio.
Non è solo una questione di ragioneria delle percentuali: va a determinare, più o meno direttamente, l’idea di “normalità” che i due romanzi di Eugenides ci consegnano.
La trama del matrimonio approfondisce la nostra idea di normalità. La estende ad includere la forza irrazionale della malattia, che generalmente facciamo il possibile per rimuovere. Così facendo, mostra come la vita della classe media sia più complessa, più fragile di quanto credevamo se la fortuna ci aveva risparmiato quell’esperienza. Si può essere normali, ci dice La trama del matrimonio, e vivere proficuamente nella classe media anche se lacerati dalla malattia di una persona cara. Questo presuppone che la normalità esista; solo, è un po’ diversa, un po’ meno serena e omogenea, di quanto credevamo. Ammette delle differenze.
Middlesex opera in maniera contraria. Il narratore che da adulto ricostruisce il passato della sua famiglia è indistinguibile dai nostri vicini di casa; ma la sostanza della sua storia è quanto di meno “normale” si possa immaginare. Il fatto che sia un membro produttivo ed equilibrato della classe media non ci permette di dedurre nulla sulla sua storia personale o sulla sua natura. Ciò equivale a dire che la “differenza” (l’incesto, la mutazione genetica) è qualcosa di invisibile e in fondo privo di poteri causali; non ne resta traccia discernibile. In quanto tale, la differenza perde la funzione di discrimine fra “noi” e “loro” (noi che ci sposiamo, loro che fanno incesti; noi puri etero, loro devianti) su cui si regge l’identità della classe media. Se la differenza è inutile, parlare di normalità non ha senso.
Middlesex aderisce nel modo più esplicito alle convenzioni stilistiche e narrative della saga familiare; ma in sottotraccia a quest’adesione ne mina le radici profonde. Mostra che quel genere, l’epica della classe media, si regge su un’illusione: l’illusione che la classe media, cioè la norma, esista nel modo in cui concepisce se stessa – come assenza di differenze.
Otto anni dopo, Eugenides sembra aver cambiato idea.
Middlesex aderisce nel modo più esplicito alle convenzioni stilistiche e narrative della saga familiare; ma in sottotraccia a quest’adesione ne mina le radici profonde. Mostra che quel genere, l’epica della classe media, si regge su un’illusione.
8.
La trasformazione dell’opera di Eugenides può fare luce sulle differenze fra quella di Foster Wallace e quella di Franzen, che delimitano lo stesso arco di tempo. Anche Libertà, come La trama del matrimonio, mostra una normalità complessa, arricchita dalle differenze. È un mondo che non esitiamo a riconoscere come il nostro. Quando include qualcosa di inatteso, lo interpretiamo come estensione della nostra idea di “normalità”, e da ciò deduciamo che il romanzo ci ha fatto imparare qualcosa – ha approfondito la nostra immagine del mondo che ci circonda. Per fare questo, Franzen deve limitarsi a parlare di tale mondo; può ammettere differenze ed eccezioni solo a patto che queste siano ricondotte a una qualche norma, perché è della norma che sceglie di parlare.
Per questo Franzen racconta ciò che è più probabile. La sua scelta, almeno giudicandola secondo le premesse interne al romanzo stesso, appare solida e giustificata. Fra queste premesse, come appare chiaro dall’esempio di Eugenides, è l’idea che la classe media esista, che la normalità sia un concetto sensato. Ciò che si propone di fare il realismo statistico è esplorare, con acume e maestria, questo concetto.
Al contrario dei personaggi di Franzen, quelli di Wallace non appartengono al centro statistico della società. Sotto qualche aspetto specifico sono estremamente fuori dal comune. Hanno patologie rare, caratteristiche uniche; sono molto più intelligenti della media, o più belli, o più strani, o più sfortunati. In un ipotetico plottaggio della distribuzione delle caratteristiche umane ricadrebbero ai margini della curva di Gauss: nelle code della campana a cui a un grado estremamente alto o basso della caratteristica corrisponde un numero via via più esiguo di individui.
Potrebbe apparire un controsenso che una società si specchi in questi personaggi. Se la società è spazzata dall’intera curva a campana, parrebbe più adatto a rappresentarla il centro che non i margini. Un uomo sposato con una laurea, un lavoro fisso e una giovane amante di certo rappresenta un numero maggiore di persone effettivamente esistenti che non un assassino storpio al soldo dell’irredentismo canadese. Il centro è più probabile.
9.
In un suo famoso discorso ai laureandi del Kenyon College, Wallace parla di questa probabilità. Racconta i suoi automatismi di pensiero quando si trova bloccato in autostrada. Dice cosa gli viene da pensare dei guidatori di SUV –sembrano sempre gli automobilisti più aggressivi e irrispettosi; sembrano avere il monopolio degli adesivi della destra religiosa. I nostri nipoti, dice Wallace, malediranno il nostro egoismo in fatto di energia e ambiente, e questo egoismo è incarnato alla perfezione da gente come i guidatori di SUV.
Ma, dice poi: non è escluso che alcuni di quei guidatori di SUV siano rimasti feriti in incidenti terribili, in passato, e solo a bordo di una specie di autoblindo possano sentirsi al sicuro. Non è escluso che guidino in modo così aggressivo perché devono correre all’ospedale. “Certo”, scrive Wallace, “nulla di tutto ciò è probabile. Ma non è neanche impossibile. Dipende solo da ciò che si sceglie di considerare. […] Si decide consciamente cosa ritenere significativo e cosa no.”
Scrive anche Wallace, riferendosi all’abitudine a pensare ai guidatori di SUV come egoisti di destra: “Questo modo di pensare mi viene tanto facile e naturale da non essere veramente una scelta. È la mia modalità di default. È l’atteggiamento con cui esperisco […] la vita adulta quando opero in base al presupposto automatico, inconscio, che io sono al centro del mondo.”
Sono convinto che nel discorso al Kenyon College Wallace stesse parlando della letteratura, e della scelta fra i margini e il centro – fra raccontare l’improbabile e raccontare il probabile. Per rappresentare un’intera società in un romanzo è necessario sceglierne una parte da raccontare. E la scelta di quale parte ritenere emblematica, di “cosa ritenere significativo e cosa no”, è prima che una scelta artistica una scelta etica.
Anche Infinite Jest voleva raccontare una società di laureati, divorzi e villette. Ma al contrario di Franzen, Wallace trovava il tratto definitorio di quella società non nei suoi rappresentanti tipici ma nei suoi casi limite. Questo significa dire che sospettava che il tratto definitorio di quella società fosse qualcosa che essa stessa aveva rifiutato o espulso; che quella società preferiva dipingersi in un altro modo da come era davvero; che le categorie in cui si suddivideva (normale/anormale, centro/periferia, borghesia/proletariato) erano artifici o maschere anziché suddivisioni fondate sulla natura degli individui che vi appartenevano.
10.
Infinite Jest è uno specchio distorcente. Una società che vi cerca il proprio riflesso è una società che chiede alla letteratura di mostrarle qualcosa di sorprendente su se stessa. Questa sorpresa avrà qualcosa di spaventoso.
Viceversa, il probabile viene automatico, è ciò che ci circonda. In esso non c’è nulla di spaventoso. Come ogni scrittore di grande talento, anche Franzen porge ai suoi lettori uno specchio in cui conoscere se stessi: ma è uno specchio privo di distorsioni. I suoi lettori, guardandolo, sono felici di scoprirsi identici a come pensavano di essere.
Da questo punto di vista, l’arte di Franzen è conservatrice. La proposizione che offre è che il centro statistico della società, la classe media, è un’entità logicamente definita: esiste, e la sua esistenza si fonda su certe differenze significative che la caratterizzano. Sulla base di tali differenze, l’esclusione dei margini della società è quindi giustificata. Come il guidatore di cui parlava Wallace, chi si specchia in tale immagine vede corroborato il “presupposto di essere al centro del mondo”.
Si potrebbe obiettare che la capacità di fornire un ritratto minuzioso e fedele del proprio soggetto è tutto ciò che viene richiesto a un grande artista; e che qualunque interpretazione aggiuntiva delle sue intenzioni è una didascalia posticcia, un’impostura. Ma Libertà, che si intitola come il valore cardine degli Stati Uniti, è stato assunto nel Pantheon della letteratura americana con foga e clamore. Ciò che stiamo interpretando non sono le intenzioni dell’autore del ritratto, ma quelle del soggetto che sceglie di appenderselo in salotto. Nella decisione di proclamareLibertà un “grande romanzo americano” si avverte il desiderio di una certa parte di società di mettersi di fronte allo specchio e sentirsi dire: non esiste nient’altro.
La foga con cui Franzen è stato eletto al canone letterario potrebbe spiegarsi con l’ansia, da parte della letteratura stessa, di essere ancora ascoltata, a costo di ridurre drasticamente lo spettro di ciò che le è concesso dire.
11.
Fra il 1996 e il 2010, la selezione all’ingresso del Pantheon è cambiata di parecchio. Questo è visibile nel passaggio del testimone (spontaneo o forzato) fra Wallace e Franzen; e, in modo più contenuto, nella trasformazione dell’opera di Eugenides.
Non è possibile, qui, interrogarsi su cosa sia successo in questi quattordici anni che abbia portato a un tale cambiamento nella narrativa americana. Sul piano politico è immediato pensare all’11 settembre. Sul piano culturale viene da considerare la crescente importanza e complessità degli sceneggiati televisivi, la tendenza che hanno avuto a sostituire la letteratura nell’elaborazione di una narrazione collettiva.
Forse David Foster Wallace ha potuto offrire alla società un ritratto esagerato e spaventoso perché la letteratura si trovava in una posizione di forza. Nel 1996, essere spaventosa le era concesso, e la società era abbastanza forte da poter ascoltare una verità scomoda sul proprio conto. Quattordici anni dopo, di fronte a una società spaventata dalla guerra e che le prestava sempre meno orecchio, l’unica strada rimasta alla letteratura per aspirare a una rilevanza sociale poteva essere mostrarsi consolatoria e confortante. Qualcosa di più spiazzante sarebbe stato rifiutato.
La foga con cui Franzen è stato eletto al canone letterario potrebbe quindi spiegarsi con l’ansia, da parte della letteratura stessa, di non vedersi scavalcata nel dibattito pubblico – di essere ancora ascoltata, a costo di ridurre drasticamente lo spettro di ciò che le è concesso dire. Nel caso di Franzen questa riduzione sembra aver funzionato. Da questo punto di vista, la dicitura “Great American Novelist” sulla copertina di Time non apparirebbe come una consacrazione, ma come una preghiera.