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Ci siamo stancati degli influencer?
L’engagement dei profili da milioni di follower non è più quello di qualche anno fa: funzionano meglio quelli piccoli, ma ora Instagram pensa a togliere i like.
Selfie durante un evento Samsung a Los Angeles, foto di Michael Buckner/Getty Images for Samsung
Nel novembre dello scorso anno, il New York Times riportava una tendenza che su Instagram aveva preso piede già da un bel po’, e cioè quella dei fatidici “nano influencer”, profili con poche migliaia (a volte centinaia) di follower con i quali, però, avevano instaurato un proficuo rapporto. Proficuo soprattutto in termini di engagement, ovvero nella misura del coinvolgimento sui post e nelle Stories pubblicati. I profili “nano” riescono comprensibilmente a interagire molto meglio con chi li segue, a rispondere alle domande sia nei messaggi privati che nei commenti o nelle Stories – niente “Scusate ragazzi i miei dm sono bloccati #sorry”, insomma – e, di conseguenza, quando sponsorizzano un prodotto ottengono spesso degli ottimi risultati. I loro follower si fidano di loro e, in quel gran supermercato che è oggi Instagram, accettano di buon grado i loro consigli, perché considerano la loro opinione rilevante. Li ritengono ancora “autentici”, come direbbe un esperto di marketing.
Quella tendenza è oggi confermata anche da uno studio di Mobile Marketer che sta facendo molto discutere gli addetti ai lavori, secondo cui il livello di engagement dei post sponsorizzati sulla piattaforma delle immagini è calato dal 4% dei primi tre mesi del 2016 al 2,4% nello stesso periodo del 2019, mentre sui post non sponsorizzati si è passati dal 4,5% del 2016 all’1,9% del 2019 (sempre sullo stesso periodo). Secondo InfluencerDB, «Il tasso di coinvolgimento degli influencer di Instagram con almeno 10.000 follower è stabile intorno al 3,6% in tutto il mondo. Gli influencer con 5.000-10.000 follower, invece, hanno un tasso di coinvolgimento del 6,3% e quelli con un seguito da 1.000 a 5.000 hanno l’engagement più alto, all’8,8%». Gli influencer hanno smesso di influenzare, come titola ironicamente Dazed & Confused? Non proprio, ma qualcosa nello scenario – e nei rapporti tra i consumatori/follower, i marchi e le persone che questi ultimi scelgono per farsi pubblicità – sta certamente cambiando.
Nell’ultimo anno, l’engagement è infatti calato per tutte le categorie di influencer (in media, dall’8% del 2018 al 4,5% del 2019), anche per quelli che solitamente si occupano di viaggio e che notoriamente possono contare su un seguito più nutrito e partecipato. Il calo (che non è drastico, ma c’è), per InfluencerDB si estende anche a chi si occupa di beauty, moda, cibo, sport e potrebbe denotare, più che un’inversione di tendenza, un riassestamento degli equilibri. Lo conferma anche l’Insights 100 Global Brands di Launchmetrics, pubblicato su Il Sole 24 Ore. L’indice, che si riferisce al periodo tra l’1 gennaio e il 31 maggio 2019, raccoglie 100 marchi (20 per settore tra moda mass market, moda alto di gamma, gioielli, cosmetici di fascia alta e non) e analizza le loro performance in base al Media impact value (Miv) raggiunto. Lo studio rileva come la quota di impatto raggiunto dagli influencer nel settore del lusso non vada oltre il 13% (il 68% rimane ai media tradizionali), mentre nel settore del mass market è pari al 32,35%, secondo solo ai media (37,3%): nel campo della moda, insomma, gli influencer sembrano generare valore solo quando si tratta di sponsorizzare marchi di fascia medio-bassa. Vanno benissimo, invece, i profili che trattano argomenti di beauty – si guardi, in Italia, al successo dell’Estetista Cinica – sia per prodotti di lusso che per quelli accessibili.
Per chi se lo stesse chiedendo, Chiara Ferragni è ancora tra i primi posti quando si parla di influencer del lusso (il suo Miv è di 7 milioni di dollari tra gennaio e maggio 2019), ma nelle altre categorie (soprattutto fra chi si occupa di make-up e affini) ci sono profili che macinano sei volte tanto. Certo, si tratta di prodotti più accessibili e, in qualche modo, più affini alla natura “istantanea” di un mezzo come Instagram, ma ciononostante sono dati su cui vale la pena riflettere. Sia in termini di strategia per i marchi – cosa determina oggi una campagna di successo? Vale sempre la pena di puntare sugli influencer tralasciando i vecchi canali? – sia per studiare i cambiamenti degli utenti-consumatori. Non è un caso che Instagram stia pensando di togliere i like: la sperimentazione è già partita in 7 Paesi (Australia, Brasile, Canada, Irlanda, Italia, Giappone e Nuova Zelanda) e sembra voler disinnescare quella “dipendenza” dai cuoricini che si è rivelata micidiale per la nostra salute mentale. In realtà, in molti hanno fatto notare come l’eliminazione dei like vada a sovvertire il gioco dell’engagement più o meno spontaneo (che, come abbiamo visto, privilegia i profili con un numero di follower contenuto) e favorisca invece, per farla breve, i post sponsorizzati. Esattamente com’è successo agli editori su Facebook, anche i “creatori” di contenuti su Instagram dovranno pagare se vogliono guadagnare più visibilità sulla piattaforma.
Osservando lo stato delle cose da un altro punto di vista, infine, potremmo anche dedurre che – forse – abbiamo iniziato a stancarci di tutta questa aspirazionalità (persone sempre felici, indaffarate, accessoriate, in movimento) e, come suggerisce Rosie Spinks su Quartzy, quasi quasi rimpiangiamo i tempi in cui seguivamo personaggi, spesso fittizi, che non ripetevano costantemente quanto la loro vita fosse bella. Delle icone sconclusionate e nullafacenti degli anni Novanta – come Wynona Rider e Ethan Hawke in Giovani, carini e disoccupati – abbiamo già recuperato appieno i look, ora è arrivato il momento di riscoprirne anche l’attitudine verso la vita.