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Keep calm and pass to Borja

Nato nella generazione sbagliata, quella della Spagna di Xavi e Iniesta, Borja Valero ha imparato a non preoccuparsene ed è cresciuto fino a diventare, oggi, uno dei centrocampisti più completi d'Europa.

17 Dicembre 2013

Borja Valero ha solo sbagliato era. Grande in una generazione di gente ancora più grande. Succede, ogni tanto. Accadde a Zico: sarebbe stato il più forte di tutti se solo non fosse stato contemporaneo di Maradona e Platini. Succede anche il contrario, certo. Cantona ha beccato la peggior Francia degli ultimi 35 anni: troppo tardi per quella di Michel e troppo presto per quella di Zidane. Borja ha pescato la miglior Spagna di sempre e dentro quella squadra il miglior centrocampo della storia di una nazione e una nazionale. Xavi, Iniesta, Fabregas, Busquets, Xabi Alonso, David Silva, poi pure Thiago Alcantara. Soffre? Ha smesso. «Non ci penso più». Ricorda solo che con l’Under 19 era lui a comandare: segnò il gol decisivo nella finale dell’Europeo 2004. Poi la roja è stata un miraggio. Il calcio no. Perché si può essere fortissimi anche senza poter indossare la maglia di una nazionale. Borja ha i piedi giusti e il cervello perfetto. Difficile trovare un altro centrocampista così nel campionato italiano. Veloce, tecnico, intelligente, agile, deciso: assist e gol, sudore, fatica, qualità, idee.

Domenica ha segnato per la quinta volta in questo campionato. Come un attaccante, ma da centrocampista. È parso facile l’ultimo. Bisogna guardarlo bene, però: era troppo avanti rispetto alla palla in profondità di Giuseppe Rossi, un passo almeno. Si fosse voltato per aspettarla si sarebbe trovato di spalle alla porta e incartato. Borja Valero ha visto, ha allargato il sinistro, s’è fermato, ha fatto scivolare la palla fino al destro, l’ha vista finalmente davanti a sé e l’ha calciata. Morbida, su secondo palo, con un leggero giro di interno. Bello nella sua complicata semplicità. Che poi è la cifra di questo ragazzo arrivato a Firenze per intuizione di Eduardo Macia. Essenziale perché mette la bellezza dopo l’efficacia. Avrebbe dovuto essere un rinforzo per un centrocampo già forte: c’era Aquilani, c’era Pizarro. Oggi l’ordine è invertito. Valero è la certezza, l’imprescindibile, la garanzia. Leader, dicono. Che vuol dire? Non è uno che parla. È semplicemente uno che fa.  «Mi dicono sia un grande comunicatore, ma in realtà sono un timido». Come passare da gregario ad autorità in mezzo campionato. Perché non sono i cinque gol di quest’anno ad aver fatto la differenza. Quelli sono il cacao sul cappuccino: condimento accessorio, non necessario. È il modo di fare, di stare in campo, di correre, di non sbagliare che ti trasforma in uno che trascina anziché essere trascinato.

Interno, regista, trequartista, mezzala. Borja condivide con Vidal la capacità di stare in qualunque parte del campo sapendo che cosa fare.

Borja smentisce il luogo comune dell’attaccante da venti gol come capopopolo. Il percorso gliel’ha agevolato l’assenza di uno alla Giuseppe Rossi l’anno scorso. Firenze s’è innamorata di Valero senza capire bene ancora come si pronunciasse il nome: «Lo storpiano tutti, nello spogliatoio mi chiamano in tutti i modi da Borca, Borsa, Borgia, Boria». La verità s’avvicina più al primo che a tutti gli altri, ma con quella scivolata sulla c che sanno fare solo gli spagnoli. S’è preso Firenze per mancanza di alternative e con due piedi che parlano. L’ha riempita di sé. Un giocatore diverso da molti. Centrocampista, sì. Ma cosa? Interno, regista, trequartista, mezzala. Fa tutto, sa fare tutto. Com’è quella storia? Chi sa fare sa capire. È la forza della duttilità, concetto che la storia recente del calcio ha rivalutato e portato nel futuro. Chi sono i giocatori che fanno la differenza, adesso? Borja condivide con Vidal la capacità di stare in qualunque parte del campo sapendo che cosa fare. Sono l’imprevedibile: l’inserimento da dietro, lo scambio con l’attaccante che fa la sponda, il tiro da fuori, l’assist a scavalcare la difesa mettendo la punta solo di fronte al portiere.

Non è sempre stato così. Nasce mezzapunta. L’ha cambiato il fallimento in Inghilterra. Una stagione buttata al West Bromwich Albion ha consegnato al Villareal, alla Fiorentina e al pallone un giocatore completo e quasi unico. Uno nato nel Real Madrid, cresciuto come uno dei Pavones. Qualcuno ricorderà la filosofia del primo Florentino Perez, no? Il Real degli Zidanes y Pavones. Cioè dei galattici come Zizou e dei ragazzi del vivaio come Pavon. Valero era il più forte del Real Madrid Castilla, la seconda squadra dei blancos. Lo portarono in prima e lo fecero esordire, in campionato e in Champions. Poi ceduto, con quella tendenza molto italiana del “si faccia le ossa altrove“. Prima al Maiorca: 4 gol in 35 partite. Lo mandarono in Inghilterra, al Wba. Pensava che fosse la svolta, forse. S’illudeva che fosse un campionato migliore di quello che è. Oggi lo dice: «È sopravvalutato. La Premier League non è bella come molti dicono. È un calcio meno tecnico, meno divertente, meno brillante di ciò che molti raccontano». Da quell’esperienza s’è portato la capacità di adattarsi in relazione alla voglia di giocare. Cioè: vuoi essere titolare? Sii flessibile. Sii eclettico. Quindi diverso da ciò che per anni il calcio ha preteso dai giocatori: li si voleva iperspecialisti di un ruolo, capaci di fare al meglio del meglio una sola cosa. Borja giocava avanti agli altri centrocampisti. «È stata la mia fortuna. Là ho imparato a sacrificarmi: prima non rientravo mai nella mia metà campo».

È il Djokovic del pallone: una pagella da nove in tutto, che funziona più e meglio di chi sa fare una cosa da dieci e poi in qualcos’altro scende al sette.

Oggi sì. A Villareal pure. È lì che è diventato ciò che è, come Pepito Rossi. Vicino a Madrid, ma non a Madrid. Rimpianti neanche uno, dispiaceri neanche. Ha capito anche che non è ciò che pensava di essere. Non è uno di quelli che ti lasciano senza fiato. Non ha l’eleganza di Pirlo, non ha lo stile di Xavi, non ha il tocco di David Silva. È dannatamente e orgogliosamente concreto. Solido come quei giocatori di tennis il cui talento è il mix di più talenti. È il Djokovic del pallone: una pagella da nove in tutto, che funziona più e meglio di chi sa fare una cosa da dieci e poi in qualcos’altro scende al sette. Serio, Borja. Nell’atteggiamento e nella vita: serio che sta a serioso come la bellezza sta al botox. Valero legge, s’informa, si documenta. Celebre il suo tweet di qualche mese sui 128 licenziamenti del Pais. A chi, stupito, gli chiese come mai s’occupasse di cose così poco da calciatore, rispose: «Mia moglie è giornalista. Era giusto far sentire la nostra voce». Gode a non avere filtri. Parla, twitta, risponde, sorride. Posta la foto di lui e il figlio Alvaro che guardano Juventus-Sassuolo in tv. Alvaro poi è diventato un caso: la sua versione italo-spagnola dell’inno della Fiorentina va forte su Youtube. Non è che Borja stia lì a dire “rispetto per la privacy” o cose del genere. Si può parlare anche dei figli senza fare tragedie: «Lui è malato di calcio. Abbiamo anche messo una specie di porta nel salotto. Giochiamo e quando finiamo gli spiego che mondo va oltre i suoi giochi».

Semplice, come giocare a un tocco. Che poi è la sua felicità. Provate a seguirlo in campo. Fa ciò che ogni centrocampista s’è sentito ripetere dal primo giorno della scuola calcio: testa alta. Lui guarda, possibilmente prima di ricevere la palla. È l’altra ossessione vincente di chi insegna a giocare a pallone: guarda a chi passarla prima di avere la palla tra i piedi. Borja Valero è uno dei quattro-cinque giocatori del campionato italiano in grado di farlo. Poi vede sempre uno spazio: senza palla trova il posto giusto, va a cercare quel pezzo di campo che è solo suo. Facile giocare con uno così. Lo cerchi, lo trovi. Come quei playmaker a cui dare la palla quando scotta e bisogna fare la giocata giusta. Keep calm and pass to Borja scrivono sulle magliette viola che riempiono la Fiesole. Ne indossa una anche lui, solo che non esulta facendola vedere.

Nell’immagine, Borja Valero esulta il 2 dicembre 2013, dopo una rete all’Hellas Verona. Gabriele Maltinti / Getty Images

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