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Il diritto del rovescio a una mano

Ci eravamo abituati all’idea che fosse estinto. Un gesto antico, feticcio di un’epoca passata, ma cresce con Federer, Wawrinka, Gasquet, Dimitrov. Una forma di resistenza culturale e tecnica ammirevole che racconta una verità indiscutibile: non è solo un colpo, è uno stile di vita oltre che di gioco. È talento.

di Fabio Severo

Quando si comincia una scuola tennis spesso ci si trova con il dubbio di quale rovescio utilizzare, incerti tra l‘uso di una o due mani, l‘impatto da privilegiare tra piatto corde e pallina, il movimento di preparazione del colpo. Il dritto è più intuitivo, qualsiasi maldestro movimento di gambe o tardiva apertura con la racchetta porta comunque a un risultato accettabile, almeno per proseguire lo scambio. Sul rovescio si cade nell‘incertezza, presi tra il tennis fantasticato guardando per anni partite in televisione e la presunta naturale predisposizione del proprio corpo. A me ad esempio è stato suggerito di continuare con il rovescio a una mano, da me proposto come colpo prediletto, e del quale il mio maestro, dopo poche palline, ha decretato sposarsi bene con il modo in cui mi muovevo.

Fatto sta che ogni volta che mi trovo a giocare sento una forte ritrosia nell‘eseguire un colpo così poco intuitivo, fatto di tanti pezzi diversi che devono cadere al loro posto al momento giusto. Nel riscaldamento lo uso più liberamente, colpendo piatto senza remore e spesso riuscendo a infilarne qualcuno in sequenza. Appena comincia la partita però l‘esitazione cresce, mi ritrovo a fare quasi solo rovesci tagliati sotto la palla che riesco a mandare oltre la rete più regolarmente, per quanto li esegua in modo poco efficace. Le poche volte che colpisco a sventaglio con tutta la forza e la palla viaggia tesa e veloce mi riempio di orgoglio segreto, e resto lì a guardarla con il braccio in iperestensione, dimenticando di riprendere il centro del fondocampo e finendo col perdere il punto perché l‘avversario la rimanda troppo lontana da me.

Perché nel tennis reale il rovescio a una mano è ormai un gesto antico, feticcio di un’epoca passata al pari della pellicola fotografica e del vinile.

Nei circoli quasi tutti gli amatori sopra i trent‘anni usano il rovescio a una mano, perché fa parte del tennis con cui sono cresciuti e perché nessuno di loro si è mai chiesto seriamente come modellare i propri colpi. Quelli che giocano a due mani sono tutti più giovani e quasi sempre più forti, più impostati e con quel minimo senso della propria posizione in campo che manca agli avventori della domenica. Perché nel tennis reale il rovescio a una mano è ormai un gesto antico, feticcio di un‘epoca passata al pari della pellicola fotografica e del vinile. Una rarità nelle nuove generazioni di professionisti, tenuto in vita da una vecchia guardia sempre più ridotta, è lecito immaginare che tra quindici o vent‘anni non ci sarà più nessun Top 100 a utilizzarlo.

Attualmente nei primi dieci della classifica maschile ci sono solo due rappresentanti, Roger Federer e Stanislas Wawrinka, allargando ai primi trenta diventano dieci, uno su tre. Se guardiamo i primi 50 il totale cresce di molto poco, tredici, con un‘età media sopra i 28 anni. Nel singolare femminile ci sono solo due giocatrici tra le prime 50, Roberta Vinci e Carla Suárez Navarro, poco più in basso Francesca Schiavone, che nel 2010 ha vinto il Roland Garros. Nel 2013 proprio a Parigi sembrava che il vecchio gioco si stesse risvegliando, con la metà dei giocatori arrivati agli ottavi maschili dotati di rovescio a una mano. Ma neanche uno ha raggiunto le semifinali, e poche settimane dopo a Wimbledon la tendenza è stata confermata: per la prima volta in assoluto nessuno tra i giocatori arrivati ai quarti femminile e maschile usava il rovescio a una mano.

Come è accaduto che anche nell’ultimo bastione del gioco creativo il tennis si sia adattato alla compressione tattica e al crescente agonismo chiesto dallo sport contemporaneo? Il problema si riassume nella trinità “racchette, palline e superfici”: i materiali dei telai sono sempre più leggeri e con grandi piatti corde, che permettono di colpire con ampio margine di errore e facilità nel dare forza al colpo, anche grazie alle nuove corde sintetiche; le palline sono state diversificate per velocizzare il gioco sulle superfici lente ma non esasperare quelle già veloci; infine le stesse superfici sono state uniformate il più possibile, producendo uno stile di gioco basato sul controllo dello scambio da fondo e la progressiva scomparsa dell‘attacco e del gioco di volo. Leggenda vuole che la partita che avrebbe cambiato il tennis sia stata la finale di Wimbledon del 1994, vinta da Pete Sampras contro Goran Ivanisevic, durante la quale la potenza dei servizi e le continue discese a rete hanno prodotto solo tre scambi arrivati a cinque colpi. Da lì sarebbe cominciato l‘addomesticamento dei materiali, e in breve le racchette da bisturi sarebbero diventate clave molto efficienti.

Nel mezzo di questa ristrutturazione dello spettacolo del tennis la vittima è stata proprio il rovescio a una mano, privato delle condizioni ideali in cui prosperare: con i nuovi telai e le rotazioni esasperate i colpi viaggiano alti sopra la rete per poi rimbalzare pesanti fin sopra le spalle dei giocatori, che si trovano in difficoltà nel ribattere con una sola mano su traiettorie così ripide; molto meglio colpire usando tutte e due le mani, più semplice salire sopra la pallina e dare forza al proprio colpo. Non a caso c‘è chi lo descrive come un‘altra forma di dritto, mentre il colpo a una mano risente molto del timing dell‘esecuzione, chiede un posizionamento più elaborato, più passi da fare e preparazione del gesto. Poi magari si può anche fare tutto bene, ma ci si ritrova con la propria accelerazione depotenziata dall‘impatto a terra che la fa risalire rallentata, persino sull‘erba inglese, da anni ormai seminata in modo da evitare rimbalzi irregolari.

Ma il rovescio a una mano non è solo un colpo, è un corredo da cui scegliere fra tante soluzioni: può viaggiare a pochi centimetri sopra la rete togliendo il tempo all‘avversario oppure cadere profondo e arrotato nell‘altra metà campo, lo si può tagliare sotto per creare angoli bassi, piegare le ginocchia dell‘avversario e scendere a rete. Disinnescato da superfici che si somigliano tutte, il colpo rischia di diventare un inutile abito elegante indossato nell‘occasione sbagliata, troppo vistoso e troppo leggero. Ancora esistono giocatori estremamente competitivi che scelgono questa strada, ma sono pochi e le loro strategie si assottigliano sempre di più, abbandonando quasi del tutto l‘attacco a rete e riducendo le variazioni nel continuo timore di perdere profondità nello scambio.

Nelle accademie nessuno spinge i ragazzini a praticare il rovescio tradizionale: per un bambino di sette o otto anni un campo da tennis è enorme, e se il primo obiettivo è rimandare la palla più forte possibile è inevitabile che quasi tutti i futuri tennisti useranno il rovescio a due mani, per ovviare alla sproporzione tra il proprio corpo e la superficie di gioco. L‘anno scorso la Federazione Internazionale di Tennis ha introdotto una campagna chiamata Play and Stay, dove hanno cominciato a utilizzare campi ridotti e palle più morbide per creare le condizioni in cui a qualsiasi livello e fascia di età si possa avere un‘esperienza di gioco completa. Forse in questo modo, e senza la costrizione a vincere subito, un bambino potrà essere educato a sviluppare i propri gesti non allo scopo di colpire più forte ma per trovare l‘esecuzione migliore, scoprire i diversi modi di giocare, unire alla forza anche un po‘ di leggerezza.

 

Nell’immagine in evidenza, Roger Federer durante la finale di Indian Wells nel 2014 contro Djokovic.
Nel testo, Pete Sampras durante la finale della Compaq Grand Slam Cup a Monaco, nel 1994.

 

Dal numero 1 di Undici