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Il successo annunciato di House of the Dragon

La premiere dello spinoff di Game of Thrones è stata la più vista nella storia di Hbo, una conferma del fascino della saga di George R.R. Martin e forse l'inizio della prossima ossessione televisiva mondiale.

di Studio

Un'immagine del primo episodio di House of the Dragon, "The heirs of the dragon"

C’è un video che sta girando molto su Twitter che spiega bene perché la premiere di House of the Dragon – lo spinoff/prequel di Game of Thrones il cui primo episodio è stato trasmesso ieri in Usa e anche in Italia, dove si può vedere su Sky e NOW – è già uno degli eventi televisivi dell’anno. In questo video si vede la facciata di un palazzo newyorchese, un grosso reticolo di mattoni rossi e finestre senza tende che danno sulla strada. Alcune di queste finestre si illuminano della luce emessa dagli schermi televisivi, seguendo tutte e sempre la stessa sequenza ripetitiva, come le lucette appese all’albero di Natale. Dentro quelle case, le persone stanno guardando lo stesso programma tv: «In tutti quegli appartamenti stanno tutti guardando Thrones», dice la didascalia sovraimpressa all’immagine. Thrones è un modo semplice e veloce per far capire di cosa si stia parlando: di House of the Dragon, cioè lo spinoff/prequel di Game of Thrones, perché l’ordine di grandezza è ovviamente ancora questo. Ma non è detto che questo resti.

Hbo, il network che trasmetteva Game of Thrones e trasmette House of the Dragon, ha fatto sapere in queste ore che la premiere di ieri è stata la più vista della sua storia: l’hanno seguita dieci milioni di persone, tra tv via cavo e piattaforma streaming Hbo Max. Per farsi un’idea: il primo episodio di Succession fu visto da 1.4 milioni di spettatori, la premiere dalla seconda stagione di Euphoria da 2.2, quella di Game of Thrones da 4.2 milioni. È per questo che il rinnovo di House of the Dragon è più o meno una formalità. Non che questi numeri abbiano sorpreso nessuno. Oltre a “ereditare” il patrimonio lasciato da Game of Thrones, lo show più visto, più premiato e più piratato nella storia della tv, Hbo ha investito sulla promozione di House of the Dragon cento milioni di dollari, la più grande campagna di marketing nella storia del network. Spesa alla quale vanno poi aggiunti i circa venti milioni di dollari necessari alla realizzazione di ognuno dei dieci episodi che compongono la prima stagione. Un investimento che per il momento sembra aver pagato: oltre al successo di pubblico, le prime recensioni di House of the Dragon sono tutte abbastanza concordi nel riconoscerne gli altissimi valori produttivi e anche le più critiche – e ce ne sono, come quella in cui Sophie Gilbert dell’Atlantic scrive che si tratta semplicemente di «una serie sull’incesto» – non ne mettono in dubbio la rilevanza nel futuro panorama televisivo.

Che Game of Thrones non sarebbe finita con l’ultimo episodio di Game of Thrones era una cosa nota da anni. Più o meno dal 2016, quando Hbo cominciò a pensare a possibili prequel, sequel e/o spinoff attraverso i quali costruire un franchise che nelle intenzioni del network dovrebbe essere il suo Guerre stellari: un forever franchise, come Adam Rogers definì proprio Guerre stellari su Wired nel 2015. Attorno a questo tentativo di trasformare una serie in un universo è nata, in questi anni, una narrativa a sé stante. Probabilmente il miglior compendio di tutto quello che è successo dal finale di Game of Thrones alla premiere di House of the Dragon l’ha fatta James Hibberd sull’Hollywood Reporter. Hibberd racconta come Hbo avesse affidato a un team appositamente creato il compito di leggere tutto quello che George R.R. Martin aveva scritto su Westeros e di vedere quali e quanti di questi scritti potessero essere trasformati in serie tv. Dal lavoro di questo team vennero fuori addirittura quindici proposte, ovvero quindici possibili show. Casey Bloys, Chief content officer di Hbo, ha detto che l’azienda in quel momento era aperta a tutto e che «anche la più strana delle idee per noi non era un problema». Di quelle quindici proposte iniziali ne furono scelte cinque da trasformare in veri e propri pitch, una fase produttiva che è stata ironicamente ribattezzata “la guerra dei cinque pitch”, una citazione della Guerra dei Cinque Re raccontata nei libri e nella serie.

Di questi cinque pitch ne fu scelto uno a cui fu dato il titolo di lavoro Bloodmoon, un prequel ambientato diecimila anni prima le storie di Daenerys, Jon e Tyrion, un periodo della storia di Westeros al quale Martin ha dedicato circa otto righe nelle migliaia e migliaia di pagine delle Cronache del ghiaccio e del fuoco. Di Bloodmoon fu realizzato un episodio pilota, la protagonista era Naomi Watts e per girarlo furono spesi tra i 30 e 35 milioni di dollari. A parte i dirigenti di Hbo, quel pilota non lo ha mai visto nessuno, nemmeno Martin: la serie alla fine non si fece. Non è mai stata data una spiegazione ufficiale di questa scelta, al di là di una generica “eccessiva difficoltà” dell’opera: la showrunner Jane Goldman avrebbe dovuto inventare praticamente tutto lei e non avrebbe potuto contare sull’aiuto di Martin nella scrittura della serie. Stando a quel poco che Goldman ha raccontato, l’impresa non la spaventava affatto: aveva già scelto gli sceneggiatori che l’avrebbero aiutata a scrivere la prima stagione e si stava preparando a correggere il pilota seguendo le indicazioni del network. Pare che per lei la decisione di Hbo sia stata «uno shock».

È così che si arriva a House of the Dragon, un adattamento di una parte di un romanzo di Martin intitolato Fuoco e sangue dedicato alla storia della dinastia Targaryen, quella di cui Daenerys di Game of Thrones era l’ultima erede rimasta in vita, quella i cui membri avevano i capelli color dell’argento e i draghi come animali da compagnia. In particolare, House of the Dragon racconta uno scontro dinastico – la Danza dei Draghi – avvenuto duecento anni prima gli eventi raccontati nella serie originale, un trono conteso che porterà i Sette Regni di Westeros alla guerra civile. Come detto, i protagonisti della storia sono soprattutto i Targaryen, una famiglia con un albero genealogico talmente grande e con rami così intricati che per spiegarlo si è reso necessario un lunghissimo e precisissimo pezzo di Vox.

Il compito di raccontare questa parte di storia dei Sette Regni è stato affidato al regista Miguel Sapochnik (che ha diretto alcuni dei migliori episodi di Game of Thrones, come “Hardhome”, “Battle of the Bastards” e “Winds of Winter”). Accanto a lui ci sarà lo showrunner Ryan Condal, autodefinitosi superfan di Martin e della sua saga letteraria. I due, Martin e Condal, si sono conosciuti nel 2013, quando Martin era sul set di una serie tv che stava scrivendo per Nbc e Condal lo contattò per offrirgli una cena. Cinque anni dopo fu Martin a scrivere a Condal e a chiedergli di vedersi. Si incontrarono a cena e Martin raccontò all’amico la sua delusione più recente: Hbo aveva deciso che il primo spinoff di Game of Thrones sarebbe stato Bloodmoon e non una serie sulla Danza dei Draghi, come lui avrebbe preferito. A quel punto, Condal iniziò a parlare di come avrebbe fatto la serie sulla Danza dei Draghi se lo showrunner fosse stato lui. Il giorno dopo, ricevette una telefonata dai suoi agenti: Hbo li aveva chiamati per avvertirli che si aspettavano un pitch scritto da Condal sulla guerra dinastica tra i Targaryen il prima possibile. Martin – che nel frattempo, dopo le proteste dei fan seguite all’ultima stagione di Game of Thrones, ha firmato un contratto con Hbo che gli dà l’ultima parola su tutto ciò che riguarda il suo universo narrativo – ha detto di aver suggerito lui il nome di Condal ai dirigenti del network.

Mentre era impegnato sul set di House of the Dragon, molte persone hanno chiesto a Condal di cambiare il nome di alcuni dei personaggi raccontati nella serie: alcuni sono impronunciabili e incomprensibili, per il pubblico potrebbe essere un problema capirli e ricordarli, un conto è leggerli e un altro sentirli. Nella risposta di Condal sta forse la ragione per la quale alla fine la serie scelta da Hbo è stata la sua e non quella di Jane Goldman: «Non posso assolutamente farlo».