Attualità

Il talento di Mr Green

Storia del ventinovenne che dopo dieci anni di tentativi ha finalmente convinto Mark Zuckerberg a impegnarsi in una causa politica.

di Cesare Alemanni

Il destino aveva messo Joe Green nel posto giusto al momento giusto. Nel 2003 ad Harvard divideva la stanza con un altro studente: un tale Mark Zuckerberg. Oltre all’ambizione i due erano accomunati da una potente idiosincrasia per la seriosità dell’ateneo e insieme ad alcuni amici se ne presero gioco mettendo online Facemash, un sito che permetteva agli utenti di comparare le foto di due studentesse e votare la più hot in sfregio a qualunque etichetta. Il direttivo di Harvard non la prese sportivamente e avviò un’inchiesta che si concluse con una lavata di capo per tutti i responsabili della goliardata. Neppure il padre di Green – un professore di matematica a U.C.L.A. – la prese benissimo: diffidò il figlio dal frequentare Zuckerberg e lo invitò a dedicarsi “a cose più serie”. Per sposare il dettame paterno alla propria inclinazione personale verso la politica, nell’estate del 2003 Joe si arruolò come volontario nella campagna dello sfidante democratico di George W. Bush, John Kerry, e tornò ad Harvard in autunno pieno di idee su come usare le nuove tecnologie per favorire la mobilitazione dei cittadini. Ovviamente come prima cosa ne parlò con il programmatore più talentuoso che conosceva, il quale però non si mostrò affatto interessato alla conversazione e Joe Green dovette amaramente concludere che suo padre ci aveva visto bene:  quel Zuckerberg non avrebbe mai combinato nulla di serio nella vita.

Nonostante le divergenze i due rimasero in discreti rapporti, tanto che sull’aereo che l’estate successiva portava Zuckerberg e un manipolo di collaboratori fidati verso gli incubatori californiani che avrebbero reso “TheFacebook” il Facebook che conosciamo, c’era anche un posto per Green. Joe scelse però di salire su un altro aereo, diretto in Ariziona e Nevada, sempre per partecipare alla campagna di Kerry diventando di fatto il Pete Best della storia di Internet, ovvero colui che «invece di guadagnare miliardi con me, ha perso due Stati con Kerry», come si “diverte” a ricordagli di tanto in tanto l’ “amico” Mark.

Joe Green dovette amaramente concludere che suo padre ci aveva visto bene:  quel Zuckerberg non avrebbe mai combinato nulla di serio nella vita

Aver mancato un’opportunità del genere avrebbe potuto spezzargli le gambe e invece Joe Green ha tirato dritto per la sua convinzione: fare incontrare i suoi due principali interessi, la politica e i nuovi media. Finché, nel 2007, ha fondato Causes insieme a Sean Parker, l’ex Mr. Napster all’epoca ancora fresco di calcio nel sedere proprio da Facebook. Causes è una App interna a Facebook che ha lo scopo di mobilitare i suoi utenti per cause meritevoli, o come recita una delle voci del suo About, “in grado di cambiare il mondo”. Con un totale di oltre 100 milioni di utenti è al momento una delle più vaste e attive applicazioni di Facebook ma a dispetto dei grandi numeri che sfoggia, in tutti questi anni Causes ha sofferto constantemente per riuscire a far quadrare i conti e la responsabilità, secondo alcuni, sarebbe da attribuire proprio all’insipienza imprenditoriale di Green che infatti di recente è stato sollevato dalla carica di CEO (anche se lui, come racconta un recente pezzo di George Packer sul New Yorker, sostiene che andarsene è stata una sua scelta).

Sia come sia, soprattutto grazie alla popolarità raggiunta da Causes, Green è riuscito a mettere nuovamente piede nel circolo della Silicon Valley che conta. Non era più “quello che aveva perso il treno di Facebook per una scelta sbagliata”, era “quello che aveva scelto di non salire sul treno di Facebook per una giusta causa” e grazie a questo riscatto Joe si è guadagnato nuovamente l’amicizia e la stima di Mark Zuckerberg che nel frattempo, dopo anni di tiepido disinteresse, aveva iniziato a scoprire che in fondo la politica non era del tutto priva di attrattive.

Zuckerberg si alzò da quel tavolo colpito da sole due cose: la disinvoltura di Obama e quella conversazione sull’immigrazione

Nel febbraio del 2011, Zuckerberg era stato tra gli invitati a una cena organizzata per far incontrare intorno a un tavolo Obama e alcuni degli esponenti più influenti della Silicon Valley dell’epoca (due anni in questo caso sono un tempo lunghissimo). Oltre a Zuckerberg c’erano Eric Shmidt (CEO di Google), Carol Bartz (CEO di Yahoo!), Dirk Costolo (CEO di Twitter), Reed Hastings (CEO di Twitter), John Hennessy (Presidente della Stanford University) e un ormai emaciatissimo Steve Jobs. Proprio quest’ultimo, che da un po’  si era calato nel ruolo di mentore di Zuckerberg, aveva rivolto a Obama l’invito a prendere in considerazione un allargamento di manica riguardo ai requisiti necessari per ottenere uno speciale visto di lavoro per studenti stranieri altamente qualificati. La risposta di Obama fu che un simile provvedimento doveva per forza di cose passare attraverso una più ampia riforma delle leggi sull’immigrazione ma che avrebbe tenuto presente il suggerimento. Zuckerberg, così racconta Steve Jobs nella sua biografia, si alzò da quel tavolo colpito da sole due cose: la disinvoltura di Obama e quella conversazione.

Salto temporale di due anni.

Il 22 marzo 2013, sul sito del San Francisco Chronicle esce un articolo che riporta un rumour che si rincorre nella baia: Zuckerberg e altri nomi di punta della Silicon Valley si starebbero organizzando in un gruppo di pressione, proprio allo scopo di ottenere una riforma delle leggi sull’immigrazione che agevoli il reclutamento nelle aziende americane di studenti e professionisti stranieri altamente qualificati, risorse indispensabili per il potenziamento della knowledge economy Usa. L’articolo ha un titolo e un tono nemmeno troppo velatamente ironici. Il gruppo di mogul della tecnologia viene chiamato Excloo!, i loro obiettivi presentati come non esattamente chiari e i loro metodi come piuttosto rozzi, con particolare riguardo al reclutamento di Jon Lerner, uno stratega repubblicano piuttosto oltranzista. È solo quando, 18 giorni dopo, Mark Zuckerberg annuncia con un editoriale pubblicato sul Washington Post l’effettiva nascita di una lobby formata da numerosi giganti della Silicon Valley e chiamata FWD.us che le voci riportate dal SF Chronicle trovano conferma e soprattutto emerge con chiarezza un altro fatto: ancora prima di esistere, la lobby di Zuckerberg & Co. (e questo Co. include i CEO di quasi tutta l’Internet a cui potete pensare) è stata vittima di una fuga di notizie piuttosto imbarazzante. Non esattamente il livello di malizia e riservatezza con cui abitualmente si muovono le lobby, hanno notato alcuni.

FWD.us si è immediatamente lanciata in una serie di mosse piuttosto spregiudicate (i vertici preferiscono definirle “macchiavelliche”) per assicurarsi il favore del maggior numero di sostenitori della proposta di legge

I passi successivi di FWD.us non sono stati peraltro giudicati meno infelici. Prima Politico ha scovato e fatto uscire un documento interno in cui i potenziali membri finanziatori non solo erano dati per certi prima della loro conferma ma venivano denotati con una serie di titoli piuttosto infelici tipo “Capitale Umano” e poi, proponendosi come organizzazione bi-partisan che punta semplicemente a raggiungere lo scopo che si è prefissata senza badare al colore politico dei suoi referenti a Washington, FWD.us si è immediatamente lanciata in una serie di mosse piuttosto spregiudicate (i vertici preferiscono definirle “macchiavelliche”) per assicurarsi il favore del maggior numero di sostenitori della propria proposta di legge. Ta queste, quella passata meno inosservata di tutte è stata il finanziamento della campagna per la rielezione del Senatore Repubblicano della Carolina del Sud Lindsey Graham,  disposto a sostenere una revisione della legge sull’immigrazione ma che tra le altre cose ha in agenda una serie di politiche non proprio congeniali a sposarsi con l’ethos della Silicon Valley. A destare particolare perplessità è stato uno spot televisivo in cui il senatore si pronunciava favorevolmente, in maniera piuttosto chiara e diretta, sull’ampiamento della Keystone Pipeline, ovvero un gigantesco sistema di oleodotti da migliaia di chilometri che già ora trasporta le risorse di sabbie bituminose canadesi fino alle raffinerie texane, nonché una delle principali nemesi degli ambientalisti americani. Non c’è bisogno di dire che nella Silicon Valley in parecchi sono piuttosto sensibili al tema dell’ambiente e l’idea che i propri soldi fossero usati per promuovere una causa ritenuta non solo idealisticamente sbagliata ma pragmaticamente controproducente per i propri interessi, non è piaciuta a molti tra cui per esempio Elon Musk, CEO tra le altre cose di Tesla Motors (auto elettriche) e Solar City (energia pulita) che ha ritirato il proprio appoggio a FWD.us non appena è trapelata la notizia .

Più di tutto, ciò che è parso stonato nella strategia scelta da FWD.us è l’adeguarsi al vecchio canovaccio del lobbismo americano fatto di voti di scambio e appoggi incrociati del tipo «vota con noi questa proposta controversa e noi ti aiuteremo a ricordare ai tuoi elettori quanto sei fantastico su qualche altro tema – qualunque tema!», come ha scritto su Buzzfeed, Josh Miller, il fondatore di una start-up chiamata Branch con una breve parentesi “politica” nel proprio passato come stagista al Senato. L’articolo si intitolava eloquentemente FWD.Us non ha mantenuto la sua prima promessa: essere diversa e tra le altre cose Miller si rammaricava per il fatto di dover constatare che la strategia scelta da FWD.us non è in nulla diversa da quella che abitualmente adottano gli esponenti di qualunque gruppo di pressione; dall’industria farmaceutica a quella delle armi.

“It’s the way Washington works.” But given that Mark Zuckerberg and the other technology pioneers who are behind FWD.us have risen to prominence by spearheading disruptive innovations, reverting to such traditional lobbying tactics seems like a missed opportunity for meaningful change. Technology companies live and die by how innovative their products are, our organizing and lobbying tactics should be no different.

La preoccupazione che FWD.us finisca coll’arrecare più danni che vantaggi alla causa per cui è nata, all’immagine della Silicon Valley e allo sviluppo della knowledge economy americana è particolarmente ben espressa in un lungo articolo apparso un mese fa su Pandodaily dove tra l’altro si riferisce un altro spiacevole aneddoto sui primi mesi di vita di FWD.us: un pranzo, svoltosi a fine aprile a New York, in cui il Presidente della lobby ha incontrato quaranta dei maggiori esponenti di quello che è il secondo hub tecnologico più rilevante degli Usa. Un incontro al termine del quale il commento più mitigato è stato “confusionario” e quello più drastico “un completo disastro”. A quel pranzo c’era anche Miller che poi ha scritto quello che ha scritto su Buzzfeed. Ma soprattutto c’era Joe Green che non è niente di meno che… il Presidente di FWD.us. Ovvero quello che detta la linea d’azione, quello che ha deciso di finanziare sponsor controversi, quello responsabile di ben due fughe di notizie nei primi venti giorni di vita della lobby, quello che da dieci anni sussurra nell’orecchio di Mark Zuckerberg la parola “politica”, quello a cui Mark Zuckerberg ha accordato la propria fiducia e quella di un’altra manciata di miliardari. Pandodaily non è per nulla tenero con lui, mettendo in dubbio non solo le sue qualità umane e carismatiche ma anche le sue stesse credenziali professionali e politiche (scoprendo per esempio che i vertici della “famosa” campagna di Kerry in Arizona e Nevada non ne hanno mai sentito parlare). Green ne esce dipinto come un pomposo 29enne senza spina dorsale che crede di conoscere come funziona il gioco di Washington ma in realtà non ne ha visto che le ombre proiettate sulla parete della caverna, uno che ama abusare del termine “macchiavellico” ma le cui strategie in realtà hanno fallito più o meno dovunque sia andato (il concetto di fallimento, da un certo livello in su, tende a diventare piuttosto inclusivo), uno che, soprattutto e più di tutto, non ha nessuna vera competenza per il ruolo che ricopre. Green viene in pratica ritratto come un Mr. Ripley (non a caso il pezzo si intitola The Talented Mr Green) che sa come conquistarsi la fiducia delle persone giuste ma non come farne uso, una maschera quasi tragica di inconsistenza e chiacchiere, una bolla speculativa a forma di persona.

È particolarmente crudele questa descrizione:

Green rattles off his credentials. “I started out working in political campaigns,” he says as he twists off the water’s bottle cap, “but ended up very accidentally in tech.” – Takes a swig of water – “I founded a company called Causes on Facebook” – finishes swallowing – “and then a company called NationBuilder, which builds software for political campaigns.” – Looks down – “So I’ve had this experience for about the last decade of being a political guy but working in tech.”

Tra le poche voci che si sono levate a difendere la strategia estremamente pragmatica e “più realista del re” impostata da Green per FWD.us c’è stata quella di Ali Noorani, il direttore del National Immigration Forum, uno che, insomma, il tema della riforma dell’immigrazione lo ha piuttosto a cuore. Quello che dice è interessante:

“At times the FWD.us message may not resonate with voters in Silicon Valley, but, that message resonates quite well with voters in Missouri Valley. And, it is the voters in Missouri Valley who are going to move the votes we need to secure bipartisan immigration reform”

E in fondo, probabilmente, la vera “colpa” di Green, quella per cui si è meritato tanto astio e livore dalle persone a cui vorrebbe giovare, dalla comunità a cui vorrebbe appartenere, è proprio questa fin dall’inizio, fin da quel bivio nella sua esistenza di ormai quasi dieci anni fa: in un attrito tra due mondi, tra la logica “move slow and consult” di Washington e quella “move fast and break things” di San Francisco, tra l’idealismo della Silicon e il pragmatismo della Missouri Valley, non ha mai davvero deciso dove stare. Ha cercato di porsi nel mezzo. Che è esattamente quello che fanno i lobbisti.