Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a ottobre in redazione.

Pierre Sautreuil, Le guerre perdute di Jurij Beljaev (Einaudi)
Traduzione di Silvia Manzio e Silvia Mercuri

La guerra in Ucraina, come probabilmente tutte le guerre, è stata ed è un prolifico motore di opinioni. Sui social e sui giornali ci sono quelli che ce la spiegano, quelli che ci dicono chi ha ragione e chi ha torto, quelli che ci dicono cosa si dovrebbe fare. È un cloud preponderante rispetto a quelli che la guerra la raccontano da posti in cui succedono le cose, in un’epoca in cui, nonostante esistano ancora bravi reporter, la testimonianza dal fronte è appunto schiacciata tra le opinioni di chiunque e i frammenti visivi che appaiono nelle nostre timeline. Eppure niente come la parola scritta, un certo tipo di parola scritta, ha la capacità di dare verità alla guerra. Le guerre perdute di Jurij Beljaev dal reporter francese Pierre Sautreuil, appena uscito per Einaudi, che racconta il conflitto del Donbass tra il 2014 e il 2015, quando l’autore aveva appena 21 anni e cercava di affermarsi come giornalista freelance, fa parte di quella rara categoria in cui il giornalismo deborda quasi senza volerlo nella letteratura. Nelle sue pagine si possono trovare le premesse di quello che sta succedendo oggi in quelle zone, ma questo non è il motivo più importante per leggerlo. Il libro è soprattutto il ritratto-puzzle di un personaggio “da guerra”, un colonnello Kurtz dell’est Europa, il Jurij Beljaev del titolo, passato attraverso il comunismo e il suo crollo, contrabbando, guerra in Bosnia, nazionalismo (se non proprio neo nazismo) e arrivato fino alla causa del separatismo contro l’Ucraina, una specie di agente del male da cui l’autore è profondamente affascinato per motivi che pagina dopo pagina ci sembrano del tutto comprensibili. Le guerre perdute di Jurij Beljaev è romanzo-reportage che ci fa capire poco o niente, che non contiene opinioni e tanto meno indica soluzioni, ma che è schiacciato sul presente, anzi sull’istante e sul centimetro in cui succedono le cose dal punto di vista di chi guarda (forse l’unico modo per dare a chi legge, a chi ascolta, il senso di cosa la guerra possa essere). Un libro che è anche uno struggente e tetro acquerello sui paesaggi della guerra. Un hotel gelido di Lugansk, un obitorio di Donetsk (incredibile la pagina sull’odore dei cadaveri che si attacca alle narici), un’autostrada squarciata dalle bombe, i cieli color antracite, l’acqua color piscio che esce dai rubinetti. (Cristiano de Majo)

Jessica Anthony, Arriva l’oritteropo (Edizioni Sur)
Traduzione di Dario Diofebi e Martina Testa

Arriva l’oritteropo è un gioco di specchi, il racconto di due vite distanti 145 anni tenuto assieme da frasi lunghissime (non a caso, Jessica Anthony ha citato tra le sue ispirazioni Woolf, Joyce, Krasznahorkai, Hrabal) e da uno dei più strani MacGuffin che si possano immaginare: gli occhi di un oritteropo morto – una creatura «brutta persino per la Natura, come se un maiale si fosse accoppiato con un’asina» – che in realtà sono gli occhi di un amante morto suicida. Le due vite sono quelle di Alexander Paine, nel 2020 candidato repubblicano alla Camera dei rappresentanti nel primo distretto congressuale della Virginia, ossessionato da Ronald Reagan, omosessuale represso perché «Lgbtq sembra il nome di una cosa che si ordina al fast food con la maionese»; e quella di Titus Downing, nel 1875 tassidermista geniale e incompreso, omosessuale represso perché vive nell’Inghilterra vittoriana. La vita di Alexander e quella di Titus sono entrambe segnate, e legate, dal giorno in cui «arriva l’oritteropo», lo stesso oritteropo, per entrambi un messaggio in codice inviato dai rispettivi amanti segreti e proibiti: per Alexander è il presidente della Happiness Foundation Greg Tapico, per Titus il naturalista zoologico sir Richard Ostlet. Attraverso la grottesca anatomia dell’oritteropo Alexander e Titus sono costretti all’autoanalisi che non si possono permettere, l’uno a causa delle circostanze e l’altro dei tempi. E il talento satirico di Anthony sta nel rendere comica, a tratti spassosa, l’acquisizione di una consapevolezza traumatica per entrambi i protagonisti: quella di essere identici a una bestia grottesca, che vive sottoterra, che ha paura di tutto e che scappa sempre scavando buche con i grossi artigli, senza avere però, loro, la grazia che all’oritteropo viene dal vivere in esatta corrispondenza con la sua natura. Per spiegare perché questo romanzo sia più di tutto satira, Anthony ha scelto una frase scritta da André Breton in L’amour fou: «Il piacere, qui, è funzione della dissimiglianza stessa che intercorre tra l’oggetto atteso e il reperto». E c’è un piacere enorme nell’attendersi di essere umani e scoprirsi invece oritteropi. (Francesco Gerardi)

Andrea Tarabbia, Il continente bianco (Bollati Boringhieri)

Un romanzo che racconta alcune settimane dentro un giovane gruppo neonazista romano, tra i tragicamente famosi “bangla tour” e un’incontrollabile volontà di potenza e distruzione che richiama l’esperienza dei Nar e di altri gruppi terroristici neri degli anni Ottanta. Il continente bianco mi è sembrato da subito ambizioso come pochi libri che mi erano girati intorno negli ultimi tempi. È quindi con sentimenti diversi che mi ci sono avvicinato, e quando ci sono in ballo diversi sentimenti la sintesi è sempre simile al timore. Mi incuriosiva scoprire se il libro di Tarabbia avrebbe retto la sfida maggiore: quella di raccontare senza giudizi aprioristici, anzi ammettendo una certa fascinazione, il mondo dell’estremismo fascista più violento, razzista, eversivo. Mi piaceva il titolo, che si scopre presto essere il nome del gruppo cui appartiene il co-protagonista di questo romanzo, Marcello Croce. Temevo però l’effetto-inchiesta, la banalità di chi scopre che c’è chi ama il male in quanto tale, l’indignazione di cui sono pieni i social ogni giorno, e soprattutto ultimamente. Ne sono uscito con sentimenti comunque diversi, ma se queste righe stanno in una rubrica che si chiama “I libri del mese” vuol dire che sono sentimenti tendenzialmente positivi. In un mondo che brucia in tutti i sensi – umanamente, climaticamente, politicamente – Tarabbia non dipinge una gioventù neonazista fatta di alieni incomprensibili, ma anzi di abitanti più che adatti a vivere in questa condizione, pronti ad aggiungere benzina al fuoco. Forse, anzi, più adatti di noi, che cerchiamo consolazione nell’arte e crediamo ostinatamente nel bene finale. La masnada neonazista è composta di personaggi talvolta troppo sopra le righe – troppo raffinati, o troppo grassi-e-quindi-cattivi, o troppo gotici – e certi dialoghi risultano un po’ irrealistici; ma al netto di questo il libro è quello che si chiama un page-turner, la tensione è sempre alta e la lingua di Tarabbia è raffinata come poche. Soprattutto, il giudizio del narratore (che si chiama poi Andrea Tarabbia) verso chi vuole solo veder bruciare il mondo è complesso, e non si chiude mai del tutto su una conclusione. Per una volta la parola “coraggioso” è ben spesa. (Davide Coppo)

Vanessa Roghi, Eroina (Mondadori)

Non è necessario essere ex tossici per rabbrividire di fronte ai collage di frasi fatte e luoghi comuni con cui ancora oggi, sui giornali e altrove, si parla di eroina. La situazione sta cambiando, per fortuna, e il merito non è soltanto di Fabio Anibaldi Cantelli, la star di SanPa, giustamente invitato a esprimersi ovunque si parli della droga più “pesante” di tutte. Così come sta succedendo per i disturbi mentali, su TikTok si trovano diverse ex eroinomani che parlano di dipendenza: @chiara_senza_camper, ad esempio, lo fa molto bene, nonostante alcuni suoi video un po’ cringe (non è colpa sua: ha quasi 40 anni). Sorprendentemente, il suo pubblico non è composto solo di ex tossici e familiari di ex tossici, ma anche di persone curiose che la bombardano di domande. Un altro segnale incoraggiante è il bellissimo libro di Vanessa Roghi, Eroina. Quattro anni dopo il memoir Piccola città. Una storia comune di eroina, Roghi ha ricostruito il percorso sociale, culturale ed economico di questa sostanza, in Italia e non solo: un labirinto da incubo in cui ogni punto d’arrivo si rivela un errore. La storia prende il via dall’incontro dell’autrice con Valentina, donna (e mamma) che ha iniziato a fumare eroina nel 2002, quando aveva 13 anni, e ha trascorso parte della sua vita rimbalzando tra comunità-carceri e comunità terapeutiche, e si sviluppa attraverso una ricerca che partendo da saggi, documenti e articoli del passato cerca di rispondere a domande come: l’eroina è di destra o di sinistra? Esiste ancora? Com’è il drogato moderno? Dal testo di Medicine di Side Baby, ex Dark Polo Gang, agli inquietanti dati sul recente abbassamento dell’età del primo approccio (sempre fumandola), fino a un’importante riflessione sulla riduzione del danno, il libro di Vanessa Roghi dimostra che quella dell’eroina non è soltanto una piaga del passato, ma un problema presente e una minaccia futura. (Clara Mazzoleni)