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Cormac McCarthy, la scrittura totale

Il passeggero, il nuovo romanzo dello scrittore americano, prima metà di un'opera che si completerà a settembre con Stella Maris, è una storia di orrori, tragedie e bellezza che lo conferma tra i grandi della letteratura americana.

di Francesco Longo

Si può leggere Cormac McCarthy anche solo per il gusto di incontrare frasi come: «La torre si ergeva nella notte ventosa e nelle luci sovrastanti gli uccelli tracciavano cerchi silenziosi e resistevano al vento e viravano, immediatamente risucchiati dalle tenebre». Oppure si può scegliere di leggerlo perché in questo suo ultimo romanzo, Il passeggero (Einaudi), assembla rapidi quadri che restano impressi nella mente anche a libro terminato: «Quando la mattina dopo scese di sotto erano le dieci e in piedi al bancone c’era gente in pigiama e pantofole che beveva Bloody Mary leggendo il giornale della domenica». Spesso le scene durano un lampo, il tempo di una battuta di dialogo, frasi prive di risposte che colgono uno stile di vita: «Pensavo che potremmo spolpare un paio di crostacei. E innaffiarli con un Montrachet ghiacciato». Molta vita americana e tanto paesaggio americano, insomma, a volte fusi tra loro: «Vendette un’altra dozzina di monete all’altro negozio di numismatica e quella sera comprò in contanti una Dodge Charger 1968 nera con un motore Hemi 426 e seimila chilometri percorsi (…) comprò una Smith & Weston calibro 38 di acciaio inossidabile con canna da dieci centimetri e per le due settimane che seguirono attraversò il Midwest vendendo monete». Per parlare dell’ultimo libro di McCarthy, arrivato dopo un silenzio lungo sedici anni (La strada è del 2007), ci si potrebbe benissimo fermare qui. Andrebbe aggiunto solo che Il passeggero è parte di una diade che si conclude con Stella Maris, in uscita in Italia il prossimo settembre.

Per affrontare il libro – un libro tutto di scrittura e di potenza evocativa, cupo e oscuro, non certo un libro di trama – è forse utile sapere che negli ultimi anni Cormac McCarthy ha avuto l’abitudine di frequentare il Santa Fe Institute, dove fino a qualche tempo fa arrivava con il suo pick up Ford rosso scassato, un centro dove conversano tra loro premi Nobel e in cui lui è l’unico scrittore. Un club di geni che discettano soprattutto di matematica, astronomia, fisica e di massimi sistemi. È utile saperlo per prepararsi, perché ogni tanto, in questo romanzo, sbucano fuori Heisenberg, Einstein, Schopenhauer, l’opinione di Kant sulla meccanica quantistica e se ci si distrae durante la lettura ci si può ritrovare all’improvviso a leggere di particelle e bosoni e di considerazioni sulla storia della fisica («La storia della fisica è piena di gente che ha lasciato perdere e si è messa a fare altro»).

La letteratura di McCarthy è un’opera di libri ormai considerati classici: Meridiano di sangue, la Trilogia della frontiera (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura), Non è un paese per vecchi, Suttree. È entrato nel canone dalla porta principale, quella di Harold Bloom. Per Bloom il suo capolavoro è Meridiano di sangue, che inserisce McCarthy nell’olimpo dei giganti americani, insieme a Melville e Faulkner (Moby Dick e Mentre morivo). Al primo approccio, Bloom fatica a leggere Meridiano di sangue, respinto da troppa violenza, poi non smetterà più di proporlo e commentarlo a lezione, di interpretarlo, di rileggerlo all’infinito, e di arrivare a considerarlo il punto più alto del novecento americano, il libro con il quale neanche McCarthy stesso avrebbe più potuto rivaleggiare («Il western che mette la parola fine a tutti i western», stando alla celebre definizione data da David Foster Wallace). Bloom dava questo peso a McCarthy pur stravedendo per Pynchon, DeLillo e Philip Roth (Il teatro di Sabbath e Pastorale americana). Morto Philip Roth, dei tre grandi vecchi della letteratura americana – McCarthy, DeLillo e Pynchon – McCarthy condivide con DeLillo l’attitudine a vivere distante dal presente (entrambi non hanno indirizzo email né telefono cellulare) e di avere più familiarità con il futuro: entrambi sono considerati in diverso modo profetici, proiettati in avanti. Con Pynchon condivide invece la ritrosia rispetto alla società letteraria, e alla società in sé. Pynchon ha scelto la via radicale sulla scia di Salinger, McCarthy non dà praticamente interviste, non va a ritirare i premi che gli vengono assegnati.

A quasi novant’anni ha scritto un libro difficile, che disorienta il lettore, ripagato solo dal ritmo della scrittura che si abbatte sulle pagine come un diluvio. Bobby Western, bello e crudo, è un sommozzatore. Quando si apre la storia fa indagini su un aereo sprofondato nell’oceano, a bordo sono morti tutti ma manca un passeggero. Si avviano atmosfere da thriller che lo riguardano da vicino («In piedi davanti alla porta c’erano due uomini»). Bobby è innamorato della sorella minore, Alicia, morta dieci anni prima («È innamorato di sua sorella e sua sorella è morta»). Il padre di Bobby e Alicia «di lavoro progettava e fabbricava enormi bombe destinate a incenerire intere città di innocenti». È proprio Alicia, bellissima, tanto intelligente quanto sofferente, al centro del secondo volume, Stella Maris. La bellezza di Alicia è la bellezza che cerca McCarthy quando scrive, una bellezza metafisica, che pone chi la osserva sull’orlo di un burrone, talmente intensa e conturbante da arrivare a confondersi con l’orrore, una bellezza inseparabile da un destino tragico. La bellezza di tutti i libri di Cormac McCarthy, ipnotica e respingente: «La bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie. La perdita di una grande bellezza può mettere in ginocchio un’intera nazione. Nient’altro può farlo. Elena. O Marilyn».