Attualità

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a maggio e cosa consigliamo di leggere.

di Aa.Vv.

Ian McEwan – Nel guscio (Einaudi) trad. Susanna Basso

L’idea di fondo è talmente nota che forse non andrebbe menzionata: prendere l’Amleto di Shakespeare e riscriverlo dal punto di vista di un feto che assiste all’assassinio del padre tradito attraverso l’utero della madre traditrice. La cosa è esplicitata al punto che i due antagonisti si chiamano Trudy, cioè Gertrude, e Claude. Insomma l’autore gioca a carte scopertissime, molto più di quanto non fece, per dire, David Grossman con Che tu sia per me il coltello, dove l’esercizio di stile su Kafka restava nel sottinteso. shadow_image_110641Visto quanto s’è già parlato di questo romanzo, vorrei aggiungere solo due cose. Primo, nonostante le polemiche imbastite sul tema, McEwan coglie benissimo, da uomo, alcune sfaccettature del rapporto tra il corpo di una madre e quello del figlio che ospita dentro di sé: a un certo punto il feto-narratore si dice «spietato», vagheggiando di trasformare Trudy in una nutrice la cui «libertà non sarà altro che una spiaggia natia in progressiva lontananza». Secondo, quello di racchiudere l’io narrante in un utero, cioè in un guscio dentro il quale la realtà esterna passa filtrata, si dimostra un ottimo espediente letterario; perché non assistiamo ai fatti, ma alla percezione dei fatti di un non-nato, che si crede onniscente quando è l’esatto opposto. Una dispercezione dipanata poco alla volta e messa in scena con estrema eleganza, che vuole essere anche uno specchio, neppure troppo implicito, dell’epoca di filter-bubble in cui viviamo. Un’epoca dove, come dice la linguista Sally McConnell-Ginet, le impressioni dominano su fatti e razionalità: «Sento, dunque sono», dice il feto, che sarà anche amletico ma è decisamente anti-cartesiano. «Militerò a fianco delle emozioni, mi batterò strenuamente, affinché le istituzioni si conformino al mio vulnerabile io». Che i fatti s’infischino serenamente delle nostre emozioni, poi, è un dettaglio trascurabile. Specie se viviamo in un guscio. (Anna Momigliano)

 

Richard Ford – Tra di loro (Feltrinelli) trad. Vincenzo Mantovani

shadow_image_104907Durante l’infanzia la mia paura più grande, che solo per coincidenza era anche il mio pensiero più adulto, era pensare che un giorno quella vita felice sarebbe finita: la casa in cui ero cresciuto sarebbe diventata casa d’altri, i miei genitori sarebbero invecchiati e, alla fine, morti, e io stesso mi sarei allontanato dalla mia famiglia per non farvi più ritorno. Nella mente di un bambino di pochi anni d’età passano miriadi di pensieri destinati ai genitori, l’orizzonte di un mondo costruito su misura per lui: ma cosa può dire un bambino di quelle due persone, quanto può conoscerle, quant’è in grado di valutarne pregi e difetti? «L’incompleta conoscenza delle vite dei nostri genitori non è una condizione delle loro vite. È una condizione soltanto delle nostre», scrive Richard Ford nel suo nuovo libro, che assume i contorni di un’inchiesta sentimentale delicatissima ma straordinariamente metodica. Il grande narratore del Midwest americano si interroga sulla lunga vita che l’ha preceduto, quella dei suoi genitori negli Stati del sud degli anni Trenta e Quaranta, si chiede quali altre strade avrebbe potuto prendere («vedere il proprio avvento come un fatto che ha i suoi pro e contro non è necessariamente sbagliato»), giunge alla conclusione di essere stato amato in quel modo per via di ciò che l’ha preceduto, per la storia e i caratteri delle persone che l’hanno voluto. Parker ed Edna sono due lavoratori senza pretese che vedono la Depressione e le guerre mondiali scorrergli accanto, senza esserne troppo coinvolti; vivono nei motel, nei locali, sulle strade: lui è commesso viaggiatore per una società di Kansas City, lei inizia a dargli una mano con campioni e ordini all’ingrosso. Si amano molto, e si ameranno per tutta la vita. Tra di loro unisce due memoir scritti in tempi distinti: quello sul padre, la grande presenza-assenza della vita di Ford, è recente; quello sulla madre risale al 1986, lo stesso anno di pubblicazione di Sportswriter. In realtà a domande come «quali erano le loro frustrazioni, i taciti desideri di mia madre?» non si può rispondere, ed è un’impossibilità insita nel rapporto figlio-genitori. Rimane, essenzialmente, la nostalgia. Scrive Richard Ford di Parker Ford: «Settant’anni dopo non riesco a ricordare il suono della sua voce, anche se lo desidero ardentemente». (Davide Piacenza)

 

Pascale Robert-Diard – La deposizione (Einaudi) trad. Margherita Botto

shadow_image_104746Bisognerebbe indagare sul perché l’estate e la cronaca nera vadano così bene a braccetto. I migliori casi di cronaca – quelli più seguiti – sono quelli che esplodono tra luglio e agosto – ora, mentre scrivo, mi è apparsa davanti agli occhi la parola antiquaria “rotocalco – e, sotto l’ombrellone, poche cose danno più soddisfazione di un classico Simenon. Il sole splendente e i cieli azzurri dovrebbero indurre a più miti consigli, sembrano così lontani dalla cupezza e dal buio di un omicidio. Eppure non è così e, se esistesse un disco dell’estate dell’editoria, non esiterei a candidare per il 2017 La deposizione, un crime potente, che si fa divorare, e che per giunta si muove tra luoghi tipicamente estivi come Costa Azzurra, Italia, Marocco. Scritto da una nota cronista giudiziaria di Le Monde, racconta, con un passo iper-letterario, un omicidio rimasto insoluto per 40 anni. Ci sono dentro le atmosfere ambigue della ricchezza di provincia, una sessualità predatoria, la storia drammatica di una famiglia frantumata, la tragedia greca e Freud. Ci si chiede anche, nonostante la ricchezza di materiale narrativo (e una certa capacità di trattare televisivamente il crime: Un giorno in pretura, Storie maledette, Chi l’ha visto…), perché in Italia nessuno abbia ancora scritto un libro di questo genere così bello e appassionante. (Cristiano de Majo)

 

Sarah Manguso – Il salto. Elegia per un amico (NN Editore) trad. Gioia Guerzoni

shadow_image_107888Credo che la mente di alcune persone sia occupata, per la maggior parte del tempo, a percorrere a ritroso strade già percorse, piuttosto che a immaginarne di nuove, a ricordare, anziché proiettare. Anche nel ricordo, tuttavia, ci sono innumerevoli creazioni, sono quelle fatte dai “se” o dai “se non”: chi ricorda inventa costantemente ucronie e mondi possibili. Il salto di Sarah Manguso è in grande parte un libro che parla di ricordi. Non in senso astratto: è un libro fatto di ricordi. Ognuno di poche righe, in ordine sparso, a volte collegati tra di loro, a volte meno, così come funzionano i ricordi. Il ricordo da cui l’intera macchine prende le mosse è quello della notizia del suicidio di Harris, un amico di Manguso. Il resto sono riflessioni su quel salto, dalla banchina contro un treno in corsa, su come si sarebbe potuto evitarlo, su quanta vita non era stata vissuta prima, su quante e quali erano state le opportunità sprecate, quali i momenti felici, i luoghi percorsi insieme, gli oggetti. Ci sono soprattutto i ricordi del corpo di Harris, ciò che più rimane del passato – immagini non sincere ma idealizzate, quasi sacralizzato. C’è una struttura così libera – in un certo senso anche furba, ma funzionale all’anarchia dei frammenti del passato – che ricorda Speedboat di Renata Adler (Mai ci eravamo annoiati in italiano, per Mondadori) e certi periodi luminosi che dicono “Joan Didion”, e ci sono movimenti di contro-astrazione, zoom narrativi sulle piccole cose, che mi hanno fatto pensare a Instagram. La frase che l’editore ha scelto di riportare su una bandella è una delle prime e una di quelle che unisce tutte queste caratteristiche: «Gli piaceva il pesce bianco mantecato. Gli piaceva bere il Manhattan. Era saltato davanti al treno, fine della storia». (Davide Coppo)

 

In lettura

Estratti da libri che stiamo leggendo, novità o ristampe.

Noah Strycker – Volare. La straordinaria vita degli uccelli (Codice) trad. Monica Belmondo

volareImmaginate cosa accadrebbe se fossero gli uccelli a studiare noi. Da quali caratteristiche umane sarebbero attratti? Che conclusioni trarrebbero? Forse, come fa la maggioranza degli scienziati, gli uccelli comincerebbero dagli elementi fondamentali e dedicherebbero molto del loro tempo a rilevare i nostri parametri corporei: peso, altezza, forza, pulsazioni, dimensioni del cervello, capacità polmonare, colore, tasso di crescita, aspettativa di vita e così via. Gli uccelli con mentalità accademica potrebbero riempire volumi interi di osservazioni cliniche e fisiche sulle persone. Beninteso, dovrebbero inviare squadre di tecnici sul campo a raccogliere i dati. Vi potrebbe capitare di uscire di casa una mattina e trovarvi intrappolati in una rete invisibile, circondati da un esercito efficiente di giovani pettirossi armati di righello e bilancia. Senza dubbio vi libererebbero poco dopo, e in buone condizioni, a parte l’imbarazzo per la cattura e la perdita di qualche ciocca di capelli strappata con grande cautela. A quel punto i pettirossi si ritirerebbero per analizzare i dati raccolti.

 

Anthony Doerr – Il collezionista di conchiglie (Rizzoli) trad. Daniele. A. Gewurz e Isabella Zani

aLa ragazza comincia a lasciare cose da mangiare su un moncone d’albero, a nemmeno cento metri dall’orto: un tramezzino al tonno, un sacchetto di carote, un tovagliolo pieno di patatine. Joseph mangia tutto ma si sente lievemente in colpa, come se stesse barando, come se questo aiuto da parte di lei fosse una scorrettezza. Dopo un’altra settimana di mezzenotti, a guardarla muoversi a tentoni per la foresta, non ce la fa più e le si piazza nel cono di luce. Lei si ferma; gli occhi, già sgranati, si spalancano ancor di più. Spegne la torcia e la posa tra le foglie. Tra i rami aleggia una foschia pallida. È una situazione di stallo; la ragazza non ha l’aria di sentirsi minacciata, ma tiene le mani appena discoste dalle anche, come un pistolero. Poi comincia a muovere le braccia in una breve danza complicata, colpendo il palmo di una mano con il taglio dell’altra, facendo cerchi in aria con le dita, toccandosi l’orecchio destro e infine puntando i due indici verso Joseph. Lui non sa che pensare. Le dita della ragazza ripetono la danza: le mani tracciano un cerchio, i palmi si girano verso l’alto, le dita si intrecciano. Le labbra si muovono ma non emettono suono. Al polso porta un grosso orologio d’argento che sale e scende per l’avambraccio mentre gesticola. «Non capisco». La voce gli si incrina per quanto poco l’ha usata. Fa dei cenni verso la casa. «Vada via. Mi dispiace. Non deve più venire da queste parti. Prima o poi la cercheranno». Ma la ragazza ricomincia la sequenza, girando la mano, colpendosi il petto, muovendo le labbra silenziosamente.

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