Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a marzo in redazione.

di Studio

Alessandro Giammei, Cose da maschi (Einaudi)
Cose da maschi è già da tempo una bella newsletter su Domani, nella quale Alessandro Giammei analizza un fatto d’attualità o un fenomeno di costume concentrandosi sulle dinamiche di genere o, più nello specifico, sulle mistificazioni che queste finiscono per innescare nello scoordinato dibattito pubblico che le circonda. Ora Cose da maschi è anche un libro, edito da Einaudi, in cui l’autore analizza in brevi saggi venticinque “caratteristiche” cosiddette “maschili”, caratteristiche che spaziano dagli attributi fisici a elementi del guardaroba fino a tropi letterari antichissimi e recenti, isolandole nella loro unicità e dimostrandone, volta per volta, i tanti significati che hanno assunto nel corso tempo, significati sovente opposti all’idea che di quello specifico oggetto abbiamo, abbiamo avuto e probabilmente avremo. Con una formula di saggistica svelta, ricercata e pop allo stesso tempo, che ancora troppo poco spesso si frequenta nel nostro Paese ma che è un piacere per la lettura, Giammei accompagna i suoi lettori in un interessante e dotto viaggio che intende ri-costruire l’idea di maschilità dominante tirando via molti di quegli archetipi che le sono stati appiccicati addosso, o quantomeno fornire degli strumenti per metterla in discussione e, idealmente, ripensarla daccapo. La maschilità dovrebbe essere “balneabile”, si legge all’inizio di quel viaggio, ovvero attraversabile, mutevole e, perché no, votata a una certa rilassatezza dei costumi. Dallo scudo all’orecchino, dalla cravatta al rasoio, dai cappelli alla spada e alla pistola, Giammei, che insegna Letteratura italiana all’Università di Yale e sa quando tirare fuori Ariosto (Ruggiero in particolare) per ribaltare quella certa idea di maschio che sempre avevamo creduto un po’ vera, ci ricorda come i maschi, che siano bambini, ragazzi o uomini maturi, siano molto più sfaccettati, liquidi e multiformi di quanto troppo spesso non concediamo loro di essere. (Silvia Schirinzi)

Dario Ferrari, La ricreazione è finita (Sellerio)
A parte D’Orrico che lo ha definito «un capolavoro», che non è proprio una qualifica da romanzo in sordina, La ricreazione è finita è un romanzo italiano, già vecchio di qualche mese, che mi sembra abbia iniziato a girare con dei tempi tutti suoi, poco social e molto fuori dalla bolla, per capirci. Ne ho sentito parlare da qualcuno, che non mi ricordo neanche più chi sia, e mi sono incuriosito. Trattasi di uno strano incrocio di generi. Il primo, anche in ordine di lettura, è il romanzo universitario, non nel senso di college novel, ma proprio di romanzo sull’accademia, sulle dinamiche della carriera, dei dottorati, degli assegni di ricerca, un genere con enormi spunti nella realtà italiana ma invece pochissimo praticato, di cui ricordo però una perla come l’indimenticabile Ad avere occhi per vedere, opera prima e unica dello scrittore napoletano Leonardo Pica Ciamarra. La tragicomica vena universitaria, con il protagonista che vince un dottorato in materie letterarie quasi per sbaglio, si incrocia poi con il romanzo sul terrorismo – genere con molta più tradizione dalle nostre parti – perché l’oggetto di studio del dottorando Marcello è l’opera di Tito Sella, terrorista rosso in azione a Viareggio, prima carcerato e poi scrittore persino molto stimato e un po’ studiato. A questo punto, il romanzo di Dario Ferrari acquista una terza tonalità, che è quella del romanzo complottista meta-letterario alla Pendolo di Foucault, un po’ thriller, un po’ esistenzialismo strafottente. E il tutto è tenuto insieme da un’atmosfera e da una voce che sembra seguire consapevolmente le tracce del romanzo di provincia italiano (quello che va da Tondelli e arriva fino a Paolo Nori) ed insomma detta così sembra un po’ un pastrocchio. Invece miracolosamente tutto si tiene e La ricreazione è finita, anche se forse non è un capolavoro, è un libro che si legge a meraviglia, con un divertimento e una autenticità – parola che può essere interpretata malissimo, mi rendo conto – che davvero suonano sorprendenti nell’Italia letteraria del 2023. (Cristiano de Majo)

Adam Mars-Jones, Box Hill (Orville Press)
Traduzione di Matteo Codignola
Sulla copertina di Box Hill di Adam Mars-Jones c’è l’illustrazione di una vecchia moto degli anni Trenta-Quaranta, e la sinossi in seconda di copertina si sforza molto di fare la misteriosa. La verità è che in questo piccolo libro folgorante, per dirla con un po’ meno understatement, l’ingrediente fondamentale è la sottomissione. Box Hill è il primo titolo sfornato da Orville Press, la nuova casa editrice diretta da Matteo Codignola dopo la dipartita da Adelphi, e di quell’avventura decennale però ha ereditato qualcosa. A parte l’understatement. Il coraggio e l’originalità: quello di Adam Mars-Jones è un libro elegante e colto (in Inghilterra non a caso pubblicato dalla raffinatissima Fitzcarraldo) e anche tenero, ma pieno di cazzi, pompini, anche violenza e promiscuità. È la storia di un ragazzino che incontra un ragazzone (entrambi sono dei biker vestiti di pelle nell’Inghilterra degli anni ’70) e inizia con lui una storia di sesso e sottomissione. Uno con il guinzaglio al collo, l’altro con il guinzaglio in mano. Metaforicamente, ma non solo. Uno che ordina, l’altro non può che obbedire. È amore? Questa è una domanda che resta in sospeso anche decenni dopo quel primo incontro, ma non c’è bisogno di trovare una risposta, in realtà. Intorno a questa storia c’è molta comicità, e altrettanta tragedia. Si legge tutto d’un fiato e con il piacere di certi libri preziosi e molto inglesi: poche pagine, tutte potenti. Si riconosce dappertutto il tocco felice di Codignola editore, editor e traduttore: dalla scelta dell’argomento, “scandaloso” (uso le virgolette perché lo so, che non dovrebbe esserlo) ma allo stesso tempo elegante, alla voce del protagonista, che ha talvolta l’eco di altre scoperte che fecero la storia della letteratura e dell’editoria contemporanea: penso a Mordecai Richler, soprattutto, augurandomi che il volo di Orville possa seguire simili traiettorie felici. (Davide Coppo)

Quentin Tarantino, Cinema Speculation (La Nave di Teseo)
Traduzione di Alberto Pezzotta
Fino ad ora, non ero mai riuscito a trovare un’immagine che mi aiutasse a spiegare l’immenso archivio di aneddotica cinematografica che è la mente di Quentin Tarantino. Adesso, finalmente, quell’immagine ce l’ho: per il cinema, Tarantino è ChatGPT, un’intelligenza capace di rispondere a qualsiasi interrogazione attingendo a uno scibile talmente vasto da sconfinare oltre l’umano e in territori artificiali. Leggere Cinema Speculation è come avere a che fare con un’AI che acquisisce senzienza e sceglie la petulanza e predilige la prolissità. Tarantino scrive i saggi critici come fa le interviste e le sceneggiature: il suo discorso è inarrestabile e (apparentemente) disorganizzato, fatto di amplissime digressioni, di parentesi lunghe paragrafi, di approfondimento ossessivo della minuzia, di continue sbirciatine nel retroscena – talvolta pure nel retrobottega – del cinema. A leggerlo ce lo si immagina mentre parla, preoccupato soltanto dai limiti che la lingua e il tempo e le forze impongono al suo desiderio di speculare sul cinema. Cinema Speculation sta a metà tra la saggistica e la critica e il memoir, tra la cronaca storica e il commento dell’opinionista e il ricordo personale, è un pasticcio di cui è impossibile ricostruire la ricetta esatta eppure gustosissimo. I fatti, gli eventi e le persone raccontati nel libro e degni di essere citati sono talmente tanti che riportarli qui è impossibile (per capirci: partendo da Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! e dal mirino di un fucile che inquadra due uomini che passeggiano per New York, Tarantino è capace di costruire un mini-saggio sulla rappresentazione delle persone Lgbtq+ nel cinema hollywoodiano), ma ce n’è uno che credo riassuma perfettamente il libro e Tarantino e il cinema di Tarantino e il cinema secondo Tarantino: un intero capitolo di Cinema Speculation parla di Taxi Driver, spiega perché Scorsese si è dimostrato un vigliacco nel modo in cui ha scelto di trattare la questione razziale americana e dimostra come il film sia fondamentalmente una scopiazzatura di Sentieri selvaggi di John Ford. I critici l’hanno definita una stroncatura postuma. Tarantino l’ha definita una celebrazione. (Francesco Gerardi)

Susan Taubes, Divorzi (Fazi editore)
Traduzione di Giuseppina Oneto
«Quella carezza bianca cos’era? Dio le stava dipingendo il mondo sulla retina con il più soffice dei pennelli: le stelle, i fiocchi di neve, le corolle, le file di ippocastani in fiore, un solletico verde per ogni foglia. Non aveva mai riso tanto. Neanche a questa cosa doveva credere. Non è necessario credere a una cosa solo perché manda in estasi»: così è come scrive Suzanne Taubes, un po’ Virginia Woolf, un po’ Clarice Lispector, un po’ Elizabeth Hardwick in Notti insonni. Solo che l’autrice di Divorzi non è diventata una scrittrice famosa: ha scritto un solo romanzo in tutta la sua vita e si è suicidata a 41 anni, nel 1969, poco dopo la sua pubblicazione. La sua amica Susan Sontag ha rivelato che molto probabilmente le recensioni negative del libro avrebbero peggiorato la sua già delicata condizione mentale. Anche la voce narrante di Divorzi (riproposto nella collana di classici della New York Review of Books nel 2020 e appena pubblicato da Fazi Editore) è una donna morta, ma non volontariamente: «Sono morta un martedì pomeriggio investita da un’automobile mentre attraversavo avenue George V. Pioveva forte. Ero appena uscita dal parrucchiere». Sophie Blind è l’alter ego dell’autrice, un’ebrea immigrata negli Stati Uniti dall’Ungheria che sta cercando di scrivere un romanzo ma è disturbata dalle ingombranti figure maschili che le gravitano attorno. Viene investita all’inizio del libro, ma la sua mente sopravvive, ricorda e racconta: il desiderio di separarsi dal marito, i viaggi al suo seguito, il passato in Ungheria. Chissà se, come quella protagonista di Divorzi, anche la mente di Taubes ci osserva, viva e pensante da qualche parte. Sarebbe felice di scoprire che, più di cinquant’anni dopo, la sua scrittura è finalmente stata compresa e il libro ha ricevuto soltanto recensioni entusiaste. Per Paris Review «Divorzi è materia da culto letterario: vivido e mutevole, affascinante. Alcune opere vengono semplicemente ripubblicate. Questa sembra più una resurrezione», mentre il New Yorker lo definisce «un libro coraggioso, che rifiuta le risposte facili. Divertente, sexy e disperato». (Clara Mazzoleni)

Immagine: Una celebre foto di John Topham che ritrae alcuni soldati britannici colti da un allarme aereo durante la serata “in drag”, di cui parla Alessandro Giammei nel suo Cose da maschi (Einaudi) © John Topham/TopFoto