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Forse con Jojo Rabbit ci stiamo sbagliando

Con 6 nomination agli Oscar, l'opera di Taika Waititi è davvero il film dell'anno come molti critici hanno scritto?

di Jacopo Simonetti

Roman Griffin Davis e Taika Waititi nel film "Jojo Rabbit"

Traiettoria curiosa quella di Taika Waititi, neozelandese dalla discreta vis comica che in patria, nel 2014, diede nuova verve al genere vampiresco con il mockumentary What We Do in the Shadows. Un successo che gli valse la chiamata a Hollywood per dirigere Thor: Ragnarok, poi il trionfo al Festival di Toronto con il suo Jojo Rabbit: sei nomination agli Oscar, un posto al tavolo dei Tarantino e degli Scorsese, l’immenso hype scatenato dall’etichetta di “film dell’anno” che ne ha accompagnato l’uscita nelle nostre sale. Tra le altre cose, impegnativi accostamenti a Chaplin, Mel Brooks e Benigni, i grandi cantori dell’Olocausto in forma di commedia. Ma siamo sicuri che Waititi giochi nello stesso campionato?

Il piccolo Johannes-Jojo Betzler ha dieci anni e un amico immaginario decisamente anticonvenzionale: Adolf Hitler. Siamo nel 1945 e la Germania è prossima al tracollo, ma agli occhi del protagonista non è mai stata così in salute. Seguiamo dunque Jojo nelle sue peregrinazioni per una cittadina allegra e coloratissima, mentre i Beatles cantano “I Want to Hold Your Hand” in tedesco, i passanti si salutano cordialmente con una robusta dose di «Heil, Hitler!», e militari simili a capi Scout insegnano ai ragazzini a divertirsi lanciando granate. Un mondo al contrario, eppure all’apparenza gioioso, fatato. Wes Anderson racconta il Terzo Reich. Questo microcosmo perfetto dà segni di cedimento quando Jojo rimane sfigurato da una delle suddette granate: costretto a una convalescenza forzata in casa, scoprirà che la madre nasconde una ragazza ebrea, Elsa, nella stanza della sua defunta sorella.

Waititi attinge da un romanzo piuttosto truce, Il cielo in gabbia di Christine Leunens che inizia con un giovanissimo Johannes nel 1938 e finisce ben oltre la caduta di Hitler. Le differenze più rilevanti, al di là dell’arco di tempo abbracciato, sono due: le condizioni del protagonista, che nel libro è ridotto infinitamente peggio dall’esplosione, e l’invenzione di un Führer in veste istrionica e demenziale – interpretato dallo stesso regista a fargli da spalla. Una versione edulcorata, insomma, in cui ci è concesso di ridere abbondantemente prima che le cose si mettano male: Roman Griffin Davis riesce a sgrassare la comicità un po’ rétro della sua controparte, Capitan K/Sam Rockwell e Yorki/Archie Yates danno vita alle gag migliori. Il problema di Jojo Rabbit è che la linea comica dovrebbe essere al servizio di un disegno più ampio: mostrarci la Germania Nazista dal punto di vista dell’altro, in questo caso un irresistibile frugoletto accecato dalla propaganda, farci vivere parte del suo incubo come se si trattasse di qualcosa di normale e anzi divertente, salvo poi virare verso il dramma e accompagnarlo nella presa di coscienza della realtà. Potenzialmente una terapia d’urto contro il totalitarismo di sicura efficacia, il miglior film possibile da proiettare a tutti i livelli della scuola dell’obbligo. A conti fatti, tuttavia, il risultato è una lunga farsa con due grossi twist e molte citazioni di Rilke.

Nel film di Waititi, Sam Rockwell interpreta il Capitano Kleen mentre Scarlett Johansson ha il ruolo della madre di Jojo, Rosie, per cui è stata candidata all’Oscar come Miglior attrice non protagonista

Dopo il sovraccarico umoristico della prima parte, la scena delle scarpette (che non specifico per evitare spoiler) sembrerebbe uno spartiacque, il segnale di una transizione verso toni più cupi. Avendo subito il peggiore trauma possibile, Jojo dovrebbe trovarsi in situazioni progressivamente meno buffe, e invece rieccoci a ridere dei cittadini che ricompattano le macerie, degli anziani in trincea e dei ragazzi fatti detonare in missioni suicide. Vero è che la satira non conosce codici di comportamento, ma il disordine non è di natura morale: l’amalgama non funziona, tragico e comico convivono forzatamente in un’equazione inesatta, in un calderone emotivo che contiene uno strano miscuglio di Moonrise Kingdom, Bambi e il Diario di Anna Frank. Nella seconda tranche Waititi non sembra molto saldo al comando della nave, perfino il suo Hitler gigioneggiante si fa via via corpo estraneo alla narrazione, e le straordinarie premesse di questo chiassosissimo coming of age si concretizzano in un finale dozzinale e quasi offensivo.

Oltretutto Jojo, distratto dall’infatuazione per Elsa, non sembra eccessivamente interessato alla situazione del Paese: pur avendo rinegoziato il rapporto con l’amico immaginario, la sua maturazione è rimandata a un eventuale sequel. Francamente parlando, candidare Jojo Rabbit a Miglior film e alla Miglior sceneggiatura non originale è un’eresia. Non c’è spazio tra i grandi per un regista che avrebbe bisogno di un tutor. Tralasciando le categorie minori, l’unica nomination assennata è quella portata a casa da Scarlett Johansson (la signora Betzler) come Miglior attrice non protagonista. Per il resto l’Academy, forse per sensibilità ai Grandi Temi, forse per incompetenza o malafede, ha preso un grosso abbaglio.