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Su TikTok si può parlare di disturbi mentali come non si era mai fatto
Il rischio di romanticizzare la malattia è alto, ma il bisogno di condividere è ancora più forte: molti tiktoker stanno portando sulla piattaforma le loro esperienze in psichiatria, abbiamo chiesto a una di loro di raccontarci perché.
La madre ha dato la notizia della morte della figlia, Mirna, con un post pubblicato sul suo profilo Instagram. Poco più di vent’anni, studentessa dell’Accademia d’Arte di Brera di Milano, talentuosa disegnatrice (su questo profilo raccoglieva i suoi bellissimi lavori), icona di stile e appassionata di make-up, negli ultimi anni, su TikTok, come @twilightvenom13, Mirna aveva accumulato oltre 120 mila follower, la maggior parte dei quali giovanissimi.
Come ha ricordato anche Webboh, Mirna era stata una delle prime ragazze italiane a parlare sui social del tema dei disturbi mentali, e in particolare del disturbo borderline di personalità, di cui soffriva e a causa del quale era stata ricoverata in psichiatria. Lo faceva mentre si truccava e preparava, nei suoi video Get Ready With Me, o durante le sue dirette, in cui con grande pazienza e precisione rispondeva alle domande dei follower sul funzionamento della sua malattia e sulla difficoltà di conviverci. Oltre ai suoi bellissimi disegni, Mirna lascia un archivio di materiale su TikTok utile per chi volesse capire meglio cos’è il disturbo borderline di personalità, spesso definito dagli psichiatri la più dolorosa tra le malattie mentali, estremamente diffusa, soprattutto tra le ragazze, ma ancora poco conosciuta nel suo reale funzionamento.
In redazione abbiamo discusso se ripubblicare o meno questo articolo, in cui avevamo parlato con Mirna per provare a capire insieme a lei se parlare di disturbi mentali su TikTok potesse essere utile per chi ne soffre e quanto invece potesse dare forma a dei circoli viziosi. Alla fine abbiamo deciso di ripubblicarlo, sia come tributo a Mirna e alle sue intelligenti osservazioni, sia per riflettere ancora una volta sull’urgenza e sulla necessità di parlare di più e meglio delle malattie mentali, soprattutto se a soffrirne sono i più giovani (a questo tema abbiamo anche dedicato un articolo sul nuovo numero di Rivista Studio), con la speranza di trovare delle cure più efficaci e creare reti familiari e sociali più solide.
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«I was too honest with my psychiatrist», c’è scritto nel video di @tinymoor: intorno a lei, il tipico arredamento di una stanza singola in clinica psichiatrica. È la concretizzazione, o meglio, la brutta fine, del meme “trying to be honest with my therapist but not so honest that I get involuntarily hospitalized”. Solo che questo non è un meme, è la realtà, e @tinymoor fa parte dei tantissimi tiktoker che ogni giorno pubblicano dei video in cui non nascondono, ma anzi esibiscono, le loro sofferenze mentali. L’hashtag #psychward riunisce migliaia di contenuti, i primi pubblicati nel 2020. Sono soprattutto ragazze. Forse è il mio algoritmo che le sceglie per me (o forse no: qualche giorno fa, in un articolo dal titolo “Hurts So Good“, Suzy Weiss ha descritto un altro fenomeno di TikTok a prevalenza femminile, quello delle ragazze affette da malattie invisibili o difficili da diagnosticare).
Ci sono quelle che si mettono a parlare della loro malattia, spesso in diretta, rispondendo alle domande dei follower, e quelle che invece si comportano come se fosse tutto normale, a parte il fatto che sono ricoverate in una clinica psichiatrica. Una ragazzina pubblica dei video in cui semplicemente balla i trend del momento insieme alle sue compagne di ricovero, suscitando la curiosità (spesso morbosa) dei commentatori: perché hanno tutte lo stesso cerotto sulla fronte? È una forma di autolesionismo, risponde educatamente qualcuno: private di qualsiasi oggetto tagliente, si fanno male sbattendo la testa contro il muro o il pavimento. «Scusate, non lo sapevo», risponde desolata la ragazza che ha posto la domanda. La ragazzina non risponde ai commenti e continua a pubblicare indisturbata i suoi balletti. «Come mai tremi così tanto?», chiede qualcuno a un’altra ragazza che ha pubblicato un video in cui si trucca (anche lei è ricoverata), disegnando una linea di eyeliner terribilmente storta, che però non cancella. «Sono gli psicofarmaci», rispondono i follower per lei. «Perché hai tentato il suicidio?», chiede qualcun altro. I suoi follower la difendono nei commenti: «Non sono domande da fare, ne parlerà lei se e quando vorrà».
Mentre scrollo l’infinità di video e dirette in cui ragazzini e ragazzine parlano delle loro malattie mentali, tra story time, confessioni, consigli e momenti di dark humor pesante, penso alle ultime volte che qualcuno ha commentato la mia abitudine di parlare apertamente del disturbo di cui soffro. Un conoscente mi ha fatto notare che le stories che pubblico su Instagram danno l’impressione che io mi crogioli nei miei problemi. Un altro (sempre maschi, sarà un caso?) una volta mi ha detto che gli piacerebbe moltissimo leggere qualcosa di mio: non un articolo, qualcosa di più lungo, che però non parli di alcol, droga e disturbi mentali.
Se fossi una tiktoker famosa trascriverei queste osservazioni in un video e lascerei che il mio esercito di follower rispondesse per me. Mi rifugerei nella cameretta morbida e accogliente del TikTok psichiatrico, un mondo magico popolato da adolescenti illuminati che conoscono la differenza tra psicologo, psicoterapeuta e psichiatra. Utilizzano un linguaggio semplice, spiegano cosa gli è stato diagnosticato e come, quali sono i sintomi, le cure che li hanno aiutati e quelle che non hanno funzionato (sempre specificando che ogni esperienza è diversa e che ognuno deve farsi seguire da un professionista), raccontano gli errori che hanno fatto, chiariscono il significato dei termini tecnici, rassicurano i coetanei intimoriti dalla prima visita da uno psicologo, sostengono quelli terrorizzati alla vigilia di un ricovero, piangono durante una crisi e si lasciano consolare dai commenti affettuosi e dai cuoricini che si moltiplicano sullo schermo.
Dopo una vita a tentare di spiegare a chi mi vuole bene perché mi comporto come mi comporto, mi ritrovo a piangere davanti ai monologhi di ragazzine che, finalmente, parlano la mia stessa lingua. La mia preferita è @twilightvenom13: si chiama Mirna e ha 112 mila follower. La prima volta che è comparsa nei miei per te era in un video della sua serie “get ready with me”. Era riuscita a farsi portare il suo prezioso kit di make-up in clinica psichiatrica e finalmente poteva truccarsi chiacchierando coi follower o, semplicemente, elencando brand di illuminanti, blush, mascara e ciglia finte. Come a me, a Mirna è stato diagnosticato il disturbo borderline di personalità. Anche se ne parla spesso, e ha documentato quasi quotidianamente il suo ultimo ricovero, durato un mese e mezzo (in seguito a un tentativo di suicidio) e il lento processo di guarigione (aveva rotto i calcagni e fratturato vertebre, tibia e perone: per un bel po’ non ha potuto camminare), i contenuti che riguardano il bpd sono solo una piccolissima parte della sua attività su TikTok: nella maggior parte dei video fa dei balletti sexy, condivide la sua elaborata skin care, flexa i suoi make-up e i suoi look, mostra gli sketchbook pieni di disegni (o la sua camera, o quello che ha comprato su Shein, o le foto di tutti i bagni in cui è stata nel mese di gennaio), risponde alle domande su come ha capito di essere pansessuale (o su cosa vuole fare da grande, o sul suo rapporto con la madre, o sulle sue serie preferite), canta in playback Lana Del Rey e Grimes.
«In realtà non so quanto mi abbia aiutato condividere i miei ricoveri su TikTok», dice in uno dei brevi e sobri vocali con cui risponde alle mie mail logorroiche, piene di domande e cuoricini e complimenti, «fin da quando ero piccola, 15 anni o così, ho sempre condiviso cose molto intime online, Tumblr è dov’è iniziato tutto per me, poi è venuto Instagram e poi TikTok, è sempre stata una cosa naturale. Ho notato che molte persone borderline, soprattutto quando sono in down, tendono a condividere, perché quell’emozione che ti trovi a provare è così forte che è incomunicabile, ma tu senti il bisogno di urlarla al mondo, e su internet è quello che stai facendo, quindi la vedo come una cosa molto naturale, senza un pensiero dietro. Aver raggiunto così tante persone mi ha aiutato perché ho sentito di tante storie, persone che mi sono state vicine anche se non le ho mai viste, non le ho mai conosciute, persone che mi hanno raccontato di situazioni molto simili alla mia, che mi hanno spaventato e quindi toccato nel profondo. Ho trovato un senso di comunità che non mi era mai capitato di trovare su internet, e questo mi ha aiutato nei momenti più brutti, ad esempio nel mese e mezzo che ho passato in psichiatria. È stato rassicurante trovare un appoggio, anche se solo online: per certe persone è detrimental, per me non lo è stato».
@twilightvenom13 Rispondi a @mammonslovverr #perte #bpdtok #borderline #dbttherapy #dbt ♬ original sound – twilight venom MIRNA 🚬 👑
Dello “psych ward TikTok” ha recentemente scritto Darshita Goyal su Dazed, sottolineando una questione cruciale: si tratta di destigmatizzare il ricovero psichiatrico e i disturbi mentali o triggerare persone vulnerabili e romanticizzare la malattia mentale? Persone più giovani che magari, per emulazione, potrebbero auto-diagnosticarsi disturbi che non hanno o iniziare a comportarsi diversamente. E per chi è già stato diagnosticato, questi contenuti potrebbero funzionare come i “thinspo” dei vecchi blog pro-ana, modi per “crogiolarsi” negli aspetti estetizzanti della malattia o, nel caso dei borderline, ad esempio, trigger capaci di stimolare ricadute o comportamenti autolesivi. Suo malgrado, Mirna è un esempio perfetto: bellissima, intelligente, amatissima, tra le centinaia di commenti adoranti che si accumulano sotto ai suoi video ci sono tantissimi «vorrei essere come te».
È una questione delicata, perché frangetta corta e tatuaggi amatoriali e Lana Del Rey e ricovero psichiatrico fanno parte dello starter pack di un’estetica condivisa. Chiedo a Mirna: «Io non voglio assolutamente romanticizzare quello che ho passato, purtroppo mi è capitata un’esperienza di cui non voglio entrare troppo nei dettagli per non invadere la privacy di questa persona perché è minorenne, però ha cercato di emularmi in comportamenti autolesivi per finire in psichiatria e condividere tutto su TikTok. Purtroppo questa è una realtà: fai il video in psichiatria e avrai più attenzione perché oddio drama, cos’è successo, sei pazza, interessante, più interessante di fare un video al parco. Molta gente si interessa di più al dolore, alle emozioni forti, alle lacrime: c’è un video in cui piango che ha 4 milioni di visualizzazioni, perché sto mostrando la mia emozione autentica, e tra i Gen Z questo è quello che va di moda, basta pensare al photo dump, in cui si postano le foto spazzatura che nessuno dovrebbe vedere della tua camera roll, però tu le fai vedere ai tuoi follower per mostrare quanto sei naturale. Ci stiamo ribellando a quest’immagine dell’influencer perfetta per mostrare una realtà che però è costruita anche quella, perché anche quella è architettata per un certo occhio, per una certa estetica, quindi anche quella alla fine è falsa».
«Io non vorrei mai che qualcuno mi emulasse», continua Mirna nei suoi vocali (la sua foto profilo su Whatsapp è un coniglietto rosa di peluche), «ma piuttosto vedesse quanta sofferenza c’è dietro, di fare più chiarezza sul borderline dal mio punto di vista, anche se un po’ mi sono stancata di parlarne perché una persona che ha il borderline non è solo quello, non è solo il suo disturbo della personalità ma è tanto altro. Però il consiglio che posso dare se vuoi il clout, se vuoi la fama online – che alla fine non valgono un cazzo – sii te stesso, almeno questo è quello che ha funzionato per me, e non c’è bisogno di emulare comportamenti negativi, perché tanto quello che le persone cercano è l’autenticità». Concludiamo con una domanda molto pratica: la prima cosa che fecero, quando mi ricoverarono in una clinica psichiatrica anni fa, fu ritirarmi il telefono. Come funziona adesso? «Il telefono lo potevi tenere sempre, poi te lo facevi ricaricare [deduco che non lasciavano il cavo per la ricarica, nda], io ero in sedia a rotelle e passavo continuamente nel gabbiotto dov’era a ricaricarsi per vedere se si era ricaricato abbastanza per poterlo usare».
Qualche appunto alla luce dei dati raccolti. In Italia, il finanziamento previsto per il bonus psicologo consente di soddisfare una platea approssimativa di 16mila persone: le domande sono state più di 210mila. Politicamente, economicamente, climaticamente, ci aspetta un futuro che metterà alla prova anche i più mentalmente sani tra noi. Ci troviamo tra le mani ragazzi e ragazze che hanno vissuto gli anni cruciali della loro giovinezza tra le mura di casa, coi genitori alle calcagna, unica via di fuga il cellulare e il pc. Lo “psych ward TikTok” è evidentemente un tentativo di auto-cura: in quanto tale caotico e potenzialmente problematico.
Proprio qualche giorno fa, un articolo del Wall Street Journal segnalava come molti americani abbiano iniziato a saltare gli appuntamenti dallo psicologo per risparmiare soldi, come se si trattasse di un lusso e non di una necessità. Perché fuori dal telefono, nella vita reale, il tabù persiste, a volte perpetrato dalle stesse persone che dovrebbero infrangerlo: ancora oggi, a distanza di vent’anni dalla mia diagnosi, io stessa continuo a soffrire per i soldi e il tempo che mi tocca “sprecare” in psicologi e psichiatri e a interrompere le cure, per non parlare della terapia farmacologica, che tendo a sospendere o modificare a mio piacimento, inseguendo fallimentari tentativi di autogestione.