Attualità

Il colore arancione

di Davide Coppo

Pisapia, con i concertoni, dà un colpo al cerchio e uno alla botte. L’evento “Milano libera tutti” del dieci maggio in stazione Centrale era quello “alternativo”, sponsorizzato da Rockit, con artisti come Afterhours, Dente, Ministri e interventi di Pierpaolo Capovilla (frontman de Il Teatro degli Orrori) oltre a quello, non proprio alternative, di Roy Paci e a quello, purtroppo al limite del delirium tremens, di Don Gallo. Per venerdì sera ha voluto, come è naturale, chiudere con qualcosa di più nazionalpopolare. E quindi in scaletta Elio e le Storie Tese, Giuliano Palma, interventi di Lella Costa, Cornacchione, Claudio Bisio che presenta. L’arcobaleno sopra il Duomo che interrompe la pioggia dà al tutto un tono romantico-cinematografico (sinceramente, eccessivo).

Difficile scrivere di questo concerto/evento, molto. Un po’ perché, una volta arrivato, la piazza era già stracolma. Ho approfittato della densità non eccessiva dei gruppetti a bordo piazza, ma una volta raggiunto il perimetro immaginario del campo visivo del palco è stato impossibile avventurarsi oltre. Un po’ perché, al di là dei normali cliché presenti in eventi di questo tipo, non c’è stato nulla di particolarmente grottesco o fuori luogo, a differenza del giorno precedente. Oltretutto ero di pessimo umore per la pioggia (preceduta da grandine) che ha colpito Milano fino a metà serata. Nessun problema per nessuno, però: chiunque era armato di ombrello, e il vento che cambia non se lo sarebbero persi per nulla al mondo. Ecco, lo slogan. Bello all’inizio, poi un po’ ripetitivo. Non che non si dica nient’altro, è che da motto è diventato luogo comune. Come “non ci sono più le mezze stagioni”, o, in politica, quel “parole gravissime dal Premier” che segue ogni sparata di Berlusconi (copyright Finocchiaro). Insomma, molti dei discorsi origliati tra gruppi di amici e amiche di ogni età presentavano come caratteristica comune un “questa volta il vento cambia” o varianti come “si vede già che il vento è cambiato” o ancora “guarda questa piazza, il vento sta cambiando”. Come in ogni luogo comune, un fondo di verità c’è.

Piazza Duomo era – ovviamente – piena di ragazzi che corrispondevano all’identikit del “frequentatore di concertone nazionalpopolare”, ma c’erano anche altri due gruppi, “categorie” (perdonate l’espressione) presenti in buon numero, e piuttosto inaspettatamente per il sottoscritto (non per la presenza, ma per il volume della stessa): hipster e borghesia medio-alta. Nell’immaginario comune, e anche nel mio, l’hipster non è mai stato attratto dalla politica. Se ne fregava totalmente. D’altronde la politica è l’argomento uncool per eccellenza. Ma la partecipazione hipster (anche dai social network, andate a controllare che tanto di amici così ne hanno tutti) al “movimento Pisapia” è stata sorprendente. Forse non una vera passione politica ma un seguire l’onda, o un rigurgito anti-Morattiano. E infatti i discorsi che ho origliato da taluni personaggi rasentavano l’imbecillità e il qualunquismo più estremo. L’altro gruppo, dicevo, è la borghesia medio-alta. Soprattutto nella fascia cinquanta-sessanta. Ora, che Pisapia fosse un estremista non l’ho mai creduto. Mi sono stupito quando ha cominciato a circolare la sensazione – ai tempi delle primarie – che fosse il candidato “preferito” dei salotti milanesi. Se ne è scritto molto, d’altronde, e sia il primo turno sia l’esperienza diretta sul luogo l’hanno confermato a tutti gli effetti. Signore e mariti vestiti di lino e mocassino, ingioiellate il giusto e abbronzate chi più, chi meno, tutte con un accessorio arancione. I palloncini li lasciano ai “giovani”, loro preferiscono un capo d’abbigliamento. Sciarpa di seta è quella che tira di più, ma anche il mocassino stesso, la giacca, il pantalone, il foulard. C’è chi non vuole farsi notare troppo con orecchini di corallo e cinturino dell’orologio. E sembravano divertirsi, tutti, davvero. Defilati, sia chiaro, ma felici di essere in un certo posto in un certo momento.

La piazza era stracolma, dicevo. Difficile, anzi sbagliato interpretare questo come un segnale elettorale. La piazza della Moratti era semivuota, certo, ma il centrodestra, soprattutto ultimamente, non si è mai distinto per le manifestazioni o le piazze piene. Eppure, in teoria, sarebbe ancora il primo partito d’Italia. Ma soprattutto al concertone ci vanno tutti. Ma proprio tutti. L’avevamo visto con Gigi D’Alessio e gente arrivata da tutta Italia, lo confermano gli Elio e le Storie Tese e gente venuta da tutta la Lombardia, e forse anche oltre. Ma soprattutto, almeno il 30% della gente che componeva quella folla non aveva ancora diritto di voto, in termini anagrafici. Gli ultras pisapini più accaniti erano i liceali, abbarbicati sulla statua equestre di Vittorio Emanuele II, saltellanti e più arancioni di tutti. Con annessi tutti i cliché “vecchia sinistra da centro sociale”, ma questo è tipico dei liceali, così come è tipico dell’Italia. È anche questa una cosa su cui si vedrà se il famigerato vento cambierà davvero.

Per quanto riguarda la cronaca dell’evento non dirò granché, se non che gli eventi di questo tipo non mi sono mai piaciuti e probabilmente non mi piaceranno mai. Ma non è un problema, mi rendo benissimo conto della loro necessità mediatica in campagna elettorale. Cornacchione non mi è mai piaciuto, Bisio nemmeno, né i gruppi in cartello. Tuttavia, pioggia a parte, la serata è stata piacevole. “Serenità” mi sembra la parola più adatta a descrivere il sentimento comune dell’eterogenea piazza. Una certa sicurezza del risultato elettorale, soprattutto. Ammetto di essere arrivato con un ghigno e la volontà di trovare ed evidenziare i mille cliché della sinistra italiana. Invece di bandiere rosse con la falce&martello ce n’era solo una, mi pare. Di antiberlusconismo non c’era l’ombra (e probabilmente questa è la caratteristica migliore di tutta la campagna di Pisapia). E i dialoghi di un gruppo di trentenni mi hanno convinto a demordere dal mio intento iniziale. Indossavano una maglietta bianca con il logo arancione Pisapia sindaco X Milano, e, avvicinandomi, ho chiaramente sentito che avevano tutti voltato Boeri alle primarie. E oggi eccoli lì, con palloncini e foulard e magliette. Arancioni. Mi ha stupito anche la diffusione del colore-simbolo (anche se Bisio indossava una rischiosa camicia rossa), probabilmente non preventivato all’inizio della campagna. È un colore strano, l’arancione, ma sicuramente meglio del viola, diventato oramai sinonimo di sconfitta. Anche il discorso di Pisapia non è stato granché originale, tra citazioni furbette di Don Milani e ringraziamenti continui per tutti. Ma va bene così. Era visibilmente emozionato, l’avvocato. Dalla speranza della vittoria quasi acquisita, dall’ennesima piazza piena di ragazzi e di coetanei, compagni d’età e di classe sociale. A proposito: la cosa più bella di tutta la serata, senza dubbio, è stata una signora, evidentemente iscritta a quella borghesia di cui si parlava sopra. Parlava con un’amica confessandole che quei pantaloni arancioni, lei, non li mettava dai primi anni novanta. Pensava che non le entrassero più.
Una certezza, se non altro, mi è rimasta: la speranza che l’arancione non diventi di moda, anche se gli auguro miglior futuro rispetto al viola.