La provincia americana vista dal treno Amtrak che collega Chicago a San Francisco (Joe Raedle/Getty Images)
Julian Barnes, L’unica storia
Einaudi, traduzione di Susanna Basso
Di certo tra le cose più difficili in letteratura – non che ce ne siano molte altre di facili, se le si vuole fare bene, insomma – c’è scrivere di amore e storie d’amore, appunto, bene. Questo “bene”, per Julian Barnes, implica l’interrogarsi costantemente su che cos’è il passato e che ruolo ha la memoria e il ricordo nel nostro racconto – a noi stessi – delle nostre stesse vite. Questo “bene”, per Julian Barnes, si traduce anche nel rovinare la giornata, l’umore, la serata, e forse anche un bel po’ di ore successive alla chiusura del libro, al lettore o lettrice, e anche questo effetto è una delle cose più difficili da ottenere dalla letteratura. L’unica storia è semplicemente il racconto di una storia (d’amore, si intende) che inizia come uno scandalo da circolo del tennis della provincia urbana inglese – lui 19enne, lei più del doppio – e prosegue come avventura, poi come relazione “vera” (qualsiasi cosa voglia dire, e un po’ se lo chiede anche Barnes) e finisce, come molte storie (d’amore, s’intende), male. In mezzo, tutta la filosofia e le domande, senza altrettante risposte, di Julian Barnes, che si erano già viste nello splendido Il senso di una fine, in cui (l’ho riaperto, non me lo ricordavo così bene) il protagonista Tony Webster si chiedeva: «La mia esistenza si era sviluppata, o solo accumulata?». Un sentimento simile è su cui si regge tutto quest’ultimo libro: «Abbiamo quasi tutti un’unica storia da raccontare (…) Ce n’è una sola che conta», dice Paul Roberts, il giovane (all’inizio) protagonista. La scommessa è scegliersi bene questa storia, se possibile, visto che condizionerà tutta un’intera vita, che lo vogliamo o no, nel bene o nel male, o più spesso in entrambe le cose. L’importante è scegliere, poi, come e cosa ricordare meglio: «La vita è una sezione trasversale e la memoria una fenditura che ne attraversa la venatura e la segue dal principio alla fine». (Davide Coppo)
Un incidente stradale, l’arrivo inaspettato di una famiglia che ha bisogno di un tetto sotto cui dormire. Possono essere svariati i motivi per cui quello che c’era prima smette improvvisamente di esserci. A volte si tratta di un momento, una biforcazione, e noi, ignari, prendiamo una delle due strade. In astrologia si parla di “Luna nuova progressa”, un giorno che cade ogni ventotto anni e che fa da spartiacque. Ne Gli inconvenienti della vitadi Peter Cameron, che in Italia esce per Adelphi in contemporanea all’edizione inglese, i racconti sono due. “La fine della mia vita a New York”è amaro e alto-borghese, dove Theo, docente di mezz’età privo ormai di slancio e ispirazione a causa di un incidente, si lascia andare nonostante il compagno Stefano e l’amica Natasha provino a riportarlo a trovarne. «Siamo tutti dei piatti. E siamo in attesa di romperci», dice Theo alla fine del racconto. “Dopo l’inondazione”racconta in prima persona la vita di provincia e di nozze ormai sbiadite di Mrs Bird, la cui vita viene sconvolta dagli Escobedo, famiglia che ha perso la casa a causa di un’inondazione, appunto. L’abitudine si rompe e la voglia di sfruttare questa crepa – ecco l’altra faccia del nostro essere piatti pronti a rompersi – scuote la noia della vita domestica. Anche in questo volumetto Peter Cameron riesce a raccontare da diverse angolazioni ciò che fa parte di noi, di tutti – l’abitudine, la frustrazione, il nostro chiederci a che serve, tutto – con leggerezza spietata, quando non ironica (come i guizzi delle numerose parentesi del secondo racconto). (Teresa Bellemo)
Denis Johnson – Jesus’ Son Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi
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