Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a maggio in redazione.

Martin Amis, La storia da dentro (Einaudi)
Traduzione di Gaspare Bona
In un mese in cui sono usciti un numero eccessivo di libri di scrittori importanti (McCarthy, Cusk, e non ultimo Houellebecq con il suo “instant book”), la morte di Martin Amis ha catalizzato tutte le energie e le attenzioni letterarie possibili, almeno per quanto mi riguarda. Caso ha voluto che il suo ultimo romanzo, uscito nel 2020 in edizione originale, sia arrivato in Italia, come al solito da Einaudi, un giorno dopo la sua morte, e considerando che si tratta di un’autobiografia, per quanto almeno in lingua inglese sotto la dicitura di “romanzo” (il titolo sarebbe Inside story – A novel, che in italiano è diventato La storia da dentro) è stato come avere in mano il testamento letterario e il senso della fine (per usare il titolo di un altro autore, Julian Barnes, che ha avuto con Amis rapporti quanto meno intensi) di questo grande, grandissimo scrittore. La storia da dentro è innanzitutto un libro scritto in modo divino e questo è già curativo rispetto alla mole di pagine che ci siamo abituati a leggere, noi che dobbiamo leggere per lavoro e non per piacere, e che quindi affoghiamo nei “così e così”, “non c’è male”, “carino”, etc., ed è una scrittura che non sta semplicemente lì a dirti quanto è bella, quella di Amis, ma la cui bellezza serve a catturarti, a finire dentro il libro (dentro la storia del libro), noi che dobbiamo leggere per lavoro e siamo abituati alle mezze pagine, più un’occhiata al telefono, una sbirciatina alla notifica, “aggiorno la home del Corriere e poi riprendo” etc. No, questo è un libro con cui si può smettere di distrarsi e non solo per la bellezza dello stile ma anche perché racconta una vita e delle vite davvero eccezionali, piene di incontri, di idee, di scontri, di scambi, di sesso, di eccessi e di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, che è un po’ il modo in cui romanticamente, ingenuamente ci si immagina sia o debba essere la vita di uno scrittore, prima di venire a patti con l’esistenza e la conoscenza dello scrittore impiegatizio, amichettista, completamente privo di brillantezza, conformista e in definitiva inutile. La storia da dentro, insomma, è un libro che cura dai fastidi e dalle frustrazioni e dai dispiaceri provocati dal vivere in un clima culturale come quello italiano, o forse contemporaneo tout court. Cura mentre il suo autore è appena morto di tumore, e questo è crudele certo. Ma se si vuole trovare un senso a questa contraddizione, la si trova già nel prologo, quando in una pagina particolarmente luminosa, Amis mettere a confronto la vita (e la morte) con la letteratura: «Ormai lo conoscerai anche tu, e ne sarai sicuramente stato tentato: il grande sottogeneri che oggi viene definito life-writing. Contiene tutto, da Proust agli annunci personali, da Figli e amanti ai racconti di viaggio, da Ma tu mi vedi grassa? a… Stavo per dire alla rubrica di astrologia di Mystic Meg; ma almeno lei si prende il disturbo di inventare tutto. Per certi versi sono eccitato dalla sfida, ma per un romanziere il guaio del life-writing è che la vita ha una certa qualità o proprietà che è nemica della finzione. La vita è priva di forma, non va da nessuna parte, non si incentra intorno a nulla, non è coerente. Artisticamente è morta. La vita è morta. Solo artisticamente. Più terra terra, in termini materiali e realistici, la vita è raggiante e piena di energia, e se ne può solo parlare bene. Poi però la vita finisce, mentre l’arte dura almeno un pochino di più». (Cristiano de Majo)

Mohamed Mbougar Sarr, Il silenzio del coro (Edizioni E/O)
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Nel mondo del vino c’è questa tradizione o gioco che si chiama “cieca”. Si tratta di coprire una bottiglia, e poi iniziare la degustazione con l’obiettivo di indovinare il vitigno, il terroir, e se si è bravi davvero anche il produttore. Mohamed Mbougar Sarr è nato nel 1990 in Senegal, in tutti i suoi libri l’Africa (non solo il Senegal) è un elemento centrale, eppure se avessi fatto una lettura “cieca” con il suo Il silenzio del coro, avrei potuto dire: questo libro l’ha scritto Mathias Énard. Énard è invece un francese del 1971 nato a pochi chilometri da Poitiers, un vecchio flaneur e accademico che ha scritto libri tra i più colti e letterari che ci siano nella letteratura europea contemporanea. È innanzitutto una questione di stile: come Énard, Sarr privilegia una scrittura per niente asciutta, in cui il ritmo è sacrificato sull’altare del ragionamento, del contenuto, degli aggettivi. È una cosa che solitamente non mi piace, o meglio, non fa parte della mia dieta letteraria. Eppure tutto, in Sarr, mi fa procedere nella lettura, e mi coinvolge, e non mi infastidisce. Perché questi dialoghi che suonano come un romanzo dell’Ottocento, o come scambi teatrali, parlano di temi per niente lirici: in questo caso, come si sta d’estate in una baracca in Sicilia dopo aver attraversato il Mediterraneo su un gommone partito dalla Libia. In secondo luogo, i due sono accomunati dai temi: entrambi cercano, nel particolare, l’eco di qualcosa di più grande. Il male, la guerra, cosa succede quando mondi lontanissimi si incontrano. Il silenzio del coro è, appunto, un romanzo corale, in cui succede una cosa che conosciamo bene: settantadue uomini arrivano in Sicilia, partiti dalla Libia, in cerca di un futuro migliore. Vengono parcheggiati momentaneamente in un piccolo paese dell’entroterra, la cui vita è messa sottosopra. Sarr è bravo nell’utilizzare i capitoli come un panottico di punti di vista dei vari attori coinvolti: il prete; i migranti; il migrante ormai “italiano” da anni, diventato parte dell’associazione di accoglienza; i volontari dell’associazione; il gruppo di oppositori all’immigrazione, non per forza “fascisti”; e poi pezzi di diario, articoli di giornale, monologhi. Sarr, così verboso nella scrittura, è molto più tagliente nel trattare la materia. Non mostra i “cattivi” come mostri, ma parla apertamente della paura dei locali di poter perdere una loro identità. Allo stesso tempo, è consapevole del fatto che questo tipo di immigrazione porterà più dolore che altro a chi la compie – a chi riesce soprattutto a sopravvivere. La tragedia che mette in scena, per tutti questi motivi, è coinvolgente dalla prima all’ultima pagina. E sembra che quasi nessuno, oggi, sappia trattare le luci e le ombre della migrazione con questa complessità. (Davide Coppo)

Jane Campbell, Spazzolare il gatto (Atlantide)
Traduzione di Federica Bigotti
Una delle cose che, da Millennial, invidio alle persone della Gen Z è il coraggio e la sicurezza con cui sanno riconoscere e definire i loro desideri sessuali. Se ci sono o non ci sono, nei confronti di chi, con quali kink, in quale categoria rientrano (ad esempio, ci sono almeno cinque modi diversi di essere asessuali). La cosa che ho imparato in 36 anni di vita, però, è che per certe persone il percorso che porta a comprendere i propri desideri è più tortuoso, per alcune è addirittura un’esplorazione che non finisce mai, e la splendida raccolta di racconti di Jane Campbell conferma la mia scoperta. Comprendere i propri desideri è un po’ come trovare la propria voce nella scrittura: per farlo bisogna togliersi di dosso tutti gli strati che soffocano la libertà, fatti di imposizioni sociali, autosabotaggio, abitudini, senso di colpa, paura di non essere accettati, insicurezza, confronto con gli altri. È il processo che attraversano le 13 donne più o meno ottantenni di questi racconti. Ed è il processo che deve aver attraversato anche l’autrice per scriverli: anche lei ha ottant’anni, e questa è la sua prima opera pubblicata (anche se lei si definisce «una scrittrice compulsiva»: testi brevi, poesie, articoli, ha sempre scritto per se stessa). È una bellissima signora bionda che vive alle Bermuda (nata in Inghilterra, cresciuta in Zambia, studiato a Cape Town). Prima che pubblicasse il libro, il suo Twitter era un bombardamento di foto di spiagge e mari cristallini. Ora, giustamente, ricondivide soprattutto le ottime recensioni alla sua raccolta. Quando quelli della London Review of Books hanno ricevuto il racconto del titolo, “Spazzolare il gatto”, l’hanno talmente amato che l’hanno pubblicato anche se, normalmente, non pubblicano mai fiction. Poi sono arrivati gli altri 12. Sono racconti erotici, super sensuali, ma non sono per niente viscidi, anzi, sono molto asciutti, pulitissimi. Come scrive Justin Taylor sul New York Times «anche se le sue storie sono abbastanza esplicite da farti avvampare mentre leggi, Campbell mantiene un tono freddo e autoritario che esalta l’effetto della sua prosa limpida». Mi dispiace cara Sally Rooney, ma Jane Campbell è appena diventata la mia nuova scrittrice di sesso preferita. (Clara Mazzoleni)

Luca Scarlini, La vita è terribile e divertente. Vanessa Bell (Electa)
Oilà, la collana curata da Chiara Alessi per Electa, è dedicata alle donne eccezionali del Novecento. Donne che si sono distinte nei loro campi d’elezione e che con le loro opere, spesso anche con le loro vite, hanno definito l’epoca che hanno vissuto. “Oilà” riprende una strofa della canzone popolare socialista “La lega” diventata poi il saluto delle mondine ed è qui usato come un saluto, un’esclamazione, alle donne e al loro lavoro. In un formato piccolo ed esteticamente perfetto (il progetto grafico è di Studio Sonnoli), Oilà ripercorre allora un catalogo di storie imperdibili senza mai cadere nella celebrazione retorica (empowerment, come la chiamiamo oggi), delineandosi invece come una catena di piccole grandi perle che aprono le porte ai mondi che quelle donne hanno esplorato. Come quello dell’artista, grafica e arredatrice Vanessa Bell, le cui biografie non possono mai esimersi dal definirla la “sorella di” – Virginia Woolf, in questo caso – verso la quale ha esercitato per tutta la vita il ruolo di guardiana, come lo fu anche per i suoi uomini, che spesso la delusero. Animatrice di infiniti tè, colazioni e salotti culturali, Vanessa Bell è tanto appassionata alla vita quanto Virginia Woolf ne è terrorizzata. Vive la sua arte con una leggerezza raffinata che non la farà mai cadere nel tranello di erigere monumenti a sé stessa. Al contrario, Vanessa Bell è «per gli altri», ci ricorda Luca Scarlini, una condizione non semplice che lei sembra aver vissuto con la naturalezza che viene dal talento sì, ma anche dall’essersi trovata, a vent’anni, ad accudire l’intera famiglia (padre compreso) dopo la scomparsa della madre. Questo saggio permette di riscoprirne l’eredità artistica grattando via quell’etichetta fastidiosa di “ape regina”, socialite, che per lungo tempo le è stata appiccicata e ha finito per limitarla anche dopo la morte, riconoscendola finalmente per il suo lavoro. Una cosa che Oilà promette di fare molto bene. (Silvia Schirinzi)

Cesare Alemanni, La signora delle merci (Luiss University Press)
Durante e dopo la pandemia, e poi di nuovo nei primi mesi successivi all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tutti abbiamo espresso la nostra opinione sulla crisi della supply chain. Costi aumentati, tempi di consegna allungati, una difficoltà nel reperimento di certe merci e alcune materie prime che non si vedeva dai momenti peggiori del Novecento. Come tutti, anche io ho espresso la mia opinione in quei momenti e su quei temi. Come tutti, anche io l’ho espressa senza sapere quasi nulla di supply chain. Ma quanto potrà essere difficile, oggi, far arrivare le cose da un punto A a un punto B, mi chiedevo. La signora delle merci di Cesare Alemanni risponde proprio a questa domanda. E la risposta è: è difficile quanto costruire e mantenere e rafforzare una civiltà. Se è vero che la logistica può essere riassunta in poche parole – un’essenzialità probabilmente ereditata dall’origine militare della disciplina – è vero anche che le sue implicazioni tendono quasi all’infinito per ampiezza e profondità, nel tempo e nello spazio. Nel libro di Alemanni la logistica viene raccontata come un immenso reticolo stradale che collega la filosofia presocratica all’espansionismo economico di Xi Jinping, come un lunghissimo ponte nel tempo che unisce l’impero romano e l’esplorazione spaziale, la Compagnia delle Indie e Walmart, Adam Smith e Jeff Bezos, la “logisticque” basata sulla ruota e le spedizioni robotizzate. Scoprendo la storia di come gli esseri umani si siano ingegnati per millenni nel tentativo di ridurre tempi, costi e sforzi di far arrivare le cose da un punto A a un punto B, si riscopre la storia delle civiltà (e di alcune delle figure più inquietanti e allo stesso tempo rilevanti della stessa. Le mie preferite, tra quelle citate nel libro: gli zielverkopers, i venditori di anime olandesi, anche solo per questo nome ai limiti del romanzo fantasy). E, soprattutto, alla fine del libro si ha la consapevolezza di come la storia del progresso corrisponda quasi sempre alla storia della logistica. E, quindi, di come i limiti del primo corrispondano ai limiti della seconda. Resta, alla fine della lettura, una domanda: la storia finisce nell’ultimo luogo in cui riusciremo a portare le cose? E quanto ci siamo già vicini? (Francesco Gerardi)