Attualità

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a maggio in redazione.

di Studio

Momento di yoga tra uomini al parco, 1970 circa (Photo by Keystone/Getty Images)

Emmanuel Carrère, Yoga (Adelphi)
Trad. di Lorenza Di Lella, Francesca Scala

È difficile avere un’idea precisa di Yoga, l’ultimo libro di Emmanuel Carrère. È difficile perché è un libro che si può tagliare a pezzi, salvarne un paio e buttarne qualche altro, ma dove non si capisce neanche se i pezzi da salvare, le pagine da ricordare, siano tali grazie a quelle che vorresti dimenticare. Innanzitutto per ritrovare, almeno un po’, il grande scrittore che abbiamo conosciuto, bisogna superare le prime 130 pagine e sono pagine discretamente irritanti, a metà tra il self-help e degli appunti di auto-analisi, che a quanto pare sono l’inizio di quello che voleva essere un manuale sullo yoga e la meditazione, e che ci si chiede perché non siano state cestinate.

Poi improvvisamente, ma non è una coincidenza fortuita, il libro prende il largo e lo fa esattamente quando Carrère interrompe quell’insostenibile solipsismo e ritorna a spostare lo sguardo, come solo lui sa fare, da sé agli altri e a riportarlo su di sé, ma sempre attraverso gli altri. Pezzo notevolissimo e che dà senso a tutto il libro quello che racconta il suo soggiorno a Leros presso una scuola di scrittura per rifugiati e i suoi rapporti con un ragazzo hazaro e una volontaria americana con una vita scalcinata. Le omissioni per vie legali impostegli dalla sua ex moglie, quelle cioè di non rivelare dettagli sulla loro vita, affiorano di tanto in tanto e la loro assenza è ogni volta lì ad azzoppare l’idea carrèriana che la letteratura sia “il luogo dove non si mente”. D’altra parte, con un colpo a sorpresa, lo scrittore trasforma l’ultima parte del libro in una riflessione su falso e vero letterario che costituisce un rinsavimento totale rispetto all’idea originaria di scrivere una guida alla mindfulness (e di fatto nel libro lo scrittore riemerge anche da una bruttissima spirale psichiatrica). Insomma, sembra di trovarsi di fronte a un libro-sintomo, sintomo di uno scrittore confuso, poco ispirato e anche probabilmente non lucidissimo, oltre che sintomo di un certo esaurimento della letteratura non fiction, se non fosse che la consapevolezza e la bravura di Carrère rendono Yoga un oggetto alla fine affascinante e forse persino utile. (Cristiano de Majo)

Raphael Bob-Waksberg, Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata (Einaudi)
Trad. di Marco Rossari

Nel 2013, prima che Raphael Bob-Waksberg diventasse l’autore di Bojack Horseman e Undone, inviò una lettera anonima a un giornale sul tema delle coincidenze perse nella nostra vita. Raccontava la storia di un uomo e di una donna che si spiavano in metropolitana in attesa che arrivasse l’occasione giusta per rivolgersi la parola, e rimasero entrambi sul vagone per mesi. Nonostante non ne abbia mai riconosciuto la paternità, c’è anche quel racconto tra i 18 che compongono Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata, primo libro dello sceneggiatore uscito nel 2019 ma arrivato in Italia solo ora nella traduzione di Marco Rossari, un breviario dedicato alla miseria umana in cui la coincidenza viene persa sempre per codardia, esposta in sceneggiature potenziali che rimbalzano tra la disperazione e la speranza di trovare l’amore o più che altro una forma di conforto. La raccolta è un assemblaggio di liste, dispacci, disturbi narcisistici della personalità, donne e uomini annientati («Le persone si dividono in due tipi: quelle che non vuoi toccare perché hai paura che si spezzino e quelle che non vuoi toccare perché hai paura che ti spezzino»), che riferiscono dal fronte della guerra – la vita – come la coppia di sposi che è costretta a sacrificare 50 caproni per buon auspicio, poi i ricordi di tutti quelli che pensavi ti conoscessero bene ma invece non era mai abbastanza, il catalogo dei pranzi con la persona che ti ha scaricato o l’elenco approssimativo delle bugie che ci raccontiamo («Sto bene»). Ma soprattutto è una richiesta, amami nella mia gloria devastata, con uno stile che è quello che abbiamo già incontrato con Bojack – iniziare in un contesto di routine e precipitare nell’assurdo – e che, allo stesso modo, ci fa ridere e riflettere simultaneamente su quelle disgrazie che sono solo colpa nostra. (Corinne Corci)

Dolly Alderton, Tutto quello che so sull’amore (Rizzoli)
Trad. di Veronica Raimo

Ormai l’espressione “la voce della sua generazione” non ha più alcun significato, pertanto non sorprendetevi se vi troverete un po’ disorientati a leggerlo nella recensione di questo libro. Perché Tutto quello che so sull’amore è, davvero, un racconto generazionale: un
memoir sui vent’anni di una millennial, Dolly Alderton, giornalista e autrice televisiva inglese. Vent’anni raggiunti dopo un’adolescenza iniziata come per molti, parlando con amici virtuali sulla chat di Messenger, luogo di accesso al mondo fuori della tristissima cittadina suburbana in cui vive e che lascerà per frequentare l’università a Londra. Fino a qui, sembrerebbe che la trama non sia niente di che. E infatti è tutta la compagine a renderla una lettura brillante e fresca. Le parti prettamente più diaristiche del memoir sono intervallate da inserti tipo collage, come le cronache di feste e appuntamenti andati male, pro e contro di cose come avere un fidanzato, e-mail inviate dagli amici che vogliono organizzare le uscite (che iniziano dai festini universitari e poi diventano addii al celibato), che vengono riproposti ciclicamente in ogni fase dei suoi venti anni, a misurare il modo in cui Alderton è cambiata. La disperata ricerca dell’amore, cioè di intrattenere rapporti significativi con gli altri, è il modo in cui si fa strada nel mondo degli adulti alla ricerca di una sua identità, che la vedremo acquisire, invece, grazie alle altre parole che sono state cancellate dal titolo in copertina: “I party, gli amici, il lavoro, la vita”. Stava per vincere il premio come migliore libro dell’anno per Waterstones, ma alla fine è andato a Parlarne tra amici della cara Sally Rooney, l’altra “voce della generazione”. Tutto quello che so sull’amore è soprattutto un libro divertente, tanto che la Bbc ne trarrà una serie, grazie anche alla traduzione di Veronica Raimo che è riuscita a restituire ai lettori italiani la scrittura vivacissima di Alderton, che ha scritto ogni capitolo come una rubrica. (Francesca Faccani)

Valentina Della Seta, Le ore piene (Marisilio Editori)

Il romanzo erotico di Valentina Della Seta ha a che fare col tempo già a partire dal titolo. Le ore piene che si propone di raccontare, si contrappongono a tutte le altre, quelle vuote in cui scorre la vita dell’anonima protagonista, una quarantenne che vive da sola e macina giornate prive di impegni familiari e sentimentali. Anche l’incipit ha a che fare con il tempo: «Era passato l’inverno e non avevo fatto altro che invecchiare, mi mancavano poco più di sette mesi ai quarant’anni». In uno dei tanti momenti di noia simili tra loro, decide di incontrarsi con un master, P., un uomo molto più giovane trovato su un sito di incontri. Grazie a lui, la donna scopre una vocazione sessuale che non aveva mai pienamente accettato: il suo desiderio di farsi dominare coincide perfettamente con il ruolo dominante del ragazzo. Si spalanca davanti a lei un’esperienza sublime, in cui il piacere del momento presente ripaga anni e anni di esperienze deludenti e relazioni carenti. La città in cui il racconto si svolge è una Roma rarefatta, ridotta ai minimi termini. La vita psicologica e professionale della protagonista, anche. L’uomo di cui si innamora resta lontano e sconosciuto, un individuo perfettamente dimenticabile. Quel che rimane sono i corpi, i gesti e i movimenti, i cellulari che fanno da tramite, i momenti di preparazione agli incontri. E il tempo che, finalmente, dopo una vita passata ad attendere (senza sapere bene cosa), ricomincia a scorrere. Mi piace paragonare Le ore pieneUn amore di Dino Buzzati (il suo unico romanzo erotico) e a La noia di Alberto Moravia. In entrambi, all’inizio, c’è un’anima spenta, improvvisamente risvegliata da un amore che diventa febbre. Entrambe le storie, anche se a livello più psicologico che sessuale, ruotano intorno al masochismo: più i protagonisti vengono umiliati e maltrattati, più si innamorano. Entrambi intellettuali di mezza età, di fronte alle giovani e spietate amanti diventano stupidi, inermi, pronti a perdere tutto: soldi, reputazione, dignità. Leggendoli da adolescente, mi sentivo molto più vicina ai personaggi maschili che a quelli femminili. In Le ore piene, la donna, normalmente oggetto della febbre d’amore, diventa il soggetto febbricitante. Oltre a non avere niente da perdere, però, non diventa stupida e inerme: rivendica il diritto di farsi soggiogare, perfino ingannare, e grazie all’amore si ritrova, dopo un’esistenza di imbarazzo e disagio, nel posto giusto al momento giusto. Una congiunzione quasi impossibile da conservare, ma a certe donne basta anche soltanto riuscire ad assistervi, almeno una volta nella vita. (Clara Mazzoleni)

Paolo Pecere, Il dio che danza (Nottetempo)

Penso che ci sia un filo nemmeno troppo sottile che unisce il recente ritrovato interesse occidentale verso le sostanze psichedeliche, intese non solo come mezzi ricreativi ma anche spirituali e introspettivi, e l’esistenza di un libro come Il dio che danza di Paolo Pecere. Il filo rappresenta una certa riscoperta della spiritualità, il che non è nulla di nuovo, ma inserito in un contesto di superamento del New Atheism di Hitchens e Dawkins, e Il dio che danza si aggiunge a una bibliografia che comprende, negli ultimi anni, best-seller mondiali come Come cambiare la tua mente e compendi molto discussi in Italia come La scommessa psichedelica. Paolo Pecere in Il dio che danza fa un viaggio antropologico diciamo classico, in cui il narratore non sparisce ma è un protagonista e osservatore, affiancando la divulgazione più accademica  al racconto di viaggio. Un viaggio intorno al mondo per raccontare le diverse ma simili possessioni e trance religiose sparse per i continenti. Un viaggio che segue le tracce di Dioniso dalla Puglia – il tarantismo – alle montagne del Pakistan in cui danzano stremati i sufi, passando per il vodu di Haiti ma pure per i rave di Manchester o Roma Torino Bologna Milano eccetera. Paolo Pecere studia, si documenta, ma soprattutto lo vediamo lì al di fuori del cerchio rituale a osservare le trasformazioni dei posseduti, guardarli ballare, schiumare dalla bocca, strisciare per terra. Ricostruisce i legami misteriosi, affascinanti e talvolta sbalorditivi di una storia antica quanto l’uomo, e intrigante come poche altre storie, che è bravo a dosare narrativamente: il bisogno dell’uomo di cessare di essere uomo, ogni tanto, almeno per poco, dappertutto. (Davide Coppo)

Beatriz Bracher, Antonio (Utopia Editore)
Trad. di Prisca Agustoni

Beatriz Bracher, classe 1961, è una delle scrittrici brasiliane più apprezzate e una delle voci più autorevoli della letteratura lusofona contemporanea. Cresciuta in Brasile negli anni della dittatura militare, dopo gli studi umanistici ha lavorato come redattrice per la rivista 34 Letras e ha fondato la casa editrice Editoria 34. È autrice di racconti, romanzi e sceneggiature e nel corso della sua carriera ha ottenuto i tre dei riconoscimenti letterari più importanti in Brasile: il premio Clarice Lispector, il Premio São Paulo e il premio Rio. Ora Utopia pubblica Antonio, «giallo esistenzialista», come viene definito, che è un’ottima introduzione al suo stile e alle sue tematiche. Il libro segue Benjamin Krenz, un uomo che sta per diventare padre e che decide di scandagliare la sua storia familiare, affidandosi al racconto di tre persone e testimoni speciali che ripercorreranno gli ultimi cinquant’anni: Raul, amico del padre Teodoro; la nonna Isabel, che sta per morire, e Haroldo, amico di suo nonno Xavier. Le loro lettere-confessioni compongono i capitoli del libro di Bracher, che così dispiega la storia di una famiglia legandola a quella del Brasile nei suoi anni più complicati, quelli che hanno costruito le grandi contraddizioni che il Paese vive ancora oggi. Ci sono le leggende, i modi di dire e le finte verità accumulatesi negli anni in un gruppo di consanguinei, tra lutti, segreti e addirittura incesti, in un mosaico complesso che è poi l’identità di ognuno, che è sempre collettiva e che nella famiglia affonda, ci piaccia o meno, il meglio e il peggio di noi. (Silvia Schirinzi)