Cultura | Estate

Il milkshake di Kelis è ancora «better than yours»

Il singolo R&B post-funk del 2003 di Kelis Rogers è il tormentone giusto per tutte le estati: perché non vuol dire assolutamente niente, ma rinfresca.

di Riccardo Conti

Arriva l’estate e come sempre, lo sconforto. Sì, perché personalmente non ho mai associato le vacanze estive a un momento particolarmente rigenerante, anzi al contrario come un martirio, talvolta autoinflitto, di attività “solari”. Treni, aeroporti, battelli, ansia da prestazione turistica, passare attraverso gironi di disagio fisico, estetico, “temperature record”, infradito, fantasmini. E per quanto Guadagnino abbia sdoganato il sudore a cascata con The Challengers, siamo sinceri: così non si può vivere. Essendo poi un individuo ombratile, sempre più in balia dell’eco-ansia, tutto concorre a farmi desiderare un posticino come una grotta in Norvegia, magari dove ascoltare brani di field recordings, musique concrète e gamelan balinese. Questo perché, come se già non bastassero le condizioni nefaste finora elencate, l’ambiente sonoro che di solito fa da sfondo a questa stagione di sbracamento collettivo è di un deprimente radicale.

C’è tuttavia un brano che da quando uscì nel 2003, conquistando rapidamente le classifiche di mezzo mondo, si è inserito stabilmente nella mia personale playlist dell’estate. S’intitola “Milkshake” e scommetto che per tutti i lettori già vivi a quell’altezza di tempo, il solo evocarlo ne richiami immediatamente sia il ritornello che il video del pezzo R&B, interpretato da Kelis Rogers, in arte Kelis; oggi una bella signora che, tra l’altro, ha la mia stessa età.

Come ci ricorda Wikipedia, il pezzo ottenne tutta una serie di riconoscimenti, tra dischi d’oro e di platino e apprezzamenti vari di pubblico e critica, ma è il suo videoclip ad essersi fatto strada nell’immaginario collettivo con una serie di segni che lo hanno reso iconico e, da tanti punti di vista, anticipatorio di un certo spirito che da allora anima quella postura di tutte le regine del genere, ma lo fa in un modo tale che allora non sapeva affatto di maniera. Cosa c’è di più estivo di un gelato, o meglio di un frappè, di un milkshake appunto? Per Kelis niente, perché il “suo”  «brings all the boys to the yard, And they’re like, it’s better than yours».

E allora eccola lì, nel video diretto da Jake Nava, fare il suo ingresso in un tipico diner americano e subito alzare la temperatura erotica del locale ordinando ‘sto frappè che sembra portare più scompiglio di Padre Urbain Grandier nel convento di suore ne I Diavoli di Ken Russell. Difficile dire se sia effettivamente tra i “Top 100 video più sexy di sempre”, come sentenziato anni fa in una classifica stilata da For Him Magazine, però certo; Kelis strizzata in quel top maliardo e quel testo, che più che un’allusione sessuale sembra un tutorial ai rituali di accoppiamento (con tanto di orgasmo finale rappresentato dalla gelatiera che esplode ricoprendo di schizzi tutti quanti) fanno di Kelis una dea della sensualità.

Ma il testo e il sottotesto non sono ovviamente il motivo del successo di “Milkshake”, non si può essere ancora così semplici nel 2024 per pensare che le parole di un brano pop siano rilevanti: la musica è musica e “Milkshake” faceva parte di una infilata di singoli semplicemente perfetti sfornati dai The Neptunes, ossia Pharrell Williams e Chad Hugo. Pharrell, che prima di diventare ancor più noto come cantante, insieme a Hugo aveva partorito, appena trentenne, cose come “Hot In Herre” per Nelly, “I’m A Slave 4 U” per Britney Spears, “Like I Love You” per Justin Timberlake, “Pass The Courvoisier Pt. 2” per Busta Rhymes, “Drop It Like It’s Hot” per Snoop Dogg, “I Just Wanna Love U (Give It 2 Me)” per Jay-Z, “U Don’t Have To Call” per Usher e altri ancora; praticamente una Motown à deux.

Sarebbe tuttavia fuorviante credere che quel brano e, in generale, la figura di Kelis siano solo un “prodotto” di Pharrell: anzi, se è vero in questo caso che dietro una grande donna ci siano due grandi uomini, è vero anche che dietro un grande uomo ci sia una grande donna o che dietro un pessimo ma influentissimo designer ci sia ancora una grande donna, la stessa. Che poi è sempre Kelis. Un piccolo passo indietro: il debutto ufficiale della cantante allora ventenne arriva con l’album Kaleidoscope (1999) e lì la nostra appare sulla cover come una principessa guerriera amazzone con una criniera dalle parti di Tina Turner, gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul busto, il corpo e i capelli completamente colorati, un po’ body painting, un po’ trucca-bimbi. A prima vista uno pensa a echi “tribali” poi però, a ben guardare, ci sono motivi tipo il giglio di Firenze (mah!). Nel booklet del cd facevano bella mostra una serie di ritratti con outfit che, visti oggi, fanno davvero il giro. In un’intervista dello stesso anno la cantante affermò: «Tutti sono così fissati col nero e grigio, io non ho paura del colore».

Kelis era sempre stata affascinata dalla moda, e quel suo interesse aveva influenzato l’artwork dell’album ma, e qui arriva il plot twist, aveva influenzato Pharrell. Pochi anni dopo, fu proprio Williams a ricordare come quella creatura fantastica dai colori esotici ebbe il merito di aver cambiato il suo atteggiamento verso lo stile. Nel volume biografico di Paul Lester, In Search of Pharrell Williams (Overlook Omnibus, 2015), il cantautore dichiarò: «Avevo appena firmato con questa ragazza chiamata Kelis, e all’epoca indossavo solo Ralph Lauren, perché era la moda. Kelis mi disse, “Devi uscire da questa gabbia.” Lei mi introdusse a Prada e Gucci. È grazie a Kelis che ho scoperto che esisteva una vita al di fuori dei monogrammi». Su come Pharrell abbia poi interpretato questi consigli di stile possiamo oggi soprassedere, ma resta significativo che Kelis abbia anticipato l’imminente hyper-glamourization del pop, con riferimenti ben lontani però dall’ormai esausto stereotipo della rich-bitch, immaginandosi invece un po’ eroina, un po’ cosplayer. Kelis, che aveva studiato recitazione e che era ossessionata dalla fantascienza, aveva infatti un sogno: interpretare un giorno la sacerdotessa-mutante Tempesta del franchise Marvel X-Men.

Negli ultimi anni si è scritto molto (e spesso a sproposito) di female empowerment e femminismo, attribuendo con una totale approssimazione questi valori alle icone dell’R&B che semplicemente hanno sbancato con i loro successi, o delegando l’impegno femminista a delle T-shirt messe addosso alle influencer. In un’intervista pubblicata nel 2015 sulla rivista Spin venne chiesto a Kelis: «Canzoni come “Milkshake”, “Trick Me” e “Bossy” ti hanno resa una figura femminile potente per una generazione di donne. Ti consideri una femminista?» Lei rispose: «Prima di tutto, cosa?? In quale universo “Milkshake” è stato potente per una generazione di donne?» Kelis, insomma, avrà montato a neve la panna sul suo frappé, ma non si è montata la testa spacciando il suo singolo che porta refrigerio per un saggio di Judith Butler, non ce n’è bisogno e lei lo sa.

Non c’è niente di peggio per un fan di un musicista per che commentare la qualità di un suo brano, ma ci sono fan insospettabili che con il loro sincero e privato apprezzamento ci restituiscono, anche da morti, la grandezza e il potere di un brano come “Milkshake”: quando nel 2010 morì Peter Christopherson, già membro di gruppi seminali dell’industrial come i Throbbing Gristle e i Coil (e prima ancora designer per il leggendario studio grafico londinese Hipgnosis), gli amici compilarono sterminate playlist per una veglia funebre in memoria di questo gigante della sperimentazione con centinaia di brani presi dalla sua produzione e collaborazioni, dove le cose più “mainstream” erano forse paio di brani dei Velvet Underground. Un solo pezzo era attinto dal mondo pop: inutile che vi dica quale.

Ognuno di noi ha un libro, una canzone, un film che associa all’estate. “Cose d’agosto” è una raccolta di articoli in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano questo loro feticcio estivo, che sia intellettuale o smaccatamente pop.